Ha conseguito la laurea in Giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Bologna. Dopo aver ottenuto l'abilitazione alla professione di avvocato, si è iscritta all'apposito albo presso la Corte di Appello di Lecce e ha svolto per un paio d'anni la libera professione.
Nel 1997 ha vinto il concorso per vice direttore di istituto penitenziario, nel 2003 decide di trasferirsi a Milano per partecipare insieme all'allora direttore del carcere di Bollate, Lucia Castellano, alla realizzazione di quello che per tanto tempo è stato considerato un progetto sperimentale. Partecipa attivamente alla nuova organizzazione della II Casa di Reclusione di Milano in qualità di vice direttore fino al febbraio 2019, quando assume le funzioni di direttore dell’Istituto.
È un periodo molto intenso in cui si avviano numerose iniziative con lo scopo di rendere vivibile e sopportabile un luogo quale il carcere molto spesso considerato esageratamente afflittivo; un luogo spesso privo di dignità che troppe volte non riconosce e garantisce i diritti individuali delle persone detenute in quanto persone.
Comincia una intensa attività di promozione della cultura della legalità nelle scuole superiori organizzando incontri con gli studenti delle ultime classi in cui si discute del carcere e della pena cercando di offrire uno spaccato del sistema penitenziario quanto più aderente sulla base dell’esperienza acquisita.
Dal 2012 svolge in qualità di docente attività formativa presso la Scuola di Formazione della Polizia Penitenziaria di Parma nella materia di ordinamento penitenziario e formazione interprofessionale destinata agli agenti di polizia penitenziaria neo assunti e nell’ambito dei corsi di aggiornamento.
Nel 2017 partecipa al "ted Milano" portando al teatro Dal Verme l’esperienza del carcere di Bollate. Dal 2018 è relatore al corso di alta formazione presso l’università Bicocca sui temi dell’esecuzione penale. Dall’ottobre del 2018 è anche direttore dell’istituto penale minorile di Milano Cesare Beccaria, dove ha incentivato l’attività teatrale nello spazio attiguo alla struttura penitenziaria, favorendo il completamento del locale teatro utilizzato per le attività del carcere e aperto al territorio.
Il 7 dicembre 2020 ha ricevuto dall’Amministrazione Comunale di Milano la maggiore onorificenza della città, l’Ambrogino d’Oro. Dal mese di gennaio 2021 ha lasciato l’incarico di direttore dell’istituto penitenziario di Bollate per ricoprire quello di vice direttore della Casa di reclusione di Milano Opera, mantenendo la direzione del carcere minorile.
Sono pugliese di origine ma vivo fuori dalla mia regione da più di vent’anni. Ho vissuto in diverse città d’Italia mai convinta a mettere radici; quando sono arrivata a Milano mi sono sentita accolta bene. Ho trovato soprattutto una grande sensibilità e attenzione per il mondo delle carceri che spesso per le città sono invisibili.
Quali sono stati gli incontri, le esperienze, gli studi, che l’hanno portata ad interessarsi ed impegnarsi nel sistema carcerario?
All’università, presso la facoltà di giurisprudenza, ho sostenuto l’esame di diritto penitenziario e seguito diversi seminari sul tema. Mi sono laureata nel 1992 all’indomani di alcune riforme importanti che hanno coinvolto il sistema penitenziario, come per esempio la legge di riforma del Corpo di Polizia Penitenziaria del 1990. L’argomento, dunque, mi interessava, ma ho deciso di provare il concorso per vice direttore un po’ per caso; non ero certa del lavoro che mi aspettava qualora lo avessi superato e, a dire la verità, non sapevo neanche bene quali fossero i compiti. La mia passione si è formata sul campo.
“Le carceri italiane, cimitero dei vivi”, scrisse nel 1904 Filippo Turati: e oggi?
In questo momento di emergenza sanitaria, le carceri vivono una grande sofferenza poiché si è accentuato l’isolamento e la lontananza dalla comunità. Da più di un anno le relazioni con i famigliari sono sospese o fortemente limitate e tutte le attività trattamentali hanno subito una forte attenuazione. Siamo stati costretti a proteggere il contesto penitenziario per tutelare la salute di tutti, persone detenute ed operatori, ma a costo di una grave desocializzazione.
Cos’è rimasto dell’eredità del grande Beccaria?
Le teorie di Cesare Beccaria sono ancora oggi valide e occorrerebbe tenerle sempre bene a mente. A lui si deve l’avvio del processo di umanizzazione della pena, che è un principio cardine della nostra Costituzione. A mio parere, occorre ripartire dalle sue tesi per riflettere sulla effettiva necessità del carcere tranne alcune situazioni. Forse l’efficacia della legge si può dimostrare con altri strumenti che non siano pena detentiva.
Lei ha parlato del carcere come specchio della società.
Nel carcere ci sono tutte le componenti della società e vivono le stesse contraddizioni. Prendersi cura del carcere significa affrontare problemi che presto ricadranno sulla comunità intera non fosse altro perché le persone detenute prima o poi finiranno la loro pena. Conviene a tutti non voltare la testa dall’altra parte.
In che modo la detenzione può essere rieducativa?
La legge e la Costituzione ci danno gli strumenti per organizzare una detenzione sensata e provare ad avviare un percorso di cambiamento della persona. È necessario però che questo non sia solo appannaggio dell’amministrazione penitenziaria. La comunità deve essere coinvolta in questo processo di riabilitazione del condannato.
La tecnologia in carcere potrà essere il collegamento virtuoso tra dentro e fuori?
Assolutamente sì. Il carcere non può rimanere estraneo all’innovazione tecnologica perché altrimenti si crea una distanza incolmabile. Durante questa emergenza sanitaria è stato possibile potenziare l’uso della strumentazione informatica: è stato consentito utilizzare i cellulari e i collegamenti in remoto per rimediare alla quasi totale sospensione dei rapporti in presenza. Non ci sono stati problemi se non qualche piccolo inconveniente: si auspica che questa stagione non sia interrotta bruscamente con la scomparsa della pandemia.
In Europa si stanno sperimentando società senza carceri: cosa ne pensa?
Sono convinta che occorre superare il nostro modello carcerecentrico e che si debba lavorare per un nuovo sistema penitenziario. Più carceri non fanno più sicurezza sociale. È vero piuttosto il contrario, stando ai dati sulla recidiva. Bisognerebbe avere lo stesso coraggio che Cesare Beccaria ebbe quando nella sua epoca cominciò a parlare della necessità di andare oltre la tortura e la pena di morte. Probabilmente anche allora sembrò un’utopia.
Qual è la situazione carceraria a Milano?
Milano è una città estremamente sensibile al tema dell’esecuzione della pena. Questa attenzione si ripercuote positivamente sulle condizioni degli istituti che vedono la presenza di decine di centinaia di operatori che quotidianamente varcano le porte delle strutture penitenziarie con le loro energie e risorse. A ciò si aggiungono gli interventi degli enti locali e di Regione Lombardia, che ampliano le offerte e le opportunità trattamentali rivolte alle persone detenute. Importante è, altresì, l’attività della magistratura di sorveglianza di Milano, che si muove in stretta collaborazione con le direzioni e il Provveditorato Regionale. La situazione degli istituti milanesi è forse migliore di quella di tante altre città del Paese e consente di attuare il dettato costituzionale della finalità rieducativa della pena pur con le difficoltà croniche del sovraffollamento che attanaglia soprattutto la casa circondariale di San Vittore e le problematiche strutturali degli edifici.
Come direttrice della Casa di reclusione di Bollate e dell’Istituto Minorile “Beccaria” ha avviato alcune importanti innovazioni.
Il carcere di Bollate è stato sempre un’officina di idee e un laboratorio di sperimentazioni. Sono tante le iniziative che abbiamo avviato in questi anni e che si sono rivelate vincenti. Ricordo l’apertura dell’asilo nido aziendale destinato ai figli dei dipendenti e anche ai bambini delle mamme detenute ospitate nel reparto femminile ma aperto anche ai bambini del territorio circostante. Esempio di integrazione e di interazione con la comunità. L’anno scorso, in piena pandemia, è stata avviata un’attività industriale di produzione delle mascherine chirurgiche da destinare alle necessità del sistema penitenziario. L’attività ha assunto finora circa quaranta detenuti. Il progetto è stato molto importante perché ha visto la partecipazione di gruppi di industriali e di consulenza italiani e perché è stato dato modo anche alle persone detenute di fare la propria parte nella situazione di emergenza. Numerose sono le attività messe in campo insieme alla comunità esterna per favorire la partecipazione del volontariato e del privato sociale e anche delle amministrazioni locali. Nascono in questo periodo le cooperative sociali di servizi (di catering, manutenzione del verde, falegnameria) con composizione mista (persone libere e detenuti) con l’intento di offrire anche ai detenuti competenze e nozioni fondamentali di cultura del lavoro.
Nel 2004, in collaborazione con la Cisco Sistems, si è promosso l’allestimento di una local Academy Cisco che consente alle persone ristrette di acquisire certificazioni nel settore informatico in grado di far acquisire competenze e abilitazioni da spendere sul mercato del lavoro.
Milano l’ha premiata con il prestigioso “Ambrogino d’oro”: cosa si sente di aver ricevuto dalla città e che cosa pensa di averle dato?
Sono onorata di aver ricevuto questo importante riconoscimento che ha premiato il lavoro svolto insieme alla città. La comunità milanese è sempre stata pronta a sostenere i progetti in carcere partecipando con il suo entusiasmo e la sua pragmaticità. Da parte mia credo di aver fatto sentire la città, con le sue istituzioni, con il suo associazionismo, parte attiva del lavoro svolto in carcere, coinvolgendolo nella gestione.