Estate 1816. A Villa Diodati alloggiano Lord Byron e il suo segretario, John William Polidori (giovane medico di origine italiana, segretario, factotum e amico). Alla Maison Chappuis si sono fermati Percy Bysshe Shelley, Mary Wollstonecraft e Claire Clairmont, sorellastra di Mary e madre della figlia di Byron, Allegra. Siamo sul lago di Ginevra ed in una notte di tempesta impressionante, gli amici si trovano bloccati nella villa Diodati e ci rimarranno fino al giorno dopo.
Per trascorrere la sera decidono di sfidarsi in una singolar tenzone: scrivere il più terrificante racconto di paura. Così i cinque personaggi tranne Claire che non scrive nulla e si esonera dalla competizione si mettono all'opera, ma solo da Mary, Polidori e Byron nascono le bozze dei loro futuri lavori, il Frankenstein Di Mary Wollostonecraft Shelley, The Vampyre di Polidori e La sepoltura di Lord Byron.
I tempi erano quelli dei viaggi del Grand Tour, l'Italia era tappa obbligata per l’apprendistato culturale di giovani di buona educazione e desiderosi di conoscere le nostre bellezze sì che l’aristocrazia e l’agiata borghesia mandavano i propri figli a trascorrere gli anni in questi luoghi fonte di ispirazione. Difatti i signori della penna sopra citati, avevano lasciato l'Inghilterra per scendere in Italia dove, trascorsero buona parte della loro restante vita.
Byron soggiornò nel 1822 per sei settimane a Livorno dopo essere fuggito da Pisa dove risiedeva a Palazzo Lanfranchi proprio in quegli anni, per un reato di sangue commesso in nome di un preteso insulto verso un sergente. A Livorno prese dimora presso la Villa delle Rose quando apparteneva al banchiere Pietro Dupouy. In una lettera del 10 giugno 1822 Byron scrive:
Vi scrivo dalla Villa Dupouy, presso Livorno, con l’Isola d’Elba e la Corsica visibili dal mio balcone ed il mio vecchio amico, il Mediterraneo, ondeggiante azzurro ai miei piedi.
Byron era giunto a Pisa dietro suggerimento di Shelley, costretto a lasciare Ravenna assieme alla famiglia Gamba esiliata per lo spirito antirivoluzionario, ma anche Livorno fu temporanea residenza, poiché nella Villa Dupouy, il 28 giugno 1822 verso le 5 pomeridiane, nacque una contesa fra Lord Byron ed il conte Gamba, suo amico, in difesa dei domestici accusati di non aver pagato i conti al cameriere della contessa. Nella lite furono impugnate pistole e stiletti.
Questa contesa dette occasione alla polizia toscana di allontanare dal suo territorio ospiti che le sembravano pericolosi per le continue risse ed i clamori all'interno di questa villa, oltre che all'uso troppo frequente della pistola, tutti motivi d'inquietudine alla tranquilla popolazione di Montenero. Furono dunque presi provvedimenti nei confronti dei conti Gamba ai quali fu intimato lo sfratto da Montenero e dalla Toscana, Lord Byron in segno di solidarietà verso gli amici, partì anch'egli da Livorno diretto in Grecia.
Tragica fu la fine che gli uomini partecipanti a quelle serate ginevrine fecero: Percy Shelley, morì annegato, aveva 30 anni, a causa di un naufragio dopo essere partito da Livorno con un libeccio fortissimo, Byron morì a 36 anni per un attacco febbrile a Missolungi in Grecia, dove era andato a portare aiuto nella loro battaglia per l’indipendenza dai turchi e Polidori vittima di Byron che gli stava letteralmente succhiando la vita e gli annullava la personalità, così raccontava, si suicidò all’età di venticinque anni, bevendo un bicchiere di cianuro.
Così di villa in villa Byron ed i suoi amici si trovarono per l'ultima volta a Livorno, nella Villa delle Rose, posta nelle adiacenze di quella strada che sale fino al colle di Montenero, di fronte al piccolo cimitero, lì Shelley si era recato con la moglie Mary per passare insieme a lord Byron alcuni giorni per pianificare l’apertura di una rivista culturale e lì in quella villa il loro sodalizio terminò per sempre.
Ma corriamo lungo la linea del tempo ed arriviamo a cavallo tra gli anni 1970 e 1980 quando un giorno io e mia mamma, appassionate di storia e di misteri giungemmo alla Villa delle Rose per caso, abbandonata da molto tempo in gran parte dei suoi spazi. Tanto per averne un idea, la villa, posta all’inizio della salita per il Castellaccio, ha una storia molto articolata, la parte originaria dovrebbe risalire alla fine del Quattrocento, ma il grosso dell'edificio risale al XVII secolo, difatti nel 1683 appartenne a Francis Jermy ed era costituita da due piani fuori terra, un giardino con cisterna, le scuderie e vari annessi agricoli; questa fu poi in mano alla comunità inglese di Livorno nel 1718, successivamente passò al negoziante livornese Giovanni Nicola Bertolla, poi fu ceduta a Abraham Culey mercante a Costantinopoli, ed infine venduta ai Dupouy banchieri baschi che la abitarono fino al 1894, quando poi fu venduta ai fratelli De Paoli. Nel corso del XX secolo, ospitò dapprima i profughi della Prima guerra mondiale ed in seguito la sede clandestina del Comitato di Liberazione Nazionale. Per molti anni rimase in stato di semi abbandono, vestendosi di una decadenza che non nascondeva però il fascino che ancora si apprezzava e solo nel 2008 fu oggetto di una vendita all'asta.
Il nostro peregrinare pomeridiano alla ricerca di curiosità storiche e antiche ci portò un pomeriggio ad imboccare un vialetto sterrato da dove in lontananza si intravedeva una bella villa di colore rosa scuro, dire “rosa antico” era veramente appropriato. La villa si presentava come un vasto edificio padronale con timpani e statue, l'ingresso era preceduto da una scalinata impreziosita con le statue rappresentanti le quattro stagioni ed ai fianchi proseguiva con due ali di annessi agricoli che si estendevano come a racchiudere la proprietà. Ci affacciammo all'ingresso principale al termine della scalinata ma era tutto rigorosamente chiuso sprangato sebbene non ci abitasse nessuno. Ci dirigemmo quindi sul retro dell'ala di sinistra dove si apriva un cortile giardino molto trascurato con un pozzo al centro. Io seguivo mamma che nel frattempo si stava avvicinando verso una porticina aperta, la vedo entrare chiedendo permesso. Vado anche io e la prima cosa che mi colpì fu il forte e pungente tanfo di urina, ammoniaca pura, poi il buio ma così cupo che mi ci volle qualche minuto perché gli occhi si abituassero e cominciassero a vedere qualcosa. La scena che si presentò davanti era caravaggesca nei toni cupi e polverosi, una stanza lunga e stretta che dalla porta, centrale, si estendeva a destra e a sinistra, davanti dei mobili antichi attaccati al muro con sopra una collezione di piatti che decoravano quel muro così scuro che sembrava annerito dalla fuliggine. A destra non mi sono mai accorta di cosa ci fosse, un ammasso di forme che si fondevano nell'oscurità, mentre a sinistra aderente al muro dov'era la porta, un letto di ferro con una forma immobile e sottile coperta da un lenzuolo che la proteggeva come un sudario. Ancora la ricordo, composta nel letto, con i capelli candidi raccolti ed il viso e le mani di una pelle diafana che copriva le scarne ossa. Immobile abituata alla solitudine ed al silenzio si accorse di noi dopo un po', volse la testa e ci salutò. Insieme a lei un'altra donna viveva lì, anziana seppure di poco più giovane, si adoprò per farci accomodare porgendoci due sedie di seta imbottite impregnate di polvere e puzza.
Mamma ed io eravamo attonite ed imbarazzate da questa visione surreale, un quadro vivente del periodo barocco per colori e crudezza. Ricordo che ci scusammo per l'intrusione e che chiedemmo prima presentandoci, chi fossero le signore che avevamo disturbato. Ne uscì una storia drammaticamente bella di amicizia, affezione e rispetto di quella più giovane ed autosufficiente signora, cameriera da una vita, della “signorina” adagiata nel letto. Questa, seppure nell’indigenza, non aveva mai abbandonato né il ruolo né tantomeno la persona che accudiva in quella stanza buia come una sepoltura. Rimanemmo stregate da questa “deposizione” vivente che ogni giorno tornavamo a fare compagnia alla signorina, ed alla sua governante che così la chiamava, portavamo loro in modo discreto, nel rispetto della loro signorilità e dignità, un po' di spesa ogni volta, e così fu per molto tempo, poi smettemmo di andare ma non so bene perché. La signorina ci raccontava un poco alla volta la sua storia, apparteneva ad una facoltosa famiglia ebraica e non si era mai sposata, per questo la governante la chiamava “signorina”, raccontava della vita lussuosa che aveva vissuto, dei ritrovi alle corse dei cavalli, dei vestiti che aveva, dello splendore della vita passata, mai faceva cenno al motivo per il quale erano finite in quella stanza buia di uno degli annessi della grande villa.
Di lei ci rimane un piatto con due uccellini che si guardano attraverso gli steli di un capelvenere. Era ciò che le era rimasto dei grandi servizi di porcellane che aveva acquistato da Bourgeois in rue Drouot a Parigi, ce lo donò per quel tempo che le avevamo dedicato nel quale era tornata indietro a rivivere i fasti del suo passato. Purtroppo, non ricordo il suo nome è come svanito dalla mente tanto da pensare se fosse davvero esistita o sia stato un incontro surreale che si presentava a noi ogni volta che varcavamo la soglia di quella stanza, pertinenza della dimora che fu di quei grandi scrittori e poeti, Shelley, Byron e Wollstonecraft, padri e cultori delle ghost stories lette e scritte nelle sere d'estate proprio a Villa delle Rose.