La fotografia è l’arte di mostrare di quanti istanti effimeri la vita sia fatta.
(Marcel Proust)
Sono cresciuta tra le fotografie, ho conosciuto quest’arte da mio padre, Giovanni, che amava definirsi un “artigiano della fotografia”. Ricordo bene le rare volte in cui sono entrata nel suo regno, la “camera oscura”, e assistevo meravigliata al processo dello sviluppo e stampa delle fotografie, le immagini emergevano dal vuoto della carta bianca come per magia. E ricordo altrettanto bene quando con l’avvento della fotografia digitale disse “È finita la fotografia!”, lui era esperto nella tecnica del ritocco che utilizzava per imprimere nella foto la sua visione artistica. La macchina fotografica era la sua estensione, come un arto supplementare, lo strumento del suo lavoro e del suo tempo libero, dei momenti familiari. A volte lo vedevo seduto in giardino assorto nella contemplazione di un fiore, rapito da tanta bellezza, poi prendeva la sua Hasselblad e scattava, sapendo che l’immagine sarebbe svanita nella memoria.
Fin da bambina mi sono chiesta perché aveva scelto questa professione, quando glielo chiedevo la risposta si limitava ad un luccichio nei suoi occhi. Nel tempo ho dato una mia interpretazione: mio padre perse sua madre per una malattia fulminante a 7 anni, i ricordi di lei erano pochissimi e sfumati, il desiderio di fotografare nasceva in lui dalla necessità, dall’urgenza di fermare quella successione di adesso che è la vita in fotogrammi, per compensare quel cassetto vuoto nella sua memoria. Eh già… la memoria.
L’amore è la forza che reclama il ricordo di un’immagine, anche spiacevole perché l’amore ha la capacità di trasmutarlo.
Ma cosa succederebbe se ricordassimo tutto? L’uomo si destreggia come un funambolo sospeso tra l’oblio che difende la mente dall’eccesso di informazioni e la memoria che opera una selezione e preserva i ricordi significativi del passato per poi costruire il futuro. Non ricordare nulla equivale al ricordare tutto, entrambi gettano nella disperazione. La memoria totale può essere non un dono ma una maledizione, come nel racconto di Jorge Luis Borges Funes el memorioso in cui il protagonista, il contadino Ireneo Funes, dopo una caduta rovinosa con il conseguente trauma cranico, recupera la memoria di ogni cosa e ad un certo punto afferma: “Ho più ricordi io da solo di quanti ne avranno avuti tutti gli uomini da quando il mondo è mondo”. Borges suggerisce che la memoria è una realtà dinamica, mutevole e infedele ai fatti, è un’interpretazione soggettiva significativa. Ricordo infatti ciò che voglio e come voglio. Ancora Jorge Luis Borges: “Noi siamo la nostra memoria, noi siamo questo museo chimerico di forme incostanti, questo mucchio di specchi rotti".
La fotografia è nata dall’idea di fissare il divenire di una forma in immagine, di concettualizzarla nella memoria, creando uno strumento capace di fissare l’interazione tra luce e materia. Fotografia, dal greco φῶς, φωτός, luce e grafia γραϕία, scrittura ovvero "scrittura di/con la luce", è una magnifica mistura di arte e tecnologia.
La fotografia non mostra la realtà, ma l’idea che se ne ha.
(Neil Leifer)
Se si considera che il mondo è una continua proiezione di immagini, di eidos platonicamente intese come le “forme” con cui il Demiurgo (termine introdotto nel Timeo da Platone ad indicare l’essere divino generatore) lo ha plasmato e che fanno essere il mondo e che ci permettono di pensare il mondo, allora possiamo intendere le forme come il presupposto della conoscenza. Ma la vera conoscenza risiede nel vuoto che sta intorno alle forme, agli oggetti, il vuoto è il divino che non si può vedere con gli occhi che guardano fuori ma che è l’unica realtà. Tutto è immagine pulsante, appare e scompare incessantemente e simultaneamente, tutto il creato fa offerta di sé ad ogni respiro del mondo. Il fotografo crea fotogrammi di tale sacra offerta e restituisce agli altri la sua visione del mondo nell’attimo in cui scatta.
Esprime bene questo concetto Henri Cartier-Bresson, rinomato fotografo francese chiamato “occhio del secolo” per essere un pioniere del fotogiornalismo ed esponente della fotografia umanista:
Una fotografia non è né catturata né presa con la forza. Essa si offre. È la foto che ti cattura.
Se guardiamo il mondo come alla narrazione mitica degli archetipi e se consideriamo noi stessi degli archetipi allora il tempo non esiste, siamo immortali, eterni come gli archetipi stessi.
Faccio un esempio: non c’è un’onda uguale all’altra ma c’è l’immagine archetipica dell’onda che esiste fin dall’origine. Così ogni eidos contiene un insieme di caratteristiche che rendono possibile sia pensarlo che nominarlo.
Edmund Husserl, il fondatore della fenomenologia che ha influenzato la cultura del Novecento e che si può considerare come il precursore della psicologia cognitiva e dell’intelligenza artificiale, va oltre il senso platonico intendendo con eidos l’essenza oggetto d’intuizione, una struttura invariante degli oggetti dell'esperienza.
Egli introduce così l’aspetto fenomenologico nel considerare l’essenza degli oggetti, essa è fruibile empiricamente e la capacità di individuare queste strutture eidetiche è la condizione necessaria per la denominazione di oggetti e concetti, base del linguaggio. Si può pensare ad un’onda priva di colore ma non si può pensarla priva di estensione. L'estensione sarà quindi una componente della struttura eidetica dell’onda. Così l’indagine fenomenologica dell’esperienza è per Husserl la ricerca delle strutture invarianti.
Quindi la “realtà fenomenica” del mondo è il continuo divenire che però è illusorio e impermanente, come si afferma nella dottrina induista dell’Advaita, mentre la “realtà assoluta” è l’unica realtà non duale. E ancora, nelle Upanisad la Realtà assoluta o Brahman e la pura Realtà Ātman dell'essere individuato o anima individuale, sono la stessa e unica, non esiste la dualità se ci emancipiamo dalla percezione mentale della separazione.
L’Uno è indefinibile e indescrivibile, ogni forma è solo uno dei suoi infiniti aspetti.
Essere consapevoli che tutto è uno e che noi siamo uno con il tutto è arduo perché siamo abituati a pensarci come individui distinti dagli altri, con la propria identità, con le caratteristiche personali che ci distinguono dagli altri ma non è realmente così, siamo tutti immersi in un’unica energia e vibrazione ma vibriamo in infinite frequenze, siamo come gocce d’acqua di un mare che è unico per tutti, quello che Giuliana Conforto chiama campo elettrodebole.
Siamo noi stessi infinite immagini e forme che fluttuano in tale campo.
E la fotografia è capace di registrare le infinite possibili immagini del mondo e di catturare un momento preciso grazie all'effetto della luce.
L’intento della fotografia è di suscitare emozioni in chi le guarda, di identificarsi o meno, di rievocare sensazioni. Le fotografie sono un ponte tra l’anima e il mondo così come le emozioni.
Ma quest’arte contiene in sé un paradosso: la fotografia immortala l’istante, un tramonto, un oggetto, un volto, ma quell’istante immortalato è già passato, è in un certo senso morto, svanito. Cercare di fermare il divenire è impossibile.
Vi sarà capitato di provare a ricordare i volti delle persone che avete amato ma il ricordo è ovattato, sfumato, come attraverso un filtro dove i colori non sono più nitidi, i lineamenti confusi, tutto è avvolto nella penombra. Ogni sforzo mnemonico risulta vano, allora prendi una foto ed eccolo lì il volto in tutti i suoi dettagli, alla chiara luce.
Ebbene, accade perché Eros è nel buio, nell’oscurità, Psiche cerca di vederlo con la mente ma è un’illusione, paradossalmente il fatto di non ricordare il viso dell’amato è proprio opera dell’amore che desidera essere sentito, non visto. È l’amore che vuole fermare il tempo, solo l’amore ti spinge a fermare quell’istante perché è di pura bellezza e ti riempie di gioia.
Ed è per questo motivo che utilizzo le fotografie nei miei percorsi di psicoalchimia, esse sono uno strumento efficace per l’emersione delle emozioni non sentite fino in fondo, non abbracciate come delle amiche, ma controllate, gestite, ma inutilmente perché chi vuole il controllo teme l’amore.
L’osservazione silenziosa e prolungata di alcune foto significative per il soggetto, rievoca le emozioni, con tutta la loro potenza, come in una macchina del tempo si ritorna a quel preciso istante, all’atmosfera e anche ai profumi, sappiamo bene quanto sia evocativa la memoria olfattiva. L’emozione è lo strumento dell’anima, infiamma, scuote, trasforma la materia del corpo, non giunge per ammalare ma per guarire, se non si pensa di esserne vittime.
Le foto annesse all’articolo sono di Jole Licari, mia nipote e fotografa emergente che ha ereditato il gene dell’amore per la fotografia dal nonno. Le ho chiesto cosa rappresenta per lei la fotografia, mi ha risposto: “Mi piace l’idea di poter fermare un istante che resterà tale per sempre, almeno in essa”.
Mi piace pensare che nelle sue parole ci sia anche la risposta di mio padre, e quel luccichio adesso è nei miei occhi.