Nella città turca di Sis (oggi Kozan), è nato Simeone lo Stilita, nei tempi in cui, il 17 gennaio del 395 d.C., l’Impero Romano si sfaldò a seguito della morte dell’imperatore Teodosio, e venne affidato rispettivamente ai suoi due figli: Arcadio in Oriente, Onorio in Occidente. Oggi Sis è una città turca, al tempo faceva parte della Cilicia, una regione nel Nord della Siria, nell’Impero Romano orientale o Bizantino. Ma se vogliamo capire in quale contesto si formò la personalità di Simeone dobbiamo spostarci due ore di macchina più a Sud, ad Antiochia. La città fu fondata da Seleuco I, uno dei generali di Alessandro Magno, divenne poi capitale della provincia romana della Siria conquistata dal generale romano Pompeo, fu il luogo delle prime predicazioni cristiane dell’apostolo Paolo di Tarso, e sede di uno dei quattro patriarcati cristiani (insieme a Costantinopoli, Alessandria e Roma), è la città in cui “i discepoli per la prima volta furono chiamati cristiani” (Atti 11,26), qui vi morì l’imperatore Traiano, qui nacque lo storico romano Ammiano Marcellino, venne conquistata nel 540 dai Persiani, riconquistata dai Bizantini, per poi cadere in mano ai Turchi. Siamo nelle terre aride della Siria, della Cappadocia, luogo di santi, crociati, islamici, terra di concili ecumenici, qui passarono gli argonauti guidati da Giasone, siamo nei luoghi in cui nacque la civiltà, dove il cristianesimo raggiunse le sue cime più alte, teatro di scontri fino ai giorni nostri, un luogo dove la terra si protende al cielo tramite denti aguzzi di rocce solitarie, in un eterno grido silenzioso.
È in queste terre impregnate di storia ellenistica, romana e bizantina che un giovane non ancora sedicenne di nome Simeone, figlio di un pastore e di Marta, una donna piissima (poi divenuta Santa Marta), dopo la lettura delle Beatitudini evangeliche decide di ritirarsi in convento per iniziare ad intraprendere una vita basata sull’estrema rinuncia e sulla penitenza (fu tra i primi a fabbricare un cilicio). Un così esasperato comportamento però non si confà nemmeno allo stile di vita dei monaci (i quali erano usi a nutrirsi solo tre volte in una settimana) poiché cozza con la ἐσυχία, cioè la tranquillità d’animo che accompagna la loro vita monastica.
Simeone, conscio che il suo posto non sia nel mondo, al quale il monastero è ancora troppo vicino, lascia i suoi compagni monaci e si ritira per tre anni in una capanna, dove, tra gli scorpioni e altri animali pericolosi, si dedica al totale digiuno per tutto il tempo della Quaresima e a restrizioni ancora più estreme: si lega un ramo di un mirto selvatico intorno all’addome, che presto gli procura ferite infette, purulente e nauseabonde. Terminato questo periodo, Simeone decide di spingersi ancora oltre: si trasferisce sul monte Sheik Barakat, nel Nord della Siria a pochi chilometri dal Mar Mediterraneo, e si fa incatenare sopra un complesso roccioso dalla cima spianata larga non più di 20 metri, esattamente nel nulla, in un luogo sperduto dove la terra e il cielo si toccano, per dedicarsi completamente alla preghiera, all’ascesi e per perfezionare la propria spiritualità. Presto la sua roccia diventa una tappa per i pellegrini che hanno saputo la sua storia e lo vogliono conoscere, oppure per i malati che credono che lui li possa guarire tramite dei miracoli. Ma, come era già successo nel monastero, non tutti ammirano i suoi estremismi. Primo tra tutti a non approvare è lo stesso patriarca di Antiochia Melezio (fu lui a presiedere il primo Concilio di Costantinopoli nel 381 d.C.), il quale si ritrova sconcertato da una condotta, a suo dire, quasi eretica e più simile alle bestie che ad un uomo di Dio. Più volte gli fa visita e gli chiede di desistere.
Ma Simeone è sempre meno interessato alle idee e alle parole che giungono dal mondo e ha bisogno di maggiore isolamento e silenzio, e le stesse grida di gioia dei malati da lui guariti lo disturbano dal suo scopo: essere sempre più vicino a Dio. Decide così di ritirarsi sopra una colonna alta due metri, presso la quale Simeone ordina a tutti di non avvicinarsi. E così Simeone diventa Simeone lo Stilita (in greco στῦλος, stylos "colonna"). Passano gli anni e si trasferisce su colonne sempre più alte, fino a raggiungere l’altezza di sedici metri (“Se non posso lasciare questo mondo in orizzontale, lo farò in verticale”).
Trascorre 37 anni sopra quella colonna, in completa ascesi, in una piattaforma larga non più di quattro metri, esposto a condizioni di vita estreme ed impraticabili per i più. Tramite un sistema di carrucole, i fedeli gli fanno pervenire acqua e cibo sufficienti alla sua sopravvivenza. Con il passare degli anni Simeone concede al suo drappello di devoti di raggiungere la sua piattaforma tramite una scala, affinché sappiano che il suo ritiro non è stato dettato dalla superbia e dall’orgoglio.
Simeone resiste laddove altri avrebbero già ceduto, non molla, il suo scopo lo tiene in vita e rafforza la sua spiritualità, si sente vicino a Dio, il suo animo non è intaccato dal groviglio dei vizi del mondo. Ma anche lui ha dei limiti: rifiuta le cure dei medici per una ferita infetta alla coscia, così, il 12 settembre del 459 d.C., quasi settantenne, Simeone lascia, per la seconda volta, il mondo, e raggiunge il suo scopo: l’infinito divino.
Tutte le fonti di cui siamo in possesso concordano sulla veridicità della sua incredibile vita. La più accurata è la Historia Ecclesiastica di Teodoreto di Cirro, teologo siriano nato ad Antiochia e vescovo di Cirro, nonché entusiasta sostenitore di Simeone. La sua Historia prosegue la ben più famosa Historia Ecclesiastica di Eusebio di Cesarea, il biografo dell’imperatore Costantino.
Simeone ha fatto un’ultima comparsa nel mondo: tra il 476 e il 491 è stata costruita una Basilica in suo onore, presso Qalʿat Simʿān, una località distante 30 chilometri da Aleppo. L’edificio sorge su una collina nel luogo in cui si ergeva la colonna di Simeone, della quale si possono osservare ancora le rovine. Così come in vita, anche dopo la sua morte la colonna rimase un punto fisso di pellegrinaggio da ogni parte dell’Impero e lo rimane ancora oggi.
Innanzitutto, perché ritirarsi su una colonna? Trentasette anni. È un’immagine difficile da visualizzare. Ancora una volta dobbiamo rivolgerci alla civiltà greca. L’uso di passare del tempo relegati sopra un pilastro è una tradizione tutta ateniese. Coloro che venivano accusati di tradimento nei confronti della patria - cioè la polis di Atene - venivano puniti e condannati a stare sopra una colonna esposti al pubblico disprezzo. I nomi dei colpevoli venivano inoltre incisi sulla colonna affinché il ricordo del loro delitto fosse imperituro. Quindi la colonna deve essere letta come simbolo di penitenza ed esposizione, una penitenza che Simeone ha ricercato già nella sua prima giovinezza. Ma la colonna per lui ha assunto anche un altro significato: essa è stata un mezzo per essere più vicino a Dio, e sempre più distante dal mondo.
Simeone non è stato un unicum. La storia di questo devoto uomo di Dio arrivò in ogni angolo dell’Impero e ispirò altre persone a ritirarsi su una colonna per perfezionare la propria spiritualità. Quando Simeone era ancora in vita, ci fu Daniele lo Stilita, che eresse una colonna a Costantinopoli per viverci. Neanche un secolo dopo, la storia ci riporta la storia di Alipio di Paflagonia, che passò da una cella a una colonna, e di un omonimo del nostro Simeone, Simeone lo Stilita, detto il Giovane per distinguerlo dal primo, che per comodità è conosciuto come il Vecchio. Simeone il Giovane nacque e morì ad Antiochia e trascorse 68 anni su una colonna.
Perché leggiamo la storia di Simeone lo Stilita il Vecchio? Può dirsi la sua una vita sprecata? Isolandosi per tutto quel tempo, ha fatto qualcosa di buono per il mondo? Voleva dare un esempio? Oppure la sua fu solo boria e disprezzo nei confronti del mondo? Per noi oggi è difficile comprendere una scelta del genere. L’ascetismo portato agli estremi non appartiene alla nostra epoca, e Simone fu eccessivo persino per la propria, ma dobbiamo ricordarci che i suoi furono i tempi in cui il Cristianesimo stava sperimentando sé stesso, stava cercando di capire fino a che punto potesse spingersi e che forme potesse assumere la fede nei confronti di un nuovo e unico Dio, diverso dagli dei pagani.
Scelte come quelle degli stiliti ci dimostrano quanto il Cristianesimo dovesse ancora normalizzarsi. Presso la città di Atene, vicino agli altari dedicati ad ogni divinità pagana, c’era un altare con su scritto Deo ignoto cioè “Al Dio sconosciuto” (in greco θεὸς ἄγνωστος). Il motivo? I greci temevano di essersi dimenticati di onorare qualche dio, così avevano eretto un altare jolly per tutti gli dei che avevano dimenticato. Quando Paolo di Tarso, durante le sue predicazioni, vide quell’altare, disse: “Passando infatti e osservando i monumenti del vostro culto, ho trovato anche un'ara con l'iscrizione: Al Dio ignoto. Quello che voi adorate senza conoscere, io ve lo annunzio” (Atti 17,23). È in onore di questo Dio sconosciuto che Simeone negò sé stesso su una colonna, per conoscerlo tentò di essergli più vicino. Ma la sua storia non è per noi una semplice informazione. Per quanto assurdo possa sembrare, possiamo rivederci in lui. In che modo? Tutti abbiamo una nostra colonna. Tutti, in un modo o nell’altro, in un momento della nostra vita, decidiamo di costruirci una colonna e di salirci. Ci isoliamo, neghiamo noi stessi o ci neghiamo agli altri. Ci chiudiamo e cerchiamo risposte. Veniamo fraintesi, forse proprio come lo fu Simeone. Gli altri vogliono appoggiare una scala sulla nostra colonna, ma noi non sempre la concediamo. La nostra stessa epoca colpita da una pandemia ci ha costretti su una colonna, una colonna forzata, per alcuni salvezza, per altri castigo. Alcuni non scendono più, altri li vediamo tornare. In ognuno di noi c’è e ci sarà sempre uno stilita pronto a spingerci verso la solitudine, la riflessione e il silenzio, pronto a metterci faccia a faccia con noi stessi. Non reprimiamolo mai. Ci sarà sempre il tempo per una scala.