Non possiamo permettere che la globalizzazione
diventi un nuovo tipo di colonialismo.(Francesco, Querida Amazonia, 14)
Lo sguardo ecosofico purifica il reale. Non accetta l’aspetto empirico della sua naturalità diventata “ambiente”, paesaggio naturale e sociale. Nel suo scavo epistemico purificante torna a sbirciare oltre il velo della quotidianità. Torna a pensare e a cercare, nella molteplicità dei linguaggi del mondo fenomenico, la complessità delle relazioni e la loro unità. Unità del Pleroma, del mondo vivente, dove bios, logos, religio e aisthesis/estetica appaiono ancora riconnesse.
(Luciano Valle, L’Ecosofia. Uno sguardo che si approssima al mistero delle cose. In: Viaggio al termine del paesaggio, 2006)
Culturalmente, eticamente, politicamente il testo dell’Esortazione Apostolica post-sinodale di Papa Francesco del 2 febbraio 2020 rappresenta un testo veramente speciale, straordinario, innovativo e significativo. L’unica voce etica di “proposta critica” nei confronti dell’intero assetto del potere e delle politiche mondiali, detto “globalismo” che si sia mai elevata dai tempi in cui ascoltavano la voce profetica di Giovanni Paolo II quando criticava il capitalismo quale “religione del profitto” che mercifica l’uomo e toglie ogni speranza e ogni spiritualità.
La novità di questo pensiero sociale e critico di stampo cattolico la troviamo in Querida Amazonia in più profili e anime, per la prima volta intrecciati e sincronizzati. In primo luogo va sottolineato come Francesco unisca una percezione mitica e mitizzante dell’Amazzonia quale “bioma culturale” e umano ad una visione identitaria e territoriale della necessità di resistere umanamente e socialmente ad un globalismo massificante e manipolativo che riduce ogni aspetto sociale alla logica del profitto immediato e totalizzante.
Francesco passa dal bioma quale comunità biologica ad un concetto di connettività bio-umana che va preservata nella sua irriducibile differenza e singolarità. Per Francesco l’Amazzonia va tutelata in quanto “altra” e non in quanto territorio problematico da addomesticare e snaturare. Questo sotto molti profili, compreso quello dell’inculturazione dell’evangelizzazione, Francesco chiama la Chiesa ad accettare e valorizzare connotati tipicamente amazzonici, come il ruolo importante delle donne, delle tradizioni popolari e orali e anche il bagaglio di segni e riti propri di quelle popolazioni.
Il secondo aspetto è dato dall’incrocio di quattro dimensioni, sia locali che internazionali, in quanto l’Amazzonia è estesa in nove nazioni: un ideale sociale, un ideale culturale, un ideale ecologico e un ideale ecclesiale. Francesco chiama questi ideali “sogni”, utilizzando un linguaggio tipico della rivoluzione dei costumi sessantottina. Francesco accoglie quindi l’idea di “un’ecologia integrale” da contrapporre “all’economicismo integrale” proprio del pensiero di massa dominante. L’Amazzonia quale mito identitario che funga da paradigma e da esempio per ogni resistenza antiglobalista. Sembra rinascere il “mito del buon selvaggio” dell’illuminista Rousseau.
La base dell’identità organica e biologica quale modello esistenziale per un nuovo “umanesimo verde” dove il baricentro è invertito fra aggettivo e sostantivo. Dopotutto nel crollo delle ideologie e nell’annacquamento delle fedi quale altra base trovare se non il benessere della natura quale matrice del benessere globale dell’umanità? In questa logica la vita difficile e spartana degli indios amazzonici assume involontariamente un valore attuale, paradigmatico, virtuoso se messa al confronto con la vita delle nostre società futili, egocentriche e virtuali. “L’essere comunità” in Amazzonia non è solo una tradizione culturale: è una necessità di sopravvivenza e dimostra il vantaggio decisivo della componente associativa della vita umana rispetto all’iper-individualismo proprio delle società massificate sul modello occidentale.
La foresta viene così mitizzata quale scuola vera di virtù personali e sociali, matrice etica naturale, spontanea. La foresta quale “globalità che non emargina” al contrario della globalità marginalizzante dell’Occidentalismo, quale simbolo vivente, pur minacciato, del mondo intero quale “Casa comune”.
Rispetto agli altri biomi verdi speciali della terra, Borneo e Congo, l’Amazzonia reca infatti il valore aggiunto della sua internazionalità, come a dimostrare che il bioma quale habitat umano originario e ancestrale, già provato nei millenni, sia più forte e più persistente degli altri “biomi” più recenti e più fragili come quelli nazionali, civici e statuali. Un pensiero che tenta di ricostruire un’idea di “società organica” e comunitaria in contrapposizione alla monodimensionalità commerciale del modello sociale dominante e tenta di farlo ripartendo dalla foresta del luogo più inospitale del mondo. La foresta che deve essere civilizzata viene ribaltata in una matrice valoriale ed ermeneutica che deve guidare l’etica e la comprensione attuale, per una ri-civilizzazione al contrario.
Un pensiero che prende l’immagine dell’Amazzonia quale simbolo della complessità del reale e della sua contestuale unità vivente. In questa semiosi mitopoietica la terra ritorna “Madre”, ritorna corpo vivo che ha un suo sangue e sue dinamiche insopprimibili. Ne risulta anche un rinnovamento nell’ “etica dell’aiuto”, che deve essere finalizzato a far sì che “essa tragga da sé il meglio”, considerando quindi l’Amazzonia, in quanto bioma, tale da possedere una capacità innata e propria di autogestirsi, anche umanamente.
Un testo che sembra portare avanti una forma di “marxismo verde” dove la dialettica è tutta endobiologica e l’umano è decentrato in posizione ancillare. Mito e identità per un territorio che sia espressione immediata e non sovrastrutturata, né manipolabile, dell’olos sciamanico della vita.