Quando uno dei nostri antenati tracciava, sulle pareti di una caverna, il ‘ritratto’ di un bisonte, con ogni probabilità rispondeva ad una duplice esigenza, descrittiva e simbolica. Diversamente da noi, egli sentiva probabilmente d’essere a sua volta un ‘animale’, e si percepiva come parte di una più ampia cosmogonia, di cui il bisonte era un altro degli elementi.
Dunque, se per un verso la valenza simbolica di quella pittura rupestre potrebbe farci pensare che vi fosse una sua ‘astrazione’ dal reale, certamente l’autore cercava di riprodurre fedelmente ciò che vedeva, e lo faceva al massimo delle proprie capacità ‘artistiche’. Se, per assurda ipotesi, avesse potuto disporre di una Polaroid, avrebbe disseminato la grotta di fotografie, piuttosto che di figure vermiglie, tracciate con pigmenti naturali.
Tale capacità, che solo molto successivamente avremmo cominciato a pensare e definire come arte, per quanto ne sappiamo cominciò a manifestarsi circa 45.000 anni fa; a tale epoca risale la più antica traccia (ritrovata) di ‘arte figurativa’1. Precedentemente, l’espressione ‘artistica’ umana si limitava a tracciare segni che oggi definiremmo ‘astratti’.
Per oltre quarantamila anni, quindi, abbiamo associato l’idea di arte con la raffigurazione realistica del mondo. E quanto ciò abbia potuto segnare il nostro sviluppo culturale è facilmente immaginabile. È solo poco più di un secolo fa, che abbiamo cominciato a considerare l’astrattismo come arte; ed anche a ciò siamo pervenuti attraverso un lungo percorso, che ha attraversato le arti figurative, reinterpretando la rappresentazione del reale.
Questo imprinting culturale ha fatto sì, e tuttora fa, che la nostra idea di arte sia assolutamente antropocentrica, non solo in senso ampio, in quanto attività tipicamente umana, ma anche in senso stretto, e cioè che è prodotta dall’uomo.
Ragion per cui, ad esempio, a lungo la fotografia, o il cinema, non sono stati considerati arte. Cosa che è avvenuta soltanto quando la macchina fotografica e la cinepresa sono stati considerati meri strumenti, al pari di un pennello o di una spatola - per quanto ovviamente più potenti di questi ultimi. Ed è singolare, se non si tiene conto appunto del nostro millenario imprinting, che questa ‘accettazione’ delle macchine come strumento dell’artista, sia avvenuta quando l’evoluzione tecnologica di tali macchine aveva fatto passi da giganti, rispetto al momento del loro apparire, rendendole pertanto molto più significative nell’ambito del processo di creazione artistica.
La nostra evoluzione culturale ci porta oggi a considerare come arte, quindi, sia creazioni che prescindono dalla rappresentazione figurativa del reale, sia creazioni che sono solo parzialmente produzioni direttamente umane. In una fotografia, ad esempio, il ‘contributo’ umano è soltanto nell’occhio, nella scelta dell’inquadratura. O nella post-produzione, quando comunque ad eseguire le operazioni è un computer, e l’intervento umano si limita ad una scelta tra le opzioni che il software offre. Ma già la fotografia digitale spinge più in là il ruolo della macchina, laddove - potendo disporre di un numero quasi illimitato di scatti - spesso il fotografo è portato ad eseguire lunghe e veloci sequenze, tra le quali sceglie solo successivamente. Ma l’accelerazione che, in questi ultimi decenni, sta avendo lo sviluppo tecnologico, apre ora nuovi scenari, che interrogano l’uomo in modo radicale, e rispetto ai quali una parte significativa del suo ‘senso’ (non solo estetico) sono messi in discussione.
Se, infatti, la macchina fotografica e da presa, prima, il computer poi, hanno in effetti già prodotto un’arte cyborg, che non è più soltanto prodotto dell’uomo, ma di questo e delle sue ‘macchine’, l’affacciarsi dell’era dell’intelligenza artificiale ci pone dinanzi ad una svolta culturale di enorme portata, e di non facile ‘gestione’.
Sul piano artistico, l’AI è per adesso prevalentemente concentrata nello sviluppare capacità imitative. Non semplicemente nel produrre copie, ma letteralmente nell’imitare - ad esempio - uno stile pittorico. Nel 2018, da Christie’s è stata battuta all’asta (e venduta per 432.500 $) un’opera totalmente generativa, realizzata in base ad una serie di algoritmi, ed intitolata Edmond de Belamy; l’opera, un ‘ritratto’ di gentiluomo in nero, è per l’appunto un tentativo di far realizzare arte ad una macchina, imitando un possibile stile pittorico umano. Ma, dietro questo esperimento, c’è il collettivo francese Obvious che ha prodotto i ‘campioni’ di stile ed ‘istruito’ gli algoritmi. Un ulteriore passo avanti è stato fatto con il progetto The Next Rembrandt, realizzato da Microsoft, Delft University of technology, museo Mauritshuis dell’Aja e Casa-museo di Rembrandt ad Amsterdam. Attraverso la collaborazione di sviluppatori, analisti, esperti di dati, ingegneri e storici dell’arte, è stato sviluppato un algoritmo che ha poi prodotto un ‘falso’ Rembrandt, presentato alla Galerie Looiersgracht60 di Amsterdam, e che - in perfetto stile del pittore olandese - ‘ritrae’ un uomo del 17esimo secolo con cappello nero e collare bianco.
Entrambe questi esperimenti rappresentano comunque, per quanto gli esiti possano apparire straordinari, una fase embrionale di ciò che può venire. Siamo già, certamente, su un crinale sconcertante, quello del possibile passaggio dalle fake-news ai fake-artworks. Ma siamo comunque sempre nel campo della imitazione. E, non a caso, nel campo dell’arte figurativa. Ma, se la creazione di un perfetto falso Rembrandt da parte di una macchina ci stupisce, cosa accadrebbe per un falso Pollock?
In realtà, l’AI è ancora in una fase ‘infantile’; non a caso, l’obiettivo che si pongono oggi i ricercatori è quello di sviluppare un’intelligenza artificiale che, per capacità interpretativa del linguaggio e di riconoscere oggetti, sia paragonabile ad un bambino di pochi anni.
Ma, appunto, lo sviluppo tecnologico corre sempre più veloce. Le reti neurali, e domani i computer quantistici, metteranno a disposizione una capacità ed una velocità di elaborazione incredibile, che significherà un balzo in avanti nel machine learning, cioè nella capacità delle macchine di imparare da sole, senza essere specificatamente ‘istruite’ dall’uomo.
Ed eccoci nuovamente a Pollock. Domani - un domani assai prossimo - ci saranno macchine in grado di realizzare opere d’arte figurativa e non, assolutamente indistinguibili da quelle realizzate dall’uomo - tanto più, appunto, se saranno ‘astratte’. Anzi, è proprio in questo campo che l’AI potrebbe dar vita a nuove estetiche.
Ovviamente, lo sviluppo di capacità ‘artistiche’ da parte delle macchine non significa che scomparirà la produzione artistica umana. Ma certamente questa sarà, a sua volta, influenzata da quella algoritmica. E soprattutto, si porrà una domanda fondamentale, e cioè come e cosa definiremo arte. Dal momento che saranno indistinguibili, quella umana e quella non-umana, avranno entrambe quell’aura di cui parlava Walter Benjamin?
Da sempre, dalle grotte di Altamira al MoMa, l’arte ha rappresentato un fondamentale strumento di relazione dell’uomo, fornendogli chiavi per interpretare e comprendere il mondo, e per collocare nel mondo se stesso.
Quanto - e come - ci cambierà, l’irruzione di un'arte non più esclusivamente umana?