Ci sono miti che appartengono a un immaginario comune e condiviso, mentre altri si manifestano da frammenti nascosti, da autori poco frequentati, piccoli inestimabili tesori spesso portatori di significati di grande bellezza. Un prezioso frammento narrativo affiora dalle pagine di Ateneo di Naucrati, uno scrittore egizio del II secolo d.C.: una storiella popolare che probabilmente sarebbe scomparsa nel naufragio di tanta tradizione antica, se non fosse confluita nella congerie disordinata di argomenti, aneddoti e citazioni letterarie presenti nell’opera I Deipnosofisti, un grande contenitore magico di mirabilia che si rivelano un’importantissima fonte di informazioni sugli aspetti più variegati della società, del costume e della conoscenza antica.
L’aneddoto si muove tra leggenda e racconto eziologico, palesando un’inaspettata teofania della dea Afrodite, che riconduce alla natura botanica del culto di questa dea: un sostrato forse preellenico che connette l’archetipo al mondo vegetale in quanto rivelazione dell’essenza vitale e spontanea del sacro femminino, e in modo ancora più delicato e allusivo a fiori, erbe medicinali o alberi considerati sacri. Spesso i simulacri più antichi delle dee erano intagliati proprio nel legno di queste piante.
Più di ogni altra divinità, Afrodite ha trattenuto questa “memoria botanica”. La stessa quintessenza della dea era infatti espressione di fioritura, di viriditas, di “vita fresca e aulente”. Molte specie vegetali hanno portato il suo nome, presumendo di interpretare aspetti della sua corporeità: il capelvenere, la scarpetta di Venere, l’ombelico di Venere, il sopracciglio di Venere e molte altre ancora. Ci sono poi casi in cui la valenza afrodisiaca oppure l’impiego cosmetico o medicamentoso hanno permesso di associare una pianta al suo patronato. Fra tutte, il mirto è quella che ne ha maggiormente condiviso il vissuto mitico: si racconta infatti che quando la dea nacque, emergendo dalla spuma delle onde, còlta da pudore per la propria nudità si nascose proprio dietro un cespuglio di mirto.
Libero, spontaneo e prolifico, deliziosamente profumato, questo arbusto interpreta l’amore sensuale che la dea predilige: forse era ricondotto a lei anche per la fragilità dei suoi rametti, che sono soggetti a spezzarsi con facilità, come gli incostanti desideri d’amore. Con il nome della pianta, myrrìne, i greci erano soliti indicare i genitali femminili; specularmente, in medicina le sue virtù medicinali si ritenevano utili per il trattamento dei problemi ginecologici. Ma la leggenda narrata da Ateneo, oltre che guidarci nel cuore del dominio vegetale di questa dea, che aveva fra gli epiteti quello di Myrtea, ce la presenta nella sua veste di Euplea, cioè protettrice dei naviganti. Le tessiture sono sottili e significative, e rimandano al mirto come arbusto che predilige i litorali marini, che ne sono fecondi.
Il nostro concittadino Erostrato, in viaggio per mare per scopi commerciali, toccava molte terre. Un giorno approdò anche a Pafo, nell’isola di Cipro, dove acquistò una statuetta di Afrodite di antica fattura, alta una spanna. Di ritorno a Naucrati, la portò con sé. Quando ormai era in vista dell’Egitto, poiché su di lui improvvisamente si abbatté una tempesta e non era più possibile capire in quale parte della terra fossero, andarono tutti quanti a rifugiarsi vicino alla statua di Afrodite e pregavano che la dea li salvasse. Quando i marinai, presi da grande nausea e da forti conati di vomito, disperavano ormai della salvezza, la dea improvvisamente riempì tutto lo spazio intorno a lei di verdi rami di mirto e sparse per tutta la nave un dolcissimo profumo. Allo spuntar del sole essi scorsero il porto e approdarono a Naucrati. Erostrato sbarcò portando con sé la statua e anche i verdi rami di mirto che gli erano apparsi improvvisamente, e li offrì al tempio di Afrodite. Dopo aver sacrificato alla dea e dedicato la statua ad Afrodite, invitò i suoi parenti e amici più stretti ad un banchetto nello stesso tempio e a ciascuno di essi offrì una corona fatta con i rami di mirto, che da lui, già in quell’occasione, fu chiamata ‘corona di Naucrati’.
Attraverso la sua manifestazione vegetale la dea fonde e confonde il suo divino potere salvifico con le virtù curative della teofania arborea che la rappresenta, come traspare dal particolare da cui si evince che la fragranza del mirto è in grado di agire sul malessere fisico e sulla prostrazione dei marinai, infondendo nuovo vigore e sottolineando la vocazione olfattiva di questa divinità. Era convinzione che i profumi possedessero virtù medicamentose intrinseche e che inalarli apportasse benefici fisici e psichici: la filosofia medica greca avrebbe in seguito definito “farmakodòs” tale caratteristica della natura degli aromi, ma qui il mito, che pone la vis taumaturgica in relazione all’intervento di divinità propizie e spiega ogni cosa attraverso l’incanto della narrazione e dei suoi simboli, a modo suo, con un tocco di delicata poesia, ha anticipato la scienza.