Le nerissime e severissime suore dell’asilo dei tempi dell’infanzia di noi ultrasettantenni d’oggi, non sorridevano mai e rendevano la frequenza dell’asilo una tortura. Tutto disciplina, tutti fermi e zitti, tutti allineati e coperti come soldatini. Unica concessione allo svago l’obbligo del noiosissimo gioco del girotondo in un cortile anonimo e triste, che non divertiva e non rallegrava nessuno. Mano nella mano in cerchio dovevamo per forza recitare in coro la filastrocca, che già allora, agli inizi degli anni Cinquanta del secolo scorso, ci sembrava una scemenza con quel “cavallo imperatondo” di cui non capivamo il significato. Nessuno si sognava nemmeno per un momento di chiedere spiegazioni alla suora di turno. Meglio subire, tacere e, all’occorrenza, per non perdere la cotognata donata alla fine del girotondo, fingere di divertirsi per arrivare, senza intoppi e senza sgridate, al catastrofico finale della terra e del mondo che cascano, con il conseguente “tutti giù per terra!”
Nel corso dei primi due anni delle elementari qualche suora più tenace ci riprovò con questo gioco. Poi in terza, il miracolo! Arrivò un maestro, senza sottana e senza saio, vestito come i nostri genitori. Non ci obbligò ipocritamente a giochi noiosi. Ci spiegò tante cose utili che non stavano né nel libro di lettura né nel sussidiario. Il discorso cadde un giorno sul famigerato girotondo-tortura e il maestro (ma che cultura la sua!) ce ne raccontò un po’ la storia. Da non crederci! Balli e danze, gioia e allegria, per accompagnare e propiziare semina, raccolta e vendemmia, sì, ma anche riti per scongiurare guerre e allontanare pestilenze.
Poi col tempo, abbiamo dimenticato la paura delle suore, la noia di quel cortile e le parti cupe della storia del girotondo, associandolo comunque d’istinto alla gaia spensieratezza dell’infanzia e alle ore trascorse a giocare all’aperto. La senescenza porta spesso a dimenticare certe prime tristezze e a ricordare l’infanzia assai più felice di quanto non sia stata.
Nel mio cortile condominiale, adesso, i bambini rumoreggiano proprio come facevamo noi e alla fine fanno più o meno, con qualche aggiornamento, gli stessi giochi dove gli urli di gioia o di rammarico e l’innocente turpiloquio infantile, mutuato dai grandi, sono parte determinante. Femminucce e maschietti, vanno in bicicletta, giocano ancora a nascondino, a pallone e perfino al vecchissimo un-due-tre-stella, litigano e si riappacificano, si picchiano e si abbracciano.
Ma sono decenni ormai, da che abito in questo appartamento e mi affaccio su questo parco, che non li vedo o sento dedicarsi al girotondo. Non lo praticano più all’asilo? Non lo so: glielo chiederò appena passerà il broncio collettivo e avranno dimenticato che li ho rimproverati perché mi hanno graffiato la macchina con un azzardato sorpasso tra biciclette.
A volte viene, però, il sospetto che sia passato di moda tra i bambini, mentre sembrerebbe non mostrare segni di invecchiamento tra gli adulti. C’è stato, in verità, in passato, un momento in cui il girotondo è assurto, qualche volta con un pizzico di innocente retorica, a simbolo di fratellanza e di pace.
Chi non è troppo giovane ricorderà che più di cinquanta anni fa Sergio Endrigo - era il 1966 - lanciò la bella canzone Girotondo intorno al mondo, rielaborando il testo della poesia di Paul Fort del 1913 Le ronde autour du monde. Endrigo confessò di avere appreso leggendo il romanzo di Louis Aragon Le Campane di Basilea, che, incombendo la minaccia del primo conflitto mondiale, dei ragazzini di quella città l’avevano recitata in coro per scongiurare la guerra.
Strumento di invito alla pace e alla fratellanza, il girotondo è stato usato come mezzo di protesta politica e sociale. Nel 2002 nacquero – ricordate? – i Girotondini. Il primo si svolse a Milano davanti al Palazzo di Giustizia il 26 gennaio del 2002. Storia ormai passata tra illusioni e delusioni, conquiste e sconfitte.
Ma l’idea di girotondo, permane, anche se per farlo non è più necessario tenersi per mano, e sembra aver preso la forma di una vera e propria sindrome. Che non riguarda più i bambini, che non investe più chi cerca di organizzare pacifiche manifestazioni di protesta, ma travolge chi non è più giovanissimo e non ha più voglia di andare in piazza a manifestare. Una sindrome, diremmo, abbastanza senile.
Si tratta di un girotondo mediatico tra le reti televisive attraverso le quali si esibiscono appassionati e fanatici frequentatoti del talk, ruotando da uno studio all’altro, a volte, per perfido effetto di concomitanza tra trasmissioni registrate e in diretta, presenti in contemporanea in due diverse chiacchierate.
Che nostalgia, alla fine, nonostante tutto, per le vecchie suore e le giovani maestre che lo conducevano! Ci sono presentatrici e conduttori, che sono di volta in volta coordinatori, moderatori, provocatori, pacificatori, seminatori di zizzania, ora sereni e composti, ora agitati e ambigui, ora equilibrati e onesti, ora falsi e tendenziosi. E gli invitati/intervistati? Sono sempre gli stessi: una volta su un’emittente, una volta sull’altra. L’unica attenzione sembra essere quella di cambiare, intervistati e intervistatori, tailleur, orecchini, collane, giacche, cravatte, t-shirt, canottiere e, se ci fate caso, anche le penne, che brandiscono senza un evidente motivo e senza prendere appunti, ma, forse, chissà, per darsi coraggio come fa Linus con la sua eterna coperta tra le mani.
Adesso sappiamo chi fa bene il nodo della cravatta e chi non ci riesce; chi non la sopporta e ha la camicia aperta sul villoso petto e chi ha il pullover a collo alto, senza sentire caldo sotto i riflettori; chi ha il trucco appariscente e chi sembra acqua e sapone. Uno è sempre triste e contrariato, l’altro ironico e beffardo; una sempre addolorata e in pena, l’altra perennemente gaia e vispa; uno iroso e collerico, l’altro benevolo e pacifico; l’una pungente e sarcastica, l’altra sorniona e ammiccante; l’uno parla come un accademico della Crusca, l’altro scivola sui congiuntivi. Ce n’è, insomma, per tutti i gusti.
Chi fa politica, informazione e opinione, se non partecipa al “giratelevisione”, oggigiorno, non è nessuno. Poco conta, alla fine, che si dicano sempre le stesse cose.
È un girotondo che dura tutta la settimana, lungo tutto il tratto di etere occupato dai ripetitori televisivi e ti accompagna e segue, talvolta perseguita, dal caffè del primo mattino all’ora di pranzo, dall’abbiocco della digestione allo stanco rientro a casa dopo il lavoro, dalla cena al momento di andare a letto, e lungo tutta la notte per chi soffre di insonnia. Un girotondo che alla fine fa bene, forse, alla salute e all’umore di coloro che lo praticano, mantenendo, anche con la complicità del trucco e del fondo tinta opaco, giovani e aitanti anche gli ultraottuagenari.
E noi che li guardiamo e li ascoltiamo seduti davanti al video… com’è che non ci siamo ancora stancati, come quei bambini del mio cortile condominiale che non amano più il girotondo?