Il castello di Livorno, nel 1421, fu venduto per 100.000 fiorini d'oro, dalla Repubblica marinara di Genova a Firenze che reclamava in ogni modo il suo sbocco a mare.
Nel 1427 Firenze intraprese anche a Livorno un dettagliato censimento dell’intera popolazione sottoposta alla sua autorità, completato da una particolareggiata descrizione delle proprietà. Questo si è dimostrato nel tempo importante per comprendere la composizione demografica, la struttura sociale e la vita economica e commerciale di questo borgo di contado che si avviava a diventare città tra la fine del 1500 e l’inizio del 1600.
Scrutando la composizione della popolazione ed i mestieri esercitati, si mette a fuoco una categoria di cui poco è stato studiato, ma che nel contesto sociale, spesso parallelamente ai periodi di profonde crisi economiche si delinea e si staglia, il mestiere o l'arte della raccatteria, che darà corpo alla figura del rigattiere, chiamato anche cenciaio, stracciere e talora ferrovecchi per lo più in relazione alla natura delle merci trattate, poiché questi vendevano soprattutto abiti usati ma anche mobili, tappeti, oggetti di rame e metallo, attrezzi da lavoro, e in taluni casi anche animali.
Lo stracciere, o cenciaio, era solitamente un venditore ambulante di stracci vecchi e usati, che rac-coglieva o acquistava per pochi soldi per poi rivenderli. Vendere abiti e oggetti usati era una professione diffusa praticamente ovunque nei centri urbani tra tardo Medioevo e prima età moderna.
Anche Pisa, annessa nel 1406 alla città del giglio, attraversò la grave depressione economica da città non più indipendente ma assoggettata alle leggi fiorentine. Diminuzione demografica e abbassamento del livello medio della ricchezza pro-capite, fece sì che anche la tipologia, e la capacità di spesa dei residenti si abbassasse. l’Arte della raccatteria risultava pertanto essere stata particolarmente fiorente poiché andava a soddisfare la domanda di una clientela fatta perlopiù di povera gente.
A Napoli i cenciai erano anche saponari ed ispirarono perfino un detto popolare “Ccà ‘e pezze e ccà ‘o ssapone” (qua le pezze e qua il sapone), nel 1400 infatti, il sapone a forma di palla, lo distribuivano i monaci Olivetani, nella zona del Giardino di Carogioiello, che da loro ha poi preso il nome di Monteoliveto. Essendo questo sapone particolarmente pregiato veniva scambiato pure con i cenciai in cambio di arredi di modesto valore per il monastero attiguo alla chiesa di Sant’Anna dei Lombardi.
Nel XII secolo gli Arabi introdussero in Europa le prime cartiere, nelle quali per produrre la carta era necessario utilizzare materie prime costituite da stracci di lino, cotone e canapa. Gli stracci venivano raccolti e puliti da operai chiamati cenciaioli, la professione del cenciaiolo divenne così sempre più importante ed indispensabile soprattutto a seguito dell'avvento della stampa.
Il mestiere del cenciaiolo si diffuse soprattutto alla fine dell’Ottocento e nel Novecento. A Livorno, città di porto e di attività d'industria questo mestiere era svolto essenzialmente dalle donne, vestite con gonne lunghe, calze pesanti, grembiuli, fazzoletti in testa che a seconda di come venivano annodati contraddistinguevano se fossero cattoliche o levantine, e zoccoli. Le cenciaiole, donne popolane livornesi raccoglievano, dividevano per tipo di tessuto e colore e lavoravano gli stracci in fabbrica. Questi “cenci”, solitamente di cotone, lino o canapa, venivano poi utilizzati per fare la carta. Le cenciaiole livornesi furono descritte da Anna Franchi nel suo saggio pubblicato nel 1903 Cenci e coralli, che evidenzia due dei mestieri tradizionali delle giovani donne dei ceti popolari livornesi, quali proprio quello della cenciaia e quello più qualificato della corallaia.
Ma ancor più immediata è la visione che ne dà Eugenio Cecconi nella raffigurazione macchiaiola delle Cenciaiole livornesi, un quadro custodito presso il Museo di Livorno, che cristallizza una scena di vita di un gruppo di donne che al sole si riposano dopo un turno di lavoro nei pressi della Fortezza Nuova di Livorno.
La tradizione del mestiere della cenciaiola livornese nella sua veste femminile si è protratta fino agli anni '80 del secolo passato, incarnato nella bellissima figura di Natalina, ultima cenciaiola, baluardo di quella tradizione della donna commerciante di raccatterie portate dalla gente in un luogo magico, scuro e polveroso dove sagome informi di stoffe, metalli, carte e vetri, rigorosamente separati e traboccanti da cartoni grandi da contenere anche me, bimba, che con mia mamma nei pomeriggi dopo i compiti scolastici, visitavamo spesso e con estrema curiosità. Ci lasciava curiosare tra quelle stanze e prendevamo a caso da dentro quei contenitori, manciate di materiale che alla luce di una lampada al neon si rivelava poi per essere o un semplice straccio o un bellissimo pizzo valencienne o vesti di epoca liberty. La bellezza della scoperta, di ciò che si svelava agli occhi era impareggiabile.
E così come era per le stoffe lo era anche per lo scatolone della carta, che regalava lettere vergate da calligrafie ansiose o amorose o d'affari, insieme a cartoline inviate da località di vacanza, con francobolli che raccontavano gli anni del carteggio. Questa era la stanza dove le cose più minute venivano separate, che proseguiva con un'altra, sagomata da scaffalature di ferro sui cui ripiani erano accatastati oggetti di metallo in parte un po' rotti ma recuperabili, e dove potevi trovare dalle scatoline portagioie in zama ai lampadari, o ai vassoi degli alberghi di sheffield con i loghi e gli stemmi, fino a vasi di tutte le fogge.
All'aperto invece, nel grande piazzale che era proseguimento del vano d'ingresso erano ammonticchiati gli oggetti decisamente irrecuperabili e di pezzatura più grossa.
Ma il cuore dell'attività di cenciaiola, la cella ottagonale dell'ape regina, il centro dell'alveare era la prima stanza a sinistra del vano d'ingresso. La porta era piccola e sempre socchiusa e vi si accedeva tramite un paio di gradini. Dentro era calore, folclore, tradizione, colore, storia e allegria, era la sala del trono della regina Natalina. Donna esile, ma forte, vestita di scuro con un grembiule sempre annodato in vita dal quale si protendevano due grandi tasche sempre piene. Fulcro e direttrice di quella cucina, simbolo di una sala macchine di quella azienda che lì si concentrava. Una grande cucina con tutte le più belle cose recuperate attaccate alle pareti o sulle mensole o sopra i mobili, un tavolo rettangolare altrettanto grande, dove si cucinava o si era già preparato il pranzo o la cena, e nel mentre, la comunità di via san Carlo per lo più formata da donne, era riunita, seduta, al grande tavolo che discuteva, ma il più delle volte giocava a tombola tra risate e sberleffi.
Uno spaccato di tradizione labronica erede e conservatrice di secoli di storia, fatta di porto, di pesca, di mestieri, di tradizioni, di cultura eterogenea, di donne forti, di allegria di condivisione, di solidarietà, di legame di quartiere, di tutto quello che abbiamo perso ma che rimane come immagine, nel cassetto della memoria di ciò che non esiste più e che resta o in un quadro o in pagine raccontate di un libro oppure nella testa di quella ragazzina ormai cresciuta che è stata testimone di un pezzo di storia di Livorno che morirà con lei, di cui altri ne sentiranno forse solo parlare in modo sempre più lontano.
Il mestiere del cenciaio non esiste più oramai o forse si è nobilitato attraverso l'apertura dei negozi vintage, con qualche rigattiere reduce del secolo scorso che opera nei mercatini del modernariato ma che niente ha a che vedere con l'antica tradizione della raccolta, separazione delle categorie merceologiche e vendita ai grossisti di ciò che è stato acquistato, trovato e accumulato, di chi con l'esperienza gli bastava il solo contatto con le dita per distinguere la composizione dell’abito usato o della stoffa che teneva in mano, e li divideva per pesantezza, composizione e colore.