-Vuoi dirmi che scavi dei buchi nella terra e poi seppellisci le tue opere?
-Sì.
-Che cosa strana! Gli artisti di solito fanno di tutto per esporre i propri lavori...non per...
-Ma sai, qui non si tratta di mettersi in mostra. Là sotto siamo ancora in fase creativa. E poi chi ha detto che sottoterra non ci sia un pubblico? Pensa alle talpe, agli insetti, ai lombrichi…
-Dai, ma dici sul serio? Le tue riflessioni surreali hanno il gusto della provocazione… se non stessi parlando con Francis Grayling, artista noto in tutto il mondo, penserei a una conversazione con Anita, la mia figlia più piccola…
-Amico, ascoltami bene. Se hai un seme, tu dove lo metti?
-Nella terra... ovviamente…
-Ok. Allora andiamo d’accordo…
-Sì, ma cosa c’entrano i semi con…
-E i morti? Dove abbiamo messo i morti per migliaia di anni?
-Nella terra.
-E i formaggi?
-I formaggi?
-Sì! I formaggi. Sbaglio o lì da voi in Italia, ancora oggi, si usa stagionare i formaggi in profonde buche nel terreno?
-Mi stai confondendo ancora una volta… cosa c’entrano i formaggi? Non riesco a seguirti...
-Sto cercando di farti capire che non c’è proprio nulla di strano in questa mia ricerca artistica. L’uomo ha sempre seppellito cose preziose e importanti sottoterra. Per salvarle, per conservarle, a volte solo per trasformarle. Ecco, io cerco quello là sotto, cerco la trasformazione. Ma ancora prima cerco la partecipazione degli elementi al processo creativo. E il silenzio. Capisci ora?
-Beh, sì... almeno teoricamente, anche se continuo a pensare che si tratti di un procedimento alquanto curioso…non esente da rischi...
-Guarda che è nel silenzio, ma soprattutto nell’oscurità che nascono le cose più belle. Pensaci. Germinano i semi, vengono concepiti i bambini… e i diamanti... amico mio... i diamanti non si creano su una spiaggia assolata ma nell’oscurità immobile della roccia… Ti sei mai chiesto perché?
-Wow!
-Guarda questi dipinti! Li ho lasciati marcire per sei mesi in un buco profondo oltre un metro e…
-Ma sono tutti rovinati... e…
-Mi stai annoiando. Parli come quell’ubriacone di Sullivan, il mio gallerista londinese. Sempre più preoccupato dell’integrità fisica delle opere che dei processi creativi e dei concetti che stanno dietro alla mia ricerca. Si sforzasse una volta tanto di capire cosa sto facendo veramente…
-Ammetterai che…
-Uff! Ora ti ci metti anche tu! E dire che quando mi hai telefonato l’altro giorno avevo pensato oh, che bello, quel pazzo di Giovanni viene a trovarmi. Tu sai che non amo i giornalisti e i ficcanaso… Ora però lasciami finire questo lavoro che tra poco viene a piovere. Tu se vuoi restare resta ma non mi annoiare con certe domande... ok?
-Posso chiederti un’ultima cosa Fran?
-Dimmi Giò...
-I lavori che hai esposto tempo fa alla Silvertime Gallery a Londra, quelli della serie soprannominata “Holes”, dimmi, erano un’anticipazione di quello che stai facendo oggi?
-Eccolo, questo è il Giovanni che mi piace. Dai, prendi il badile che ci sono ancora da fare quattro grossi buchi per seppellire questi rotoli dipinti. Pensavo di scavare ai piedi di quella quercia laggiù, che ne dici? Devo solo stare attento e segnarmi bene i posti che poi il terreno riprende la sua forma e mi succede come l’anno scorso che non ho più trovato due grosse tele…
-Oh Gesù, Fran, mi vuoi far morire...

Giovanni (Giovanni Tamburi, uno tra i nostri più noti esperti di arte contemporanea) mi aveva avvertito: tentare di intervistare Francis Grayling è sempre stato un terno al lotto. Quando succede ci si sente dei miracolati ma è una benedizione che può trasformarsi in un incubo. In ogni caso per tutta la durata dell’intervista si deve essere pronti a tutto, anche a restare sospesi nel vuoto, in quello spazio senza tempo che Borges – riferendosi alla pittura di Grayling – definì “l’eterno presente dell’arte”. In realtà non c’è definizione o etichetta che si possa facilmente attribuire a questo artista conosciuto per la sua visione estrema.

Devo alla mia amicizia con Giovanni, nata ai tempi del liceo, il contatto con Grayling. Quando mesi fa mi consegnò il testo della sua intervista realizzata nel 2018 - a quanto pare l’ultima concessa al pubblico, della quale avete letto un estratto qui sopra - lo ringraziai. Lui, ricordo, mi sorrise ma con un’espressione ironica che lì per lì non riuscii a comprendere. “Non mi devi ringraziare - mi disse - se Grayling ha accettato, non lo devi a me. Lui evidentemente ha sentito, tu gli vai bene. Grayling ha sempre capito istintivamente chi tenere fuori e chi lasciare entrare nel suo mondo”.

Con queste parole il mio amico Giovanni mi aveva congedato, restandomi a guardare mentre salivo sul taxi che da lì a poco mi avrebbe portato all’aeroporto.

Little Barsham, settembre 2019

Pioggia sottile, insistente. Sull’autobus che mi porta a Little Barsham, il villaggio dell’Est Anglia dove vive Francis Grayling, faccio l’ultimo tentativo di trovare sul web qualche informazione su di lui. Ma anche questa volta mi arrendo. Uno dei maggiori artisti viventi, ripetutamente invitato alle biennali di mezzo mondo, con all’attivo mostre importanti in prestigiose gallerie rifugge la rete, di lui non c’è traccia, niente sito, nessuna pagina sui social, niente. È vero, Giovanni mi aveva detto che Grayling è un tipo originale, un po’ selvatico, quel genere di artista che rarissimamente presenzia all’inaugurazione delle proprie mostre. Un personaggio schivo, dunque, ma a quanto pare uno vero, genuino, non uno snob, come aveva tenuto a precisare il mio amico.

Quando il bus giunge a destinazione mi accorgo di essere rimasto l’ultimo passeggero a bordo. Il conducente mi urla qualcosa in un inglese incomprensibile mentre io mi preoccupo di scrutare attraverso i finestrini appannati, per capire dove sono. Quando finalmente scendo dal torpedone mi ritrovo di fronte ad un cottage isolato con una grande insegna dipinta con la scritta “The Red Fox”- è il luogo convenuto per il nostro incontro - ma, a parte il sottoscritto, non c’è anima viva.

Mi guardo allora intorno e vedo una vasta pianura, leggermente ondulata e boscosa ai margini. Verdissima. Il bus è già ripartito lasciando una lunga scia di fumo dietro di sé, quando ecco apparire di fronte a me una macchina scura dalla quale scende un poliziotto che comincia a guardarmi restando appoggiato alla portiera: “Michele?”, mi chiede scrutandomi serio e lisciandosi ripetutamente i baffi scuri.
-Yes! Dico io, facendo istintivamente il gesto di cercare i documenti nella tasca...
-Agente Grayling! - esclama una volta. Agente Francis Grayling, a suo servizio! Ripete ancora, ma questa volta non riesce a trattenere una sonora risata…

Liberato dal cappello e dagli occhiali, finalmente, lo vedo. È lui. Grazie a una foto che l’amico Giovanni mi aveva consegnato come una reliquia prima di partire, posso riconoscerlo. Sì, è proprio lui! L’espressione del viso corrisponde, forse ora i capelli appaiono un po' più lunghi, così i baffi e la barba. Lo ammetto, sono emozionatissimo.

-Il poliziotto vero è nel pub - mi dice - è un amico. Sa che amo fare gli scherzi...
-Ah ok! Rispondo io, sollevato…
-Vogliamo raggiungerlo? Piacere, Francis. Chiamami anche tu Fran - mi dice stringendomi vigorosamente la mano - come sta Giò?
-Bene bene.

Mentre gli stringo la mano ripenso ancora una volta al mistero della sua assenza nel web. Nonostante ciò mi sento euforico. Sono un privilegiato. Sono realmente in presenza del grande Francis Grayling? Faccio ancora fatica a crederlo.

Francis si rimette in testa il cappello da poliziotto, apre la porta del pub e la folla all’interno ci accoglie con un boato. Guardo l’ora, il locale non è aperto da molto. A giudicare dal rumore però chiunque avrebbe detto che il tasso alcolico nei presenti, è da tempo ben oltre i limiti. Mi preparo a una lunga notte cercando di mantenere il massimo della lucidità possibile. A quello scopo tento di ripassare mentalmente le domande dell’intervista ma i bicchieri di birra vuoti cominciano ad accumularsi anche davanti a me. A quel punto, mentre i buoni propositi svaniscono uno dopo l’altro e il mio inglese si fa via via sempre più fluente, perdo di vista Francis. Lo cerco disperatamente in mezzo alla calca, ma la mia attenzione viene distratta, rapita da un uomo con un cappello a tesa larga e una barba lunga. Che assomiglia incredibilmente a James Mc Ewan, leggenda della scultura contemporanea. Prima che possa accertarmene sento una voce alle mie spalle.

-L’hai riconosciuto?
Mi volto e vedo Francis. -È Mc Ewan, sì! Mi dice come se fosse la cosa più naturale di questo mondo.
-È venuto a trovarmi ieri, a sorpresa. Domani te lo presento.

Qualcuno, nel frattempo, mi ha riempito ancora una volta il bicchiere. La musica si fa incalzante e io comincio seriamente a chiedermi dove pernotterò. Ma sorrido. Dentro di me sorrido pensando ai colleghi italiani, ai seriosi curatori di mostre che, chissà perché, immaginano sempre i grandi artisti chini al lavoro su qualche opera importante... perché in quel cottage in mezzo alla campagna inglese, davanti a me, si agitano, ubriachi, due mostri sacri dell’arte contemporanea. Se un giorno decidessi di raccontarlo, nessuno mi crederebbe.

Il mattino seguente mi sveglio di soprassalto e mi ritrovo in una casa sconosciuta. Sento delle voci di bambini provenire dal piano sottostante e resto per qualche minuto ad ascoltare il ritmico tamburellare della pioggia sul tetto. Di fronte al mio letto riesco a mettere a fuoco un grande armadio smaltato di bianco e in basso, sul pavimento, riconosco la mia valigia semi aperta. Un cane Labrador nero resta nel frattempo immobile a fissarmi a pochi metri di distanza. In quel momento si apre la porta ed entra Francis con una tazza fumante in mano. Dietro di lui noto gli occhi eccitati di due bambini ancora in pigiama che rimarranno poi ad aspettarmi e vorranno a tutti i costi scortarmi giù in cucina. Un invitante profumo di pancetta abbrustolita mi darà il benvenuto. Così faccio la mia conoscenza con la famiglia di Francis, sua moglie Alice e i loro figli. È domenica e si sente che c’è una atmosfera rilassata. Dopo due tazze di caffè nero il mio mal di testa smette di torturarmi e inizio a godermi la bella compagnia e rispondere alle domande curiose di tutti, soprattutto dei bambini.

-Papà ma tu mi avevi detto che gli italiani sono tutti eleganti… allora perché questo signore è vestito così?
Sento bisbigliare il più grandicello rivolto a suo padre…
-Io penso che lui si sia vestito un po' come noi per non farci sentire imbarazzati... - risponde Francis strizzandomi l’occhio sinistro…
Alice intanto mescola il porridge caldo e si gode la scena, sorridendo. -Artista? - le chiedo.

Mi dice che tre artisti in famiglia sono sufficienti e che lei preferisce occuparsi della casa, del giardino e degli animali (scoprirò poi che possiedono due cavalli e numerose pecore…). Dopo la colazione, con Francis ci spostiamo nel suo atelier, un grande spazio ricavato nel vecchio fienile. Jack, il labrador, ci segue e rimane con noi per tutto il tempo.

-Da dove cominciamo? Vuoi raccontarmi un po' da dove vieni... la tua storia d’artista insomma... devo confessarti che non so nulla di te. Ho notato che rifuggi la rete e i social.
-Ha ha ha, anche tu con questa storia…
-Beh, ammetterai che in questo mondo interconnesso e veloce è fondamentale che...
-Che cosa è fondamentale? Guarda che da queste parti, prima che si potesse anche solo immaginare l’avvento dei motori e dei collegamenti veloci, tutti si spostavano ed erano in contatto lo stesso. Poeti, musicisti, pittori, in tanti hanno viaggiato, visitato e soggiornato in Italia e in Africa e non mi pare fossero limitati in qualche modo…

-Sì, ma…
-Sì, ma oggi c’è solo una grande confusione e un frastuono assordante. E la rete dà spesso solo l’illusione della relazione e del contatto.
-E quindi tu, come fai? Spiegami…
-Io? Faccio quello che ho sempre fatto, seguo la mia progressione lenta. E ascolto. Come un’antenna ricevente. È da lei che provengono le indicazioni per me più preziose e la fiducia nell’incontro inatteso. Che non è mai casuale... Come con Lilla…
-Chi è Lilla?
-Lilla Birtwhistle è stata una poetessa e gallerista di talento. Quasi un’icona qui da noi in Gran Bretagna. Pensa che la sua galleria negli ultimi anni (dal 1980 al 1996 anno della sua morte), la famosa Deepdale Exibitions, altro non era che la sua roulotte. Sì! Puoi immaginare i commenti sarcastici degli intellettuali snob di Londra? Tutta gente che col tempo ha dovuto ricredersi e ammettere che Lilla aveva veramente una marcia in più. Li ho visti sai venire in pellegrinaggio esplorativo, ossequiosi, quasi timorosi. Uscirono articoli e servizi, ne ricordo uno bellissimo sul Guardian, diceva: recatevi da Lilla solo se amate la vera arte, attenzione lei non fa prigionieri!! Ha ha...
-Quando l’hai conosciuta?
-Intorno agli anni ‘80, all’epoca avevo 20 anni, aiutavo mio padre a pesca. La mia famiglia abitava sulla costa, in una cittadina chiamata Wells-next-the-Sea. I miei compagni di scuola mi prendevano in giro perché puzzavo di merluzzo. Ma io me ne fregavo. Mi piacevano i pesci e amavo stare in barca. Ero e sono una persona semplice, pensavo che nella vita avrei fatto anch’io il mestiere di mio padre. Immaginavo che un giorno avrei rilevato la barca di famiglia e avrei continuato ad andare per mare. Poi un amico mi portò a conoscere Lilla. Ah, dimenticavo… oltre alla pesca avevo un’altra grande passione, inchiostrare i pesci e imprimere la loro impronta sulla carta azzurra e verdina che si usava al mercato per impacchettarli. Ne avevo una bella raccolta ma non la mostravo a nessuno. Ma il mio amico John un giorno la vide e insistette affinché la portassi in galleria.
-Quindi tu non hai mai avuto una formazione artistica tradizionale... mi sembra di capire…
-Cosa intendi dire?
-Intendo dire una scuola, qui in Inghilterra ci sono scuole prestigiose, il Royal College of Art, per esempio, o la St. Martin…
-Non ho mai aperto un libro d’arte in vita mia, se è questo che vuoi sapere… sono un autodidatta...
-Ah, ok. Ma dimmi, Lilla cosa disse dei tuoi... dei tuoi... pesci?
-Beh, fu un grande giorno per me. Lei ne rimase colpitissima. E fu l’unica a sostenermi in mezzo ad una massa di persone totalmente digiune di arte e incapaci di capire il mio talento. Fu Lilla a invitarmi ad accogliere con coraggio le immagini inconsuete che sempre più prepotenti affioravano in me. E fu da lei che sentii parlare per la prima volta delle stampe giapponesi Gyotaku (calcografie di pesci su carta in uso nell’800). Una vera rivelazione. Che fu poi l’inizio di tutto.
-Che cosa successe dopo?
-Lilla mi mise in contatto con un artista giapponese di nome Hiroto Abe, guarda caso anche lui artista e pescatore. Sei mesi dopo ero da lui, sulla costa Nord-Est del Giappone. Doveva essere una visita breve, rimasi con lui tre anni! Che giorni formidabili! Passavamo il nostro tempo a pescare, disegnare, ristrutturare vecchie case nella foresta, modellare l’argilla. Un’esperienza intensa che mi segnò profondamente. Hiroto era stato a suo tempo allievo del grande Isama Noguchi, uno dei progenitori della Land’s Art. Nella baracca a picco sul mare, circondati dalle grandi terrecotte di Hiroto e con i pesci secchi appesi al soffitto, sentii per la prima volta parlare di Minimalismo e di Arte Concettuale. E anche della vostra Arte Povera… Insomma, tornai a casa trasformato, pieno di stimoli e con una energia creativa incredibile.
-Possiamo dire che fu allora che nacque l’artista Francis Grayling?
-Non nel senso che probabilmente intendi tu…
-Cosa vuoi dire?
-Mah... voglio dire che non mi misi a produrre arte, ecc., questo voglio dire. Continuai a lavorare con mio padre e nel tempo libero ripresi ad andare in giro per le campagne e lungo le spiagge a raccogliere sassi, legni, piume, come avevo sempre fatto durante l’infanzia. La mia casa cominciò a riempirsi di cose. Mi piaceva rifare ciò che già facevo da bambino in forma di gioco, scavare buchi, costruire ponti precari con le pietre dei torrenti, distendermi per ore nei cespugli di erica a guardare le forme delle nuvole. Con Lilla, che non smise mai di tenermi sotto la sua ala nonostante già da tempo avesse perduto completamente l’uso di entrambi gli occhi, continuai a confrontarmi, condividendo tutto, sopratutto i temi dello spirituale nell’arte. Ancora una volta fu Lilla a farmi comprendere l’importanza per un artista di vivere la propria dimensione spirituale ancora prima di imparare l’uso dei materiali o stabilire i temi della propria ricerca.
-Come fu il tuo esordio?
-Fu strano, un po' come il successo che ne seguì. Sono sempre più convinto che la fama non sia altro che il compedio di tutti gli equivoci che si raccolgono intorno ad un nome nuovo, in ogni caso tutto cominciò con una mia installazione al Museo di Arte Moderna di Londra. Ricordo il titolo emblematico: “Clochart, The invisible men”, fu il frutto di una esperienza particolare che ebbi a Londra in quegli anni, quando per un periodo decisi di vivere in mezzo agli homeless.
-Un bel salto dalle spiagge dell’East Anglia alla periferia della metropoli londinese... posso chiederti come mai l’hai fatto?
-Non saprei. L’unica cosa che so è che l’evento scatenante fu l’incontro con un vecchio amico d’infanzia che sapevo essere diventato un broker da 800.000 sterline all’anno. Improvvisamente, un giorno Frank decise di mollare tutto, casa, famiglia, comodità e vivere in strada. Quando lo venni a sapere ne rimasi così colpito che andai a cercarlo e da lì nacque poi la decisione di seguirlo. Ma non immaginarmi come un inviato speciale sai? No, non feci la parte del ricercatore che si immerge in una realtà per meglio studiarla... no... no. Semplicemente decisi di fare una esperienza, di cambiare dimensione. E ti posso assicurare che di sorprese ne ebbi parecchie. Al di là della differenza di ambiente, tutti i temi che sentivo vicini e che fin ad allora avevo trovato in natura li ritrovai lì, in strada. Penso al tempo, allo spazio, all’imprevedibilità e, naturalmente alla libertà. Ma anche alla forza, alla fragilità. E alla bellezza. Una gran quantità di bellezza. Di quel genere di bellezza che gli umani sembrano in grado di esprimere solo quando sono nudi, abbandonati a se stessi. Quando cioè si lasciano andare al mondo. Ci sarebbero molte storie da raccontare - Dio solo sa quanto il mondo degli homeless sia pieno di storie - ma ti voglio solo far capire come alcuni temi della mia arte negli anni che seguirono trovarono terreno fertile lì e si svilupparono in quel contesto urbano, in una dimensione totalmente diversa e sconosciuta per me. -Quindi anche la tua mostra successiva “Homeless Babylon” a New York nell’88 fu dedicata a quell’esperienza…
-Sì! Partendo da un’installazione originaria che poi via via modificai adattandola ai nuovi luoghi. Ogni anno sceglievo una città e una galleria diverse e disegnavo una mostra site-specific. A New York, per esempio, ci fu la partecipazione eccezionale di 40 veri homeless, dove ognuno creò qualcosa e lo presentò insieme alla sua storia. Ricordo che per l’occasione tutti accettarono di farsi una doccia e di vestirsi elegantemente. Non si trattò di una necessità igienico-sanitaria ma di una mia idea, parte del progetto. Diciamo una parte un po' provocatoria. Moltissimi tra gli invitati alla mostra, in gran parte fighetti del jet-set newyorkese si trovarono in difficoltà di fronte allo spessore e alla bellezza di quelle persone “ripulite” per l’occasione. A differenza loro gli homeless erano creature viventi, vibranti. E avresti dovuto sentire la ricchezza delle loro conversazioni! L’unico problema era controllarli al momento del rinfresco...

-Il nostro comune amico Giovanni mi ha detto che ami molto cambiare, fare esperienze.
-Sì, è vero. Dopo l’inatteso successo e le prime richieste da parte di collezionisti e galleristi pensai bene di cambiare ancora aria, mi comprai una Harley e me ne andai in America. Mai scelta risultò più strategica. Quando tornai nel ‘95 le mie quotazioni erano lievitate in modo incredibile. Mio padre era morto da poco, ero senza soldi, mi misi al lavoro e nel giro di pochi mesi creai una nuova serie di opere intitolate “Holes” sui quali i critici ricamarono le cose più curiose ma che in realtà erano state ispirate dalle suole bucate delle mie scarpe e dalla montagna di debiti che si era accumulata bevendo birre a credito al pub, alla sera.
-E la mostra come andò?
-Fu un altro successo. Ma non credere che lo avessi dato per scontato...
-Mi vuoi dire qualcosa di più a proposito della mostra “Holes”?
-Fu una mostra dedicata al concetto di vuoto, un tema da me fortemente sentito ed elaborato durante gli anni in Giappone. Il vuoto che contiene molti altri significati tra i quali quello di spazio/passaggio e la possibilità quindi di contatto tra luoghi o dimensioni diverse. Fino al concetto di vita e morte. Veniamo o non veniamo tutti in fondo tutti dallo stesso buco? Ricordo che dipinsi molte delle mie opere sulla carta da lettera della mia banca che mi minacciava tutti i giorni a causa dei miei debiti. Fu una reale necessità - avevo pochissimo materiale - ma diventò un rituale trasformativo/propiziatorio. Non mi crederai ma già il giorno dell’inaugurazione ebbi il sold out. Alla sera festeggiammo tutti al pub, io potei saldare in un colpo tutti i miei debiti, la felicità era palpabile, soprattutto quella del proprietario. Curiosamente fu da quel momento che in molti cominciarono a considerarmi un vero artista. A volte mi chiedo se anch’io fui tra questi.

-E dopo la mostra “Holes” cosa successe?
-Partecipai ad Art-Basel 97 nella “scuderia” di artisti della Silvertime Gallery, la galleria con la quale lavoro ancora oggi. Lì conobbi artisti di tutto il mondo, devo dire fu molto bello e stimolante. Tra questi non posso dimenticare Friedensreich Hundertwasser che all’epoca già viveva in Nuova Zelanda. Fu lui a presentarmi Caroline Bennet, artista neozelandese con la quale iniziai un sodalizio molto bello che divenne col tempo una amicizia importante, che dura ancora oggi. Mai prima di allora mi ero confrontato con un’artista così legata alla natura, capace di “sentire” e di integrare in modo assolutamente armonioso la pratica della pittura a quella delle passeggiate quotidiane e della raccolta di legni, fiori e pietre. Era esattamente quello che avevo fatto anch’io negli anni precedenti, seppure in modo più irregolare. La sua mostra “Nature’s delight”a Londra mi stregò letteralmente. Seguirono “The Edge” e “Soul of Soil” ripetivamente a New York e a Barcellona. A quest’ultima diedi un mio contributo fotografico. Più ci conoscevamo e più scoprivamo di avere cose in comune o di aver fatto percorsi simili nonostante le migliaia di chilometri che ci separavano…
-Posso chiederti come fate a mantenervi in contatto?
-Da anni manteniamo una ricca corrispondenza cartacea e nel periodo delle biennali europee lei mette sempre in conto qualche settimana da trascorrere a Little Barsham o io nei miei tour in China e Australia ricambio con piacere la visita. Nel gruppo internazionale di artisti al quale fanno capo le varie correnti di Land’s Art io e Caroline siamo oggi considerati un po' dei cani sciolti. Le nostre idee, le carte “energizzate” nei fiumi, l’uso della terra e delle foglie mescolate a medium fotografici, (vedi la mostra fatta insieme a Berlino nel 2007, “The invisible treasure”) sono state per lungo tempo ammirate ma anche criticate, guardate con sospetto. Sinceramente non capisco perché. Prima di noi, altri artisti hanno fatto percorsi simili, penso a Nolde che dipingeva durante le nevicate e auspicava la collaborazione della natura, penso a Beuys per il quale natura, spirito, protesta erano inscindibili...
-Quindi anche la tua più recente pratica di seppellire le opere…
-È chiaro, segue il filone originario già esplorato da Caroline, sì, ma ti ripeto, noi siamo gli umili discendenti di artisti che prima di noi hanno cominciato a parlare di natura, ad usare la natura e l’arte per parlare di spiritualità, di trascendenza. E oggi anche di politica.
-Di politica? In che senso?
-Beh, i temi ecologici non sono più un argomento da salotto, urge una nuova consapevolezza. E gli artisti sono un ottimo tramite raggiungerla. Caroline mi ha aiutato molto anche in quel senso, riuscendo a contestualizzare aspetti della mia ricerca che, per quanto ricca e originale, rischiava di frammentarsi e disperdersi come l’acqua in mille rivoli. Se fosse stato per me sarei andato avanti ad accumulare esperienze e poi a produrre arte un po’ “random”, ad uso quasi esclusivamente personale. Perché per me l’arte ha sempre rappresentato un modo per esprimere la gratitudine, ogni gesto pittorico un gesto intimo. Una preghiera. Caroline mi ha portato ad avere una vera coscienza di artista. Che significa responsabilità verso gli altri. Un atteggiamento che non dimentica la dimensione personale ma la connette alla rete invisibile che collega tutti gli esseri umani.

-Quanto è cambiata la tua vita con la notorietà e il successo?
-Voglio risponderti con un pensiero contraddittorio: non molto anzi moltissimo. Non molto significa sostanzialmente che non sono cambiato. Moltissimo significa che ho potuto fare cose che in passato sognavo di poter fare, come rinnovare la barca da pesca di mio padre o ristrutturare la casa dove ora abito con la mia famiglia. Tutte cose che ho potuto fare in leggerezza, senza stress. Moltissimo significa anche la possibilità di fare esperienze e vivere la grandiosa bellezza del mondo. Della preziosa eredità di ognuno di quei viaggi, mi accorgo con stupore ogni volta che dipingo ma anche quando parlo. Anche le stelle qui a casa in estate hanno da tempo acquistato una luminosità commovente perché quando le guardo ora penso sempre ai luoghi che ho visitato e alle persone che ho conosciuto che probabilmente in quel medesimo istante hanno il naso all’insù e guardano il cielo. È una sensazione di comunanza che prima non avvertivo così forte.

-Come fai a coniugare una vita così errabonda con la tua famiglia, una moglie... dei figli…
-Ma sai questa che vedi è una versione molto recente di me, Julian e Katy sono un regalo di questi ultimi anni. Con loro e ovviamente con Alice, la mia compagna, ho deciso di mettere radici e quando mi sono posto la domanda dove? Beh, non ho avuto dubbi. Però siamo anche abbastanza zingareschi, diciamo che il quartier generale è qui e poi riusciamo comunque a muoverci. Abbiamo un van con tutto quello che serve per campeggiare. L’anno scorso abbiamo trascorso un indimenticabile maggio in Sardegna. Che posto incredibile. Come vedi non è cambiato nulla... o quasi. Certo che sembrano lontani i tempi in cui passavo i miei giorni a dipingere con la terra rossa in centro Africa con Caroline o il periodo in cui schitarravo con la mia band a Norwich…
-Oddio, mi fai girare la testa! Ma quante cose hai fatto!
-Ha… ha… ha…
-Forse il segreto del tuo successo, posso dire così? È questa apertura che dimostri di avere verso tutte le cose. Per scoprire poi che sono tutte importantissime fonti di ispirazione, anzi, la vera e propria trama invisibile del tuo mondo artistico.
-È così…
-Ascolta, io ti ringrazio per la tua disponibilità e…
-Dai, niente ringraziamenti… piuttosto ora devo andare a seppellire due o tre cose, vieni con me?
-E me lo chiedi? Ascolta però ho un’ultima domanda... Cosa diresti ad un/una giovane aspirante artista? Quale consiglio ti sentiresti di dare a chi inizia?
-Mah, forse quello che mi disse Lilla a suo tempo: sii te stesso. La cosa più semplice ma anche la più difficile. Il mondo di oggi è molto complesso ed è facile perdersi lungo il proprio percorso di ricerca e di vita. Ci sono moltissime opportunità per tutti e questo è buono. Ma ci sono anche molti falsi modelli e una quantità inverosimile di stimoli e sollecitazioni. Un frastuono che può confondere. Anche il concetto di libertà, che è alla base dell’arte, molto spesso viene tradito o mal interpretato. Personalmente, avendo seguito un percorso da autodidatta, se vuoi anche un po' rabdomantico, guardo alla formazione artistica dei giovani come un po' appiattente, troppo omologante. Meglio che perdere tempo in una accademia forse un viaggio, o studi classici, chessò filosofia, archeologia. Mai rinunciare alla propria capacità di stupirsi però, al piacere di giocare. Può darsi che anche in questo, come in tutte le cose ci sia però un destino. Per questo continuo a pensare a quanto possa essere a volte insidioso e riduttivo definirsi artisti rinunciando a vivere altre parti di sé che invece chiedono di essere considerate. E si sa che quando questo succede nasce la nevrosi…

Usciamo di casa con un thermos di tè caldo e latte. Francis si è riempito le tasche di biscotti. Il paesaggio di fronte a noi è grandioso, colline basse si alternano a boschetti di querce e grandi appezzamenti di terra lasciati al pascolo. Un chiarore particolare del cielo verso Nord tradisce la presenza del mare. L’unico suono che si sente è il belare delle pecore. Raggiungiamo la base di una collina a dieci minuti a piedi da casa. Francis mi porge una tazza con del tè caldo e inizia a parlare.

-Ci chiamavamo “The Impeachements”, ah che tempi!
-Stai ripensando alla tua vecchia band?
-Eh già…
-Che genere di musica facevate?
-Pop-Soul. Avevamo anche alcuni strumenti a fiato. Scusa stavo pensando alla musica perché in questo punto dove ci troviamo io ho captato i nostri pezzi migliori…
-Captato? Cosa intendi dire?
-Sì, hai capito bene, captato. Ricordo che tutte le volte che venivo in questo punto della collina sentivo dentro di me una melodia. Ogni volta era diversa. E allora scendevo in paese fischiettando il nuovo motivo e quando ci riunivamo per le prove poi lo proponevo e con qualche piccolo arrangiamento diventava uno dei nostri pezzi. Tutti mi ammiravano per le mie doti compositive – le definivano geniali – ma io avevo questo segreto e l’ho mantenuto fino all’ultimo.
-Che fenomeno misterioso…
-Sai, l’universo è un luogo molto affollato... anche nella sua parte invisibile. Anche le idee in pittura, non si tratta di nostre invenzioni, no... no. È tutto già presente, le immagini come i suoni, sono sedimenti, combinazioni di elementi impressi in una memoria che non ci appare. Per questo sotterro le mie opere. Nella speranza di captare qualcosa. Il risultato non è mai certo. Un po' come quando si va a pesca. Che strano non avevo mai pensato a questa similitudine con la pesca, ora che ci penso è proprio così, si buttano le esche, si mettono le reti e si attende con fiducia. Senza nessuna certezza. Ecco, vedi, in fondo non ho mai smesso di fare il pescatore...