Per quanto gli antichi greci credessero che la techne fosse inizialmente una prerogativa divina, e solo poi “ceduta” agli umani, una proficua dose di sopravvenuta laicità ci consente oggi di comprendere che la tecnicalità è nulla più che una abilità, un saper fare, che però richiede necessariamente di essere messa a servizio di un disegno, di una visione.
Quel che gli anglosassoni definiscono know-how, “sapere come”, non ha nulla a che vedere col “sapere cosa”; la tecnica, insomma, è sì una competenza importante, anzi certamente necessaria, ma è anche la parte terminale di un processo.
Per costruire un edificio, è sicuramente necessaria la competenza tecnica degli operai edili, di un capo mastro, per non parlare di quella d’un ingegnere. Ma a monte di tale fase esecutiva, c’è il disegno, il progetto di un architetto. Che è a sua volta un tecnico, cioè possiede delle competenze necessarie alla progettazione, ma è anche qualcosa di più; il suo non è mai un lavoro meramente esecutivo, e le sue competenze vengono di volta in volta messe a frutto per immaginare edifici diversi - per destinazione d’uso, per estetica... - e quindi, per quanto sempre nell’ambito del “sapere come”, opera delle scelte, di forme, di materiali, di colori.
Ma soprattutto, ancora più a monte, c’è il committente. È sua la scelta. Sta a lui la valutazione che determina ciò che segue. Lui decide il dove, il quando, il cosa. Un palazzo per abitazione residenziale nel tale quartiere, un palazzo per uffici nel tal’altro, e così via. A nessuno, mai, verrebbe in mente di affidare questo genere di scelta all’operaio edile, ed in virtù della sua competenza in ponteggi, cemento e cazzuola.
La tecnica non è né neutrale, né univoca. Anche ammesso che ci sia un solo modo per tirar su un muro, decidere se alzarlo, dove, e quanto alto, quanto robusto, etc., è qualcosa che non solo precede l’esecuzione dei lavori, ma appartiene ad un’altra categoria. C’è il ruolo del decisore, e quello dell’esecutore. Che hanno diverse responsabilità.
Chiamare quindi l’operaio e dirgli “tu che sei bravo ad alzar muri, vedi un po’ cosa fare...”, non è una manifestazione di rispetto per la competenza, ma un atto di fuga dalle responsabilità. E questo vale tanto più quando la tecnica viene invocata come somma competenza, su questioni ben più rilevanti di un muretto. Che poi, ovviamente, anche l’ultimo degli operai edili, proprio come l’architetto, avrà le “sue” idee, in materia di muri... e se gli si passa la palla della decisione, lo farà come più gli aggrada. Ed anche a prescindere da un suo personale interesse, il suo sarà “un” muro, non “il” muro, l’archetipo dei muri.
Spostare l’atto decisionale su chi possiede la techne, dunque, non dà alcuna garanzia sul fatto che tale muro sia eretto al posto giusto, e delle giuste dimensioni, ma solo - al più - che sarà ben fatto. Cosa peraltro ottenibile ugualmente, affidandogli l’esecuzione di un progetto di muro. Un tecnico non è mero portatore di competenza, ma sempre e comunque di idee e di sistemi valoriali.
Il ricorso continuo ai tecnici, come sostituti della politica, è quindi una delle più grandi truffe intellettuali che si possano perpetrare. Anche se apparentemente ciò costituisce uno schiaffo alla politica, la denuncia d’una sua insufficienza, se non incapacità, è - sempre - in realtà una scelta politicissima, che di neutrale non ha assolutamente nulla.
Intanto perché, com’è ovvio, anche i tecnici non sono tutti uguali, e quanto siano o meno bravi nel proprio campo è solo uno degli aspetti rilevanti. Dal momento che al tecnico non dici più cosa deve fare, contando poi sulla sua capacità di farlo, la sua competenza nel come fare le cose viene “liberata”, ed egli assume su di sé anche la decisione sul cosa fare. Quindi ad entrare in campo sono le sue idee, le sue opinioni, non semplicemente le sue competenze.
Nella storia del nostro Paese vi sono stati, negli ultimi decenni, tre esempi di questo “slittamento di poteri”, dalla politica alla tecnica. Carlo Azelio Ciampi, Mario Monti, Mario Draghi. E questi esempi ci dicono con chiarezza alcune cose fondamentali.
La prima, è che tutti e tre venivano dal mondo delle banche e della finanza. Non semplicemente dal mondo dell’economia, per capirsi. E questo dimostra come quel mondo sia, in ultima analisi, il dominus del sistema globale in cui viviamo. Che, quando lo ritiene necessario, riassume temporaneamente nelle proprie mani il controllo diretto.
La seconda è che i primi due (ma il terzo seguirà...) non hanno svolto un compito, come dire, “di servizio”, completato il quale sono rientrati nei ranghi da cui provenivano. Il travaso dal piano del dominio finanziario a quello del controllo politico è stato permanente, perché segnava ben più di un cambio di ruolo, ma l’irreversibile passaggio dalle quinte al proscenio.
La terza è che questo slittamento è sempre avvenuto non in coincidenza con una particolare inefficienza della politica, ma quando questa non dava sufficienti garanzie di fare le cose in modo conforme a quanto desiderato “ai piani alti”. E quando necessario, si trovava il modo di produrre la crisi formale necessaria.
La quarta è che i governi tecnici (cioè quelli politici al massimo grado) hanno sempre goduto di larghe maggioranze parlamentari; a riprova del fatto che, di là da qualche malumore per il temporaneo “spodestamento”, il mondo politico (tutto) riconosce la propria subalternità a quello economico-finanziario.
Il governo dei tecnici, insomma, a prescindere dalla sua formale aderenza ai dettami costituzionali, e nonostante l’ampio sostegno delle Camere, è sempre e comunque un inganno (perché si presenta come il necessario intervento dei “competenti”), e soprattutto è sempre e comunque un atto di negazione sostanziale dei fondamenti della democrazia, cioè della sovranità popolare esercitata attraverso il mandato elettivo dei propri rappresentanti.