Camminare ha per me il valore di una meditazione.
Ricordo ancora nitidamente quando da adolescente mi trovavo a Levanzo, una delle isole Egadi che fronteggiano la mia bellissima città, Trapani. Con un gruppetto di amici camminavamo verso una caletta dal mare cristallino, turchese, dai fondali fiabeschi, ricchi di variopinti pesciolini. Mi sembra ancora di udire il rumore dei miei passi sui ciottoli arroventati dall’afa estiva, di percepire l’aria profumata di mare e di piante spontanee sulla mia pelle, è stata un’iniziazione.
Camminando vedevo la mia ombra che mi seguiva come un segugio ad ogni passo, non potevo sfuggirle, così, mentre cercavo il sicuro passaggio tra le rocce e le pietre, ascoltavo il loro racconto delle mie imperfezioni, ansie, acerbe aspirazioni. Ogni pietra era una voce interiore, come una melodia a volte acuta e stridente, a volte suadente e dolce. Un esercizio di consapevolezza.
Mi è sempre piaciuto esplorare anche le grotte, gli anfratti, nascosti tra la vegetazione o sfacciatamente visibili a distanza. Un amore antico, una memoria atavica della mia anima, un richiamo che ho ascoltato, sempre.
Qualche giorno fa ho percorso un sentiero che, dal meraviglioso territorio di Macari, conduce verso la Grotta del Crocifisso, una fessura nella montagna di Monte Cofano, la montagna sacra dei trapanesi.
Macari è il mio posto del cuore, selvaggio, misterioso, dal potente magnetismo, energie invisibili lo popolano da millenni. Un luogo dell’anima, incontaminato dalla cementificazione, ancora aspro e viscerale. È in questo ammaliante contesto che il regista Garth Davis nel 2018 ha girato delle scene del film Maria Maddalena, il principio femminile fatto carne, ossa e sangue. Una delle tre Marie che assistettero alla crocifissione di Gesù, la Maria vituperata, ripudiata, non discepola ma maestra.
Camminando nel sentiero che costeggia il Monte Cofano, il mare mi deliziava con le sue sfumature azzurro-verde-turchese, si denudavano ai miei occhi incantati le numerose calette.
Inspiravo i profumi dei fiorellini, anche di zafferano, delle piante, ne contemplavo la bellezza, come sorrisi per allietare il cammino.
E come nel ricordo vivido di quel giorno a Levanzo, la mia ombra seguiva ogni passo come un’amica fedele, nel silenzio rotto solo dal rumore del mare e dei miei passi. Camminando lentamente, consapevolmente presente nella successione di attimi, sono arrivata alle pendici della Grotta del Crocifisso. Prima di iniziare la salita alla caverna, mi sono fermata a riprendere fiato dinanzi alla piccola cappella, dove è esposta una rudimentale croce di legno incisa dal tempo e un altarino dove giace da anni un libro che raccoglie le testimonianze dei pellegrini che si spingono fin lì, vincendo le vertigini delle rocce a strapiombo sull’azzurro mare.
Salgo e mi fermo a contemplare la grotta.
È l’entrata nella vagina della Grande Madre, nell’utero che sempre ci contiene e sostiene, nonostante tutto, nonostante il nostro stato di esseri umani inconsapevoli. Sostando dinanzi alla sacra soglia, ne percepisco l’energia vivifica, magnificamente illuminata dal sole. Comprendo il motivo che ha spinto un monaco eremita a trattenersi per lunghi periodi in questo luogo, a meditare e pregare al suo interno, come era solito fare anche San Francesco che si intrufolava nelle grotte, nelle fessure della terra e trascorreva interi giorni e notti, in ascolto. Varcare la soglia è come ritornare nel grembo materno, nel liquido amniotico, nel tempio del sacro legame.
Respiro profondamente, entro... Ritorno nel grembo di me stessa, della mia essenza femminile e proclamo il mio sacro potere di Donna. Perché la Grande Madre è in me e io in lei. Rimango al suo interno, assorta nei pensieri e nelle sensazioni che giungono alla mia coscienza. Mille voci si odono, preghiere e rituali sacri.
Ecco che posso intuire il significato del sacrum facere, l’agire sacro, l’offerta di sé per il passaggio di dimensioni attraverso una fessura, per accedere alla conoscenza, come Odino che sacrifica il suo occhio destro e lo offre in pegno a Mímir per attingere un sorso di idromele da Mímisbrunnr, la fonte della saggezza che il gigante custodisce. Sacralizzare è quindi donare una parte di se stessi perché si disveli la vera conoscenza. Offro il mio corpo alla terra, giaccio in lei nella resa, nell’abbandono, nella fiducia totale. Dono alla Grande Madre le resistenze al suo amore, le restituisco a lei, saprà come trasmutarle.
Mi sento avvolta da una leggerezza sconosciuta, in un abbraccio rassicurante, consolatorio, assoluto.
Canto un suono che giunge alle labbra socchiuse, il suo eco rimbomba nella caverna, mi addentro ancora, giungo alla fine della strettoia, nel buio che non mi spaventa. Come un feto respiro la sua acqua, mi nutro, mi soffermo.
Sono uscita dalla mia ombra… e scopro la luce. Guardo fuori mentre le mie cellule assorbono come spugne le energie invisibili. Non c’è nessuna minaccia se non nella mente desacralizzata. Tutto è amore, dono, opportunità, riscatto.
Convivono in me le energie maschili e femminili, conoscerle rende possibile l’utilizzo, sento la loro fusione nel fuoco trasformatore dello spirito.
Il mio corpo si espande, ne perdo i confini, sono nella terra, nelle pareti, nell’aria, le ossa come pietre vive, i pensieri come sogni lucidi.
Sospiro beata, fremo, esco dalla grotta alla luce come se avessi partorito me stessa in una forma nuova, rinnovata, purificata, lucente. E piango. E ringrazio Madre Terra.
Sacralizzare la relazione con Lei è lo scopo del mio esistere.