Cara Sorte,
ti scrivo per affidarti dei pensieri, per lasciarli scorrere nel vento, per dilapidarli al mondo intero, affinché qualcuno li ricordi prima che tu li affidi, crudele, all’oblio del tempo.
Quando ero giovanissima avrei solo voluto esplorare il mondo, continuamente, andando lontano, per terre e per mari incontaminati e inospitali, riscaldata dal sole tropicale e squassata dai venti gelidi del nord. Avrei voluto farlo per mettermi alla prova, per scoprire i miei limiti e superarli, per tornare e raccontarlo, per tornare e gridare al mondo di avercela fatta; per tornare e rendere me stessa e i miei genitori fieri di me.
Ho sempre pensato che ci fosse qualcosa di estremamente poetico nel viaggio e nell’avventura: il primo libro che lessi fu una storiella di pirati, un racconto per ragazzi regalatomi da mio padre, e il mio primo vero romanzo fu L’isola del Tesoro di Stevenson; entrambi storie di viaggi per mare, naufragi, esplorazioni; entrambi racconti di lotta estrema per la sopravvivenza, galeoni, forzieri ricchi di tesori, mappe antiche e ingiallite e piante officinali o commestibili da imparare a distinguere; entrambi vicende di bucanieri e filibuste, corsari e pirati, fortini da espugnare, carne secca da tirar fuori all’occorrenza da grossi sacchi di juta e impolverate bottiglie di rum. E di mare, ovviamente: immenso e blu, aperto e ruggente, sinuoso e terrificante, sublime; come la vita stessa, come l’amore, come la morte, come Dio.
Sono sicura di aver ereditato questo spirito gitano e girovago da mio padre che, ai miei occhi, è sempre apparso eroico: oserei definirlo un leone ribelle, un pensatore fiero, un libero sognatore, un solitario esploratore. Da giovanissimo, negli anni ’70, fuggì in Germania al volante di una Fiat Cinquecento con solo un eskimo verde scuro e castani boccoli arruffati per compagni; un libro di Mao Tse-tung sotto il braccio e l’utopia dell’ideologia comunista nel cuore. Mi piace immaginarlo così, giovane e aitante, con la fronte corrugata e gli occhi socchiusi, come nel gesto di chi cerca di scrutare meglio l’orizzonte, sotto l’argenteo cielo di Heidelberg, mentre il sole, confuso tra le nuvole, gli accendeva leggero il verde degli occhi di brillanti venature azzurre; come il mare. È proprio questo l’effetto che la luce fa ai suoi occhi: me ne accorsi per la prima volta in una mattina d’estate di molti anni fa, mentre sguazzavamo allegri in acqua e mi insegnava a nuotare, quando cominciavo a non usare i braccioli, e ad affidare il mio insignificante peso solo alle onde, e a lui.
In sua compagnia avvenne una delle esperienze per me più emozionanti: era un pomeriggio nuvoloso, non proprio adatto alle nuotate a largo, in cui eravamo scesi in spiaggia per omaggiare amici stranieri che sarebbero ripartiti dopo poco e che volevano a tutti i costi assaporare la costa sassosa e blu del nostro mare. Ci immergemmo tutti, io lentamente, prima fino alle caviglie, e poi fino alle ginocchia perché, come mi aveva insegnato papà, bisogna abituare il corpo all’escursione termica. Una volta dentro, dopo gli schizzi e le risate, iniziammo a percepire sulle teste il ticchettio di insistenti gocce di pioggia. Urlai a mio padre che bisognava uscire, ma lui mi fece cenno di no con il capo e abbozzò un sorrisino furbo: “È più divertente fare il bagno sotto la pioggia!”. Allora rimasi e iniziai a guardarmi meglio intorno: il cielo plumbeo e minaccioso non sembrava che una coltre notturna di serene stelle soffuse, e il tumulto nelle nuvole non era che un lontanissimo sentore di pericolo che, più che atterrire, iniettava un piacevole brivido lungo la schiena, lo stesso che si sente quando si vive qualcosa di unico e irripetibile, quando si avvertono sotto la pelle le esperienze stonate e ribelli dell’esistenza, quando ci si scompone e ci si scompiglia, quando non si pensa alle conseguenze e si percepisce solo il sublime, la poesia e lo spirito delle cose. Aprii la bocca, strizzai gli occhi e tirai fuori la lingua per assaporare tutto il gusto dell’acqua piovana, ma riuscii a sentire solo il tepore delle onde e il profumo di salsedine che mi inebriava il cuore e mi pervadeva le narici; e dell’umido, della terra bagnata nei giorni di afa estiva, che si riposa dallo stordimento della calura e del canto tenace delle cicale.
Ah, l’estate! Niente avvolge e disseta più di questa bella stagione, che inebria i cuori col profumo dei gigli di mare e irradia gli occhi col rosa dell’oleandro, velenoso seduttore, e rallegra alla vista dell’ibisco elegante. Non è certamente un caso se proprio a questo periodo dell’anno siano legati i migliori ricordi della mia infanzia: era il momento in cui trascorrevo più tempo in spensieratezza con mio padre, senza che fosse oberato dai viaggi di lavoro, il ritorno dai quali attendevo sempre con la solita sprezzante gioia. Gli saltavo al collo e lo seguivo festante fino allo studiolo, dove finalmente appoggiava sulla scrivania di legno la sua borsa colma di libri e documenti, che fino a quell’istante aveva tenuto appesa alla spalla sinistra, con la tracolla blu che gli tirava indietro il bavero della giacca che non risistemava mai, spettinato e dissidente come sempre. Non ha mai mostrato molto interesse per gli abiti che indossava, ci teneva molto di più che fossero funzionali e comodi, senza troppi fronzoli, attirandosi così i rimproveri bizzarri della mamma. Questo perché aveva sempre la mente immersa in libri e saggi, perennemente curioso di ogni cosa: sempre concentrato su nuove letture, un giorno di occultismo o di teologia, l’altro di archeologia e storia dell’arte o ufologia; oppure gli era balenata in testa una nuova idea per la creazione di un suo dipinto o mosaico.
Le sue pennellate su tela, il suo tocco inconfondibile, spezzato ed energico, è quanto di più antico io abbia imparato a riconoscere: non avevo ancora compiuto i cinque anni, che già mi ritrovavo immortalata sul muro di casa nostra, con i boccoli corti e un’espressione di curiosità sul volto. Non dimenticherò mai le mattine di giugno in cui mi svegliavo con il sole già alto da un pezzo, e mi affacciavo alla finestra abbagliata dal verde degli ulivi cari ad Atena, dall’oro delle spighe di grano e dal blu cobalto del mare Ionio in lontananza. Divorata di corsa la mia colazione, mi affrettavo a scendere nel laboratorio di mio padre, pronta a tempestarlo di domande sull’opera a cui stava lavorando: sarebbe stato un mosaico o un dipinto a tempera o a olio? Sarebbe stato un ritratto o una rappresentazione di animali circondati da splendidi scorci naturali? E quali: una zebra azzannata da un leone nella savana africana, o un’anatra mandarina, simbolo di eterna fedeltà, accovacciata ai bordi del suo stagno orientale o inglese? O ancora, fieri cavalli al galoppo, pavoni verdi e blu, aquile reali o accesi pappagalli esotici?
Poche cose lo affascinavano più della natura, selvaggia e ordinata allo stesso tempo, regolata inesorabile da rigide e affascinanti leggi, dalla sua filosofia crudele e universale, dall’intelligenza e il cuore immenso dei suoi abitanti. Tra gli scaffali legnosi, i barattoli di colori, gli scatoloni di pregiate tessere da mosaico venete, tavolozze, cavalletti e una miriade di pennelli sparsi per quella stanza, a me così familiare e cara, adoravo ammirare spesso il contenuto di un sinistro barattolo in vetro: la prima volta che lo vidi mi spaventai perché conteneva, immerso nell’alcol, un serpente grigio-verde dai vitrei occhi immobili e spalancati, sinuosamente attorcigliato su se stesso; se ne stava fisso e guardingo come se si fosse appena svegliato, disturbato dai miei passi rumorosi e goffi, e fosse pronto a guizzare scattante dalla sua prigione traslucida. Alla mia espressione atterrita, mio padre abbozzò divertito un sorrisino sotto ai baffi: “Non è mica vivo! Non averne paura. Un gruppo di ragazzetti ignoranti lo ha trovato e ucciso agli scavi archeologici dove lavoro, pensando che si trattasse di una vipera. Non sapevano che è solo una povera comunissima serpe, intenta a nutrirsi di ratti e insetti, assolutamente innocua e troppo lunga e grossa per essere scambiata per la piccola e temibile collega. Ricorda una cosa: non aver mai paura degli animali, basta imparare a conoscerli bene per distinguerli e non farli arrabbiare; come il mare vomita nuovamente a riva tutta l’immondizia di cui l’uomo lo riempie, così ogni habitat naturale tende a difendersi dalle ingerenze esterne di questi umani, troppo spesso così crudeli e idioti per rispettarlo. Non avere paura degli animali, né dei fantasmi: guardati sempre dagli uomini, troppo superbi e civilizzati per anteporre le ragioni del cuore a quelle della cupidigia”.
Amava ammonirmi con queste piccole sagge massime, per prepararmi alla vita esterna; e io le memorizzavo fedelmente, agguerrita e combattiva, pronta a lottare contro i serpenti più temibili che avrei incontrato nel mondo reale, e mirabilmente battuto lungo il mio cammino. A proteggermi un sacco di numi tutelari immortalati nei mosaici di papà: una dorata e maestosa Madonna bizantina Odigitria, una misteriosa fata velata medievale, un cavallo bronzeo greco-romano, un meraviglioso Ulisse vittorioso contro la furia cieca di Polifemo. Come avrei potuto non crescere con la passione per l’antichità e la letteratura, la natura e la storia, con un padre che nei pomeriggi estivi mi accompagnava a mangiare un gelato tra le rovine archeologiche dell’antica Copia romana, e mi insegnava a disegnare, mostrandomi dipinti di Michelangelo e pitture vascolari di anfore greche rosse a figure nere? Come dimenticare l’odore acetato e persistente delle vernici? il fracasso delle tenaglie feroci che spezzavano veloci e alienanti le tessere in smalto? Le bozze a matita di futuri, attesi e a lungo immaginati dipinti su tela? Basta chiudere un attimo gli occhi, per risentire con la voce del cuore quei magici istanti di felicità, chiusi a chiave nei meandri più reconditi dell’anima.
Ah, come è dolce e crudele allo stesso momento la nostalgia! Ti stringe il cuore in una gelida morsa ma te lo fa sentire contemporaneamente pulsare, mentre tenta di schizzare via, in fibrillazione per la gioia del ricordo; quella gioia così forte che ti squassa ogni fibra e ti bagna le gote con mille rivoli di lacrime. È dolce, la nostalgia, ma anche molto pericolosa: bisogna stare attenti a non ammalarsene, a non lasciarsi soggiogare da essa, altrimenti tutto sarebbe perduto, tutta l’esistenza diventerebbe solo uno sterile contenitore di solenni memorie, vestigia di un meraviglioso mondo decaduto, ultimo confortevole porto di un’anima stanca arenata dopo la tormenta. Bisogna, invece, continuare sempre ad andar per mare, nonostante i flutti avversi, nonostante le correnti gelide, nonostante gli iceberg e il turbinio del maelstrom. Perché, cos’altro siamo, se non sognanti viaggiatori, il cui più elevato intento risiede nel perseverare con tenace e fatuo coraggio in disperate ricerche a cui non troveremo mai responso, ma che non per questo abbandoniamo? Fino a quando, scossi con incuria dai venti avversi della sorte, non saremo spazzati via come foglia viride o secca, combatteremo, affondando gli artigli rapaci fin nel midollo della vita.
Cara Sorte, spero di non averti annoiato: ti affido con amore queste parole preziose, foriere di ricordi, speranze e sentimenti legati alla mia vita e a quella della persona a me più vicina e simile, che è tutto questo e molto altro: tutto ciò che non entra nelle pagine e che rimane nascosto nelle pieghe del cuore. A lui dedico ogni vittoria e ogni gioia, ogni conquista e ogni insegnamento appreso perché, guardandomi allo specchio, e rivedendomi addosso quegli stessi occhi flessuosi e dolci, anche se d’un altro colore, sono fiera di riconoscerli come i suoi.
Con speranza e gratitudine,
Tua.