Dipinte in queste rive son dell'umana gente
le magnifiche sorti e progressive.(Giacomo Leopardi, La Ginestra)
Un film curioso e direi unico all’interno del vasto genere della cinematografia di fantascienza. La trama è semplice e quasi realistica, tanto da essere facilmente riassumibile: un valente astronauta lavora su un’altissima antenna terrestre di captazione spaziale (idea già di Verne) quando incidenti gravi dovuti a “tempeste elettriche” fanno sì che si scopra che si tratta dell’effetto di un esperimento sull’ “antimateria” che suo padre, astronauta pioniere, ha condotto, prima di essere considerato disperso, nei pressi di Nettuno, su di un’astronave. La Nasa quindi ha intuito che il vecchio astronauta è ancora vivo e da quell’esperimento spaziale, ancora in corso, derivano gravi rischi per la Terra.
Brad Pitt astronauta, quindi, viene spedito sulla Luna e poi su Marte per mandare un messaggio via laser al padre. Poi eluderà la sorveglianza e, da solo, raggiungerà il padre per far esplodere il pericoloso laboratorio spaziale. Fin qui tutto coerente e ben poco fantascientifico se consideriamo che i messaggi radio spediti e rimbalzati tra Terra e Luna erano conosciuti e possibili già negli anni ’60. Nessuna fantasia poi sugli esperimenti sull’antimateria e sulla sua pericolosità. La stranezza del film sta proprio in questo, cioè nel generale disincanto che domina la narrazione.
Uno “spazio” veramente silente e vuoto di colpi di scena. Una Luna che replica, anche negli amari commenti del protagonista, i limiti conformistici e consumistici del modello terrestre: la società-supermercato e “spettacolo”, e, addirittura, conflitti e violenze da guerriglia e pirateria sulla superficie lunare. Idem per un Marte senza alcun reale interesse né fascino! E, infine, un silente e muto Nettuno, anch’esso leopardianamente indifferente a tanto interesse umano!
La trama formale del film sembra appena un pretesto di un meccanismo narrativo generale per alludere a qualcos’altro, ad un’altra differente narrazione di tipo filosofico e psicologico. Non a caso tutta l’attenzione è concentrata non sulla scienza e sulla tecnologia ma sullo stato psicofisico dell’astronauta protagonista.
Sembra dirci questo film una cosa fondamentale e bizzarra, in quanto contrastante con uno dei canoni della mitologia aerospaziale e stellare: l’uomo è solo, non ci sono forme di vita extraterrestri e l’avventura spaziale è uno dei tanti modi di fuggire dall’insostenibilità della vita terrena. Non solo: un altro canone della fantascienza quale genere di nuova mitologia è dato dalla sua implicita laicità.
Non è ammesso pregare Dio, gli angeli o i santi, come accade in questo film, in quanto uno dei dogmi del racconto fantascientifico è appunto la possibilità prometeica dell'uomo di conquistare da solo una nuova vita. L'extraterrestre e i nuovi mondi stellari-planetari sono appunto ciò che narrativamente sostituisce l'idea di Dio. In Ad Astra invece persino uno dei pionieri dell'astronautica, il padre del protagonista, l'unica cosa di rilievo che condivide è proprio la percezione della presenza di Dio. Una percezione quasi fisica, come se essere vicino a Nettuno permettesse di stare anche più vicini a Dio, come nella visione teolemaico-dantesca si pensava.
Uno dei santi invocati nel film per i viaggi spaziali è San Cristoforo. Scelta tradizionale azzeccata in quanto si tratta di uno dei protettori dei viandanti, presidio al “passaggio”, e il cui nome ricorda benauguralmente la conquista delle Americhe. Il vecchio astronauta resta vicino a Nettuno non perché creda ancora alla ricerca di nuove forme di vita ma proprio perché appare vittima e prigioniero del suo disincanto, della fine del Mito della Ricerca e del superamento del Limite. Non può tornare. Non può vivere con il peso di questo fallimento umano globale. Né vuole condividerlo. L’esperimento sull’antimateria non viene quasi trattato, né si indaga, come fosse un dettaglio della trama e non il suo formale e centrale motore di narrazione. Certamente appare sceneggiatura insostenibile la scelta dell’esplosione nucleare (che miracolosamente salva però parte della navicella e il nostro disincantato eroe) per eliminare il laboratorio (non bastava del tritolo?) ma il tema dominante resta stoicamente e ineludibilmente assordante nel suo silenzio: il vuoto resta vuoto, la conquista dello spazio appare una mera estensione di potere della dimensione terrena, vana e inutile.
Non c’è via di fuga a se stessi e al proprio mondo, se non una stoica autodisciplina in un viaggio che appare senza senso e senza una reale destinazione. Non solo: gli esperimenti spaziali rischiano di sovvertire l’equilibrio della Natura distruggendo la stessa Terra! Un film quindi del tutto anti-eroico e anti-mitizzante proprio sul tema che sembrava solo sopravvivere quale senso di Mito e di Avventura: la conquista spaziale e l’incontro con altre dimensioni di vita. Un film dove il viaggio è solo un test con se stessi, un esercizio sul mantenimento della concentrazione e della lucidità. Solo un possibile epilogo morale residua: l’unica esplorazione di valore è quella umana, interiore, nel rapporto con i nostri limiti umani. Il resto è pura dominazione o alienazione e fuga.
Il volto inossidabile e controllato di Pitt conferma questa filosofia asciutta e stoica. Si può trovare solo quello che si è lasciato e già si conosce: l’amore, la Liv Tyler che ritorna al rientro dell’amaro eroe, unico vero pianeta da amare!