La struggente bellezza delle sue immagini non passa certamente inosservata, è come una carezza ruvida sulla pelle ferita, un turbamento che affiora improvviso, irrefrenabile, travolgente.
Sto parlando di Nicola Bertellotti, visionario fuoriclasse 1976, che ha fatto del viaggio il fil rouge tra tempo e luogo creando, con le sue fotografie, un magistrale parallelismo tra contenitore e contenuto, tra visibile e invisibile, tra conosciuto ed inesplorato.
Con Nicola Bertellotti il viaggio si trasforma in opera d’arte e l’opera stessa, a sua volta, diventa viaggio. L’arte lo conduce al di fuori di se stesso, una conquista del mondo e della vita ed è il viaggio che sollecita l’avventura, similmente all'arte, in un fertilissimo gioco dell'immaginazione.
Il suo primo amore è stato il cinema. Da ragazzino girava cortometraggi in super8 con gli amici, passando le estati a scrivere improbabili e bizzarre sceneggiature, il sogno più grande era diventare regista. La fotografia arriva molto tempo dopo, insieme alla passione per i viaggi. Nessuna velleità, Nicola usava la sua reflex semplicemente per trattenere emozioni.
Il viaggio è tremare, vacillare, divenire un po’ di più noi stessi. Viaggiare per ritrovare la via, affinché nasca in noi la meraviglia. Ho un ricordo che ha inciso in maniera cruciale sul mio modo di vedere il mondo; all’epoca avevo all'incirca otto anni, quando mio padre mi portò in un luna park sulla spiaggia che non era realmente abbandonato ma appariva comunque fatiscente. Provai subito un grande fascino per l'imperfezione, per i segni del tempo. Undici anni fa mi sono imbattuto, per puro caso, in un parco di divertimenti molto simile a quello che visitai da bambino. Improvvisamente, come la ‘madeleine’ in Proust, tutte quelle sensazioni ormai dimenticate riaffiorarono con grande intensità e cominciò una vera e propria febbre per la decadenza, che ancora oggi brucia. Quel giorno avevo una macchina fotografica al collo e decisi che quella sarebbe stato il mezzo con cui avrei comunicato con i luoghi e con me stesso.
Nelle sue fotografie, il ricordo, cristallizzato da qualche parte, apparentemente inaccessibile, si svela nella sua potenza. Arriva inaspettato, portandosi dietro la nostalgia di mondi dimenticati a cui il tempo lascia unicamente un’intensa poetica malinconia. Scenari dal fascino perturbante che la natura ha strappato all’uomo e che Nicola Bertellotti ci restituisce nella travolgente magnificenza dell’abbandono ritrovato, ponendo l’osservatore di fronte ad una rete di processi di riconoscimento individuale e collettivo.
Cronologie interrotte. Chronologhía, termine alquanto interessante, composto da chrónos ‘tempo’ e loghía ‘discorso’. Chrònos, Saturno per i romani, nonché padre del tempo. Un tempo sospeso a mezz’aria, quasi a voler mostrare che, in verità, esso sia condensato tutto nell’attimo ‘adesso’, al pari del movimento oscillatorio, tra avanti e indietro, del metronomo. E in questo ‘battito’ si percepisce la via d’uscita, un’intuizione fulminea che apre un varco nella prigione che ci attanaglia, oltre il visibile.
Quei luoghi dimenticati appaiono allora, negli scatti di Nicola Bertellotti, in tutta la loro bizzarra nostalgia e, riuscendo a farsi poesia, risanano le crepe e gli strappi della memoria. Queste straordinarie immagini si trasfigurano nell’esplorazione di un territorio spazio temporale sconosciuto o, più propriamente, caduto nell’oblio. In questo passaggio si riscopre la capacità di apertura al nuovo, insieme ad un senso di stupore; è come un pellegrinaggio dove ciò che conta è il viaggiare stesso e non la meta, dove ciò che conta è la capacità di meravigliarsi di nuovo e ancora.
Viviamo nell'epoca dell’istantaneità, della velocità di trasmissione dei messaggi e delle informazioni, siamo di fronte a una sorta ‘presentificazione’ di tutti i fenomeni. Il culto del presente perpetuo elimina ogni pensiero proiettato sulla dimensione del futuro e al contempo ha smarrito la dimensione cumulativa della storia, dove al tempo si aggiunge il tempo, dando luogo al concetto di passato.
Edifici semi crollati, oggetti abbandonati, giardini dimenticati, luoghi fantasma dove impera il silenzio, abitati solo dal sentimento di ciò che sarebbe potuto essere, ma non è più. Osservando queste immagini sembra addirittura di percepire lievi aliti di vento intrecciati ad echi lontani di voci e risa di bambini. Quelle voci risuonano profondamente riportandoci indietro nel tempo, a quegli stessi bambini che siamo stati, perduti in luoghi remoti tra le pieghe della memoria. È questa la potenza delle sue immagini, quale ‘viaggio attraverso il proprio castello interiore’, nei meandri del proprio sé.
Il viaggio fisico diviene allora viaggio dell’anima, alla ricerca creativa di nuovi significati e prospettive che riescano ad appagare la dimensione interiore dell’essere, nel suo incessante divenire, verso una visione di se stessi più completa e ricca.
La ricerca di questi luoghi spesso è davvero ossessiva, è una vera caccia al tesoro per la quale cado in una specie di trance e le coordinate geografiche che riesco a recuperare sono la X da raggiungere e dove scavare. Per un viaggio all'estero la preparazione dura diversi mesi.
La sua sete di conoscenza, di introspezione attraverso lo specchio esterno del reale, diventa paradossalmente una fuga dalla realtà in cerca di un ‘oltre’ e, uscendo da se stesso, Nicola trova se stesso.
Il suo linguaggio fotografico ha il potere di smuovere il pensiero: da una posizione descrittiva dei luoghi ci si sposta ad una posizione esperienziale, che coinvolge i sensi e le emozioni. L’artista crea e forgia le immagini guidato dalle intuizioni provenienti dall’affascinante richiamo dell’ignoto.
Le sue fotografie sono portali multidimensionali attraverso i quali si accede in una dimensione ‘altra’. Varchi tra luogo ed essenza, tra vita e morte, tra ciò che è fuori, tangibile e visibile, e ciò che è dentro, etereo ed invisibile. Le sue foto sono un inequivocabile invito all’attenzione, a fermarsi, un monito verso una riflessione intima.
La sua avventura nel mondo è spunto per un cammino mentale e atemporale nell’immaginario, una sorta di fuga e nello stesso tempo di riflessione sul reale e sulla storia e, soprattutto, di reinvenzione del rapporto tra uomo e natura, tra civiltà e ambiente.
Ho scoperto la formula che porta al sublime: la Bellezza più il tempo. Ormai il mio gusto estetico ha subito una mutazione, trovo inespressivi i monumenti e gli edifici troppo nuovi, troppo perfetti. L'opera d'arte definitiva, per me, è quella a cui il tempo ha apportato il tocco finale.
Quella di Nicola Bertellotti è una esperienza vissuta in prima persona, egli stesso sperimenta in primis il ‘daimon’ trasmettendolo, attraverso la sua arte, all’osservatore. Quello stesso daimon che Jung descrive come “un’intelligenza superiore, una presenza misteriosa, una voce che era come se venisse dalla mia interiorità.” Dunque il daimon non è affatto l’entità negativa che l’ignoranza dilagante associa, troppo spesso ed erroneamente, al demonio, bensì quel ‘genio splendente’ sospeso tra ciò che è umano e ciò che è divino. Scrive Jung nei suoi Ricordi: “È importante avere un segreto, una premonizione di cose sconosciute. L’uomo deve sentire che vive in un mondo che, per certi aspetti, è misterioso; che in esso avvengono e si sperimentano cose che restano inesplicabili. Solo allora la vita è completa”.
Ri-scoprire, ri-conoscere ciò che siamo in un processo di comprensione profonda che parte dall’occhio per agire su più livelli. In questo senso le immagini di Nicola Bertellotti sono ‘familiari’, frammenti della memoria collettiva, palcoscenici di vite vissute, le nostre, che prepotentemente riemergono. Fotografie come specchi, dove si ri-flette inevitabilmente la nostra immagine. Un invito ad investigare su noi stessi e sulla nostra vita senza dare nulla per scontato, progressivamente disidentificandoci dalle idee, dai giudizi e dai ruoli che giochiamo nella vita ‘reale’.
Fermandoci e guardando in profondità scopriamo che in realtà non ci conosciamo veramente: ciò che conosciamo è una sovrastruttura, una maschera che ci impedisce di essere veramente in contatto con l’essenza autentica.
Con la sua tempra irrequieta Nicola Bertellotti trasmettere un messaggio vibrante, capace di tratteggiare un panorama estesissimo: riflessione sulle rovine e sul nuovo, su ciò che è colossale o povero, eccezionale o quotidiano. Volumi e architetture si espandono in una miriade di visioni dense di simbologie, per una più profonda comprensione dell'esistente, tra fuori e dentro.
Provo un grande senso di quiete e armonia, quando varco quelle soglie è come se entrassi in un’altra dimensione, in cui le crepe, l'incuria vegetale e architettonica riconducono le cose al loro stato primordiale, alla ‘poesia delle rovine.
Il connubio tra geografia e poesia è centrale nelle immagini di Nicola. Le ambientazioni assumono una nuova natura, inquietanti e attraenti allo stesso tempo, diventando ‘non luoghi’, tra le cui crepe aleggia, intenso, il respiro del sacro. L’artista racconta una geografia intrecciando storie perdute, condensate in immagini descritte poeticamente da un occhio sottile che si insinua nei dettagli.
Lui ci mostra come il tempo non cancella anzi, s’ispessisce e s’incarna, rafforzando la realtà e divenendo artisticamente visibile in tutto il suo potere suggestivo, ‘che sbuca dalla scena, scagliato fuori come una freccia che trafigge’.