Quest’anno, nelle classi, le e gli insegnanti hanno garantito lezioni particolari, uniche, in qualche caso coraggiose. Per molti la didattica a distanza si è sovrapposta a quella in presenza. Le compagne e i compagni di classe non sono stati sinonimi di abbracci, spinte, gioco, tatto, sguardi. Nemmeno la ragazza del primo banco, “la più carina, la più cretina” messa in musica da Antonello Venditti, ha potuto diventare protagonista di una relazione o di un sogno o di un chissà fatto di mani che si sfiorano per davvero. Eppure, negli ambienti della scuola, si è comunque imparato, e tanto, e bene, anche se i banchi erano tavoli della cucina e la cattedra era lo schermo di un tablet.
Ora quest’anno di scuola sta per terminare. Dalla prima lei andrà in seconda, dalle elementari il piccoletto passerà alla scuola media, dalla scuola superiore loro si iscriveranno all’università (ma solo se supereranno l’esame di maturità).
Svuotando la cartella con i manuali, si chiude un ciclo: l’avventura ripartirà dopo la pausa estiva ma intanto, evviva, è quasi tempo di vacanze.
Andare a scuola per riposare
La scuola è il luogo in cui si formano le coscienze della società che verrà, è un punto fermo nella società, è un’organizzazione stabile e solida e metodica dell’insegnamento. La scuola è come quel fiume in cui puoi immergerti: sei consapevole che l’acqua non è mai la stessa di prima ma resti anche consapevole che con il passare degli anni il fiume rimarrà sempre lì, in grado di portare via i detriti, di abbeverare, di consentire nuovi giochi e nuove pulizie.
La parola scuola ha un’origine affascinante e curiosa: in greco antico skholḗ significava ‘studio, ricerca, scuola’, ma propriamente ‘tempo libero, quiete, riposo’. Da quell’antico sostantivo pronunciato ad Atene, il latino ha generato schŏla(m), da cui l’italiano scuola, voce affine in tutte le lingue europee. Il verbo greco skholàzo aiuta ancora meglio a comprendere il senso di libertà e quiete che la scuola dell’origine poteva donare: questo verbo significava ‘ho tempo libero’, ‘sono disoccupato’, ‘non ho niente da fare’, ‘resto in ozio’. Insomma, è il verbo dei bighelloni e dei nullafacenti, dei pigri e di coloro che si attardano nella tranquillità.
Va detto sottovoce agli scolari, perché non prendano troppo sul serio gli impatti dell’etimologia sulla realtà del loro impegno. “Colui che apre la porta di una scuola chiude una prigione” diceva lo scrittore francese Victor Hugo. E di prigioni che si chiudono per sempre l’umanità ha un gran bisogno.
Studiare con desiderio
A scuola si va (anche) per studiare. E dallo studio emerge tutta l’applicazione che alunne e alunni possono mettere a disposizione: studio deriva dal latino stŭdĭum, che significava ‘zelo, cura’ e anche ‘interesse, propensione, passione’.
Il verbo da cui proviene il sostantivo era studēre che voleva dire ‘aspirare, desiderare vivamente; applicarsi, occuparsi con passione’ e solo poi ‘studiare’. Lo studio realizzato senza passione è sinonimo di fatica ma quando la scintilla della passione scocca lo studio diventa desiderio, voglia mai appagata, smania di saperne di più. Più una persona studia e legge e più si allungano gli scaffali della biblioteca che vorrebbe avere a disposizione.
Studiare significa passione che non scema nel tempo, anche se nel tempo si sono modificati i modi e i mezzi dello studio. Umberto Eco aveva scritto: “Una vota un tale che doveva fare una ricerca, andava in biblioteca, trovava dieci libri sull’argomento, li leggeva. Oggi schiaccia un bottone sul suo computer, riceve una bibliografia di diecimila titoli e rinuncia”.
Prendere con altre persone
Studiare comunque è il mezzo, il fine più immediato è l’apprendere, che vuol dire afferrare qualcosa, impadronirsi di un contenuto, cogliere. Nell’apprendere troviamo il prendere, che significa afferrare una cosa o una persona con le mani o tra le braccia, sollevarla dalla terra, spostarla secondo le proprie intenzioni.
Ecco nell’apprendere conserviamo questa idea di intenzionalità: prendiamo in noi perché lo vogliamo fare. Altrimenti, se non vogliamo apprendere, viviamo esperienze senza senso, che ci scivolano addosso ma non ci lasciano nulla, nemmeno una ferita sulla pelle, nemmeno una scalfittura nell’animo.
Per apprendere (in latino apprehendĕre, con il prefisso ad-) abbiamo bisogno prima di comprendere (in latino classico comprehendĕre, con il prefisso cum-, che indicava partecipazione, assenza di solitudine, realizzazione insieme ad altri): senza comprensione non c’è apprendimento. Non prendo “ad-” senza essere prima passato per il “con-”. Il nostro apprendimento è spesso sociale, collettivo, condiviso con altre persone.
Essere preparati alla partorienza
Apprendere è sinonimo di imparare. E osservare la parola imparare ci conduce ad ammirare panorami di straordinaria bellezza. Imparare sta per parare dentro di noi, cioè prendere possesso nel nostro animo, procurare qualcosa a noi stessi, acquisire nel nostro cuore e nella nostra mente. In- è la particella chiave della riflessione: dentro, in profondità, non in superficie, all’interno.
La parola parare poi ci conduce a una danza di significati.
Il verbo latino parāre voleva dire ‘apparecchiare, preparare, allestire’. Alcuni dizionari segnalano che quel verbo è una forma durativa di parĕre ‘partorire’, il cui valore primitivo era ‘procurare’. Parare ha dunque il significato di ‘preparare’, come forma di ‘partorienza’ che dura nel tempo. Forzando la storia della lingua ma acquisendo una dimensione ricca di significato, possiamo quindi dire che imparare equivale a consentire un parto dentro di noi, a promuovere una nascita, a generare il nuovo, fatto di connessioni, di disvelamenti, di perché portati alla luce.
Nelle lingue derivanti dal latino, come l’italiano, il verbo parāre si è sviluppato in due direzioni diverse: da un lato nel significato di ‘ornare’, come nel derivato italiano paramento o nella parata militare, dall’altro nel significato di ‘frapporre un ostacolo, fermare’, come nel derivato italiano paratoia o nella parata che fa il portiere per fermare la palla.
Nell’imparare orniamo noi stessi di nuove conoscenze e fermiamo con una paratoia le vertigini dell’insipienza.
Imparare significa anche cogliere le suggestioni delle parole, che spesso ci portano a restare immagati di fronte a paesaggi che conoscevamo già ma del cui sorprendente splendore non ci eravamo mai resi davvero conto.
Segnare dentro i cuori e le menti
Per imparare al meglio, nelle scuole sono indispensabili insegnanti capaci. Ho avuto la fortuna di conoscerne molti e molte, nelle diverse tappe del percorso che è stato, e anche i miei figli hanno la fortuna di frequentare persone così: non è la lezione a fare la grande differenza (quella si dimentica in fretta) ma la capacità di lasciare un segno dentro.
Le e gli insegnanti in gamba sono infatti in-segnanti, ti segnano nel cuore, ti incidono la carne, ti lasciano scolpito un signum, che in latino era allo stesso tempo l’insegna, il marchio e il segnale. Dovremmo sempre trasformare il sostantivo in aggettivo e parlare di donne e uomini in-segnanti, con le insegne del bene che diventano vele colorate da ammirare da lontano, con i segnali che ci servono per scoprire qual è la nostra rotta, con i segni che ci imprimono dentro per la vita.
Diventare grandi, sempre di più
Talvolta le insegnanti sono maestre e gli insegnanti maestri. Nelle loro parole si rivela la grandezza del ruolo che esercitano: il latino magĭster è derivato di magis ‘più’ col significato primitivo di ‘superiore’, contrapposto a minister ‘servitore, aiutante’, da cui in italiano è derivata la parola ministro. Le maestre e i maestri non fanno al posto degli scolari: come dice un proverbio cinese “il maestro apre la porta ma tu devi entrare da solo”.
Anche San Tommaso, il dottore della Chiesa, il frate domenicano che ha saputo coniugare il pensiero classico con le parole del vangelo, era dello stesso avviso: “Il maestro si limita a “muovere”, a stimolare il discepolo e il discepolo solo se risponde a questo stimolo – sia durante che dopo l’esposizione del maestro – arriva ad un vero apprendimento”. Maestre e maestri srotolano paesaggi, sta a chi impara saperli ammirare.
La favola della lezione
Dopo la scuola primaria (o elementare com’era prima del 2003, prima della riforma Moratti), si accede alla scuola secondaria di primo grado e lì maestre e maestri lasciano il passo a professoresse e professori. Anche in questo caso, alcune persone che esercitano questa professione sono grandi (nel senso di magis) e sono capaci di in-segnare. Professore è una voce della prima metà del Trecento, mentre professoressa appare solo nel 1897 (mentre la voce maestra è attestata già prima del 1294). Il che fa riflettere.
In latino professor era derivato del verbo profiteri, che aveva il significato di ‘dichiarare pubblicamente’ e anche di insegnare pubblicamente’. Quel verbo derivava a sua volta da fatēri, che voleva dire ‘confessare’, e che è connesso con fāri, che significava ‘parlare’. Da quell’antico fāri, si sono generate in italiano le favole, la fama e il fato, nel senso della ‘sorte’, del ‘destino’ e più precisamente di ‘ciò che è stato detto dagli dei’. Il mestiere della professoressa e del professore è quindi fortemente annodato con l’idea del parlare, con la voce, con le parole che nelle aule diventano sostanza delle idee.
Le parole a scuola hanno questo scopo, come scriveva il romanziere e saggista francese Daniel Pennac: “Fare in modo che a ogni lezione scocchi l’ora del risveglio”. Per ogni lezione, le parole fanno scoccare l’ora del risveglio. E anche i dieci minuti della ricreazione si trasformano per incanto nei minuti della ri-creazione, una creazione rinnovata grazie al risveglio dell’ora di lezione.
Docenti e discenti, la stessa pasta
Gli insegnanti si chiamano anche docenti. Docente è participio presente del verbo docēre. Nella Roma antica, docēre voleva dire ‘far imparare’ ed è un verbo cosiddetto “causativo”. La radice antica che ha generato docēre è dek, con il significato di ‘ricevere’. La stessa radice di ritrova in discente (ancora dal latino, discĕre, ‘imparare’) e anche in didattico e in didascalia (i questo caso le parole derivano dal verbo greco didáskō ‘insegno, istruisco’.
Il bravo docente, la brava docente è una didascalia collocata a corredo di un’esistenza, è un sottotitolo che aiuta a capire e a definire il percorso del discente, che del resto è realizzato con la sua stessa pasta. Perché la radice è la medesima. Perché l’origine li accomuna.