Nel 1974 Leonard Cohen aveva pubblicato il suo quinto album, New skin for the old ceremony. Dopo tre dischi in studio e un sorprendente (per la precocità) live, due cose erano chiare su di lui. La prima è che, a dispetto di un successo ancora tutto da venire, era uno dei cantautori più ispirati che ci fossero in circolazione, un poeta squattrinato che aveva trovato nelle canzoni la fonte di sostentamento, regalando al pubblico una serie di perle. La seconda è che queste perle erano fatte di una materia che sembrava depressione solidificata, solo raramente disinnescata dai lampi di umorismo che invece sarebbero diventati presto una caratteristica costante della sua opera. Da Songs of Leonard Cohen fino a Live Songs il livello di sofferenza contenuto nelle canzoni, e anche nell’interpretazione, era stato sempre crescente. Le recensioni dei critici meno lungimiranti sono ancora lì a testimoniarlo, senza pietà.
New skin for the old ceremony aveva rappresentato qualcosa di diverso, soprattutto grazie all’incontro con John Lissauer, che di quell’album fu il produttore e che portò una ventata di freschezza nel tessuto musicale di Cohen, con arrangiamenti che se certo non si possono definire né pop né gioiosi, avevano un respiro più arioso, e sembravano liberare i testi ponderosi dalle atmosfere sonore più inconsolabili.
Cohen e Lissauer si erano incontrati a casa di quest’ultimo, in un modo che vale la pena di raccontare, e che io ho scoperto leggendo la biografia definitiva sul grande canadese, scritta da Sylvie Simmons e intitolata I’m your man. Leonard andò a trovare Lissauer nel suo appartamento, ma era stato avvertito: non funzionava l’apriporta, quindi all’arrivo avrebbe dovuto suonare al citofono e afferrare le chiavi che il padrone di casa gli avrebbe gettato dalla finestra. Solo che quando Cohen arrivò al portone, trovò il garzone di una pizzeria che si era appena fatto aprire. Cohen quindi decise di pagare le pizze, entrò nel palazzo e, prima di salire dal produttore, suonò al campanello della signora che le aveva ordinate, e che abitava al piano di sotto. Questa donna, incidentalmente una sua fan, aprì la porta e si trovò davanti Leonard Cohen, elegantissimo, con i cartoni delle pizze in mano.
È un aneddoto che ha sempre successo quando lo racconto, ma che serve anche a descrivere quelli che poco fa ho chiamato lampi di umorismo, che fiammeggiavano in modo imprevedibile nel lavoro e nella vita di una persona che ha sofferto di depressione per almeno tre quarti della sua esistenza. New skin, al di là della produzione riuscita e del salto di qualità sul piano della fruibilità musicale, contiene alcune delle canzoni più importanti della carriera, a cominciare da Chelsea Hotel #2 e dalla gigantesca Who by fire. Se dovete scegliere un inizio di percorso da ascoltatori di Leonard Cohen, cominciare da qui potrebbe non essere un errore.
Era abbastanza scontato, dopo un risultato così brillante sul piano artistico, bissare quella collaborazione per il disco successivo. E infatti i due ci lavorarono. Doveva intitolarsi Songs for Rebecca e ancora oggi è inedito e avvolto nel mistero. Già, perché sulla strada di un Cohen inconsapevole a quel punto c’era l’incontro più assurdo e imprevedibile che si potesse immaginare, quello con Phil Spector.
Mi è venuto in mente di scriverne per la morte recente del grande produttore, in carcere per omicidio. Nel 1977 Spector e Cohen avevano lo stesso manager, Marty Machat, che mettendoli insieme riuscì a onorare in un colpo solo un paio di promesse fatte alla casa discografica. Solo che fondere le canzoni di questo canadese sempre sull’orlo del baratro che si era affidato a un’architettura sonora scarna fino al limite del frugale, e il geniale produttore delle Ronettes e dei dischi di Ike e Tina Turner (ma anche di Let it be, Plastic Ono Band e All things must pass), era un’idea folle, da ogni punto di vista. Provate, che so, ad ascoltare in sequenza Avalanche e poi Be my baby. Prendete il wall of sound spectoriano, una complessa stratificazione di strumenti, voci, parti orchestrali, ottenuta con una serie di sovraincisioni che alla fine si condensavano appunto in un muro di suono. E poi prendete la chitarra flamenco di Leonard e la sua voce anticonvenzionale, sempre pronta a scivolare verso il dirupo della malinconia più irrisolta. Pensate a cosa può venirne fuori. Ne venne fuori un album assolutamente strampalato come Death of a ladies' man, che si apre nel modo più scioccante per chi lo aveva seguito, con una specie di My Way à la Cohen (True love leaves no traces), e che più avanti evapora in una canzoncina come Fingerprints, troppo spectoriana e troppo leggera per stare addosso a Cohen, ma che svela anche momenti folgoranti come il tintinnio di Iodine, o quella Memories che per anni è rimasta nel repertorio live, o la rotolante Don’t go home wit you’re hard-on, in cui Cohen sconsiglia di tornare a casa con un’erezione in corso e che vede nei cori la presenza di gente tipo Bob Dylan o Allen Ginsberg, che erano passati in studio a fare un saluto, e ai quali Spector aveva fatto la classica proposta che non potevano da rifiutare. Già, perché Phil aveva un modo tutto suo di gestire il rapporto con gli altri. Per esempio, quando lavorava in studio di registrazione con Cohen teneva sempre una pistola carica appoggiata sulla consolle. Ogni sera portava via i nastri e li chiudeva in cassaforte, in casa sua. Insomma, quel disco probabilmente (e comprensibilmente, alla luce di questi dettagli) era più suo che di Leonard, che infatti lo detestò (come detestò Spector) per quasi tutto il resto della sua vita. Solo molto anziano ne fece una flebile rivalutazione parziale, dicendo che era piaciuto ai punk e che in tanti gli avevano dato un credito che lui gli aveva negato. Ma non era il disco che avrebbe voluto fare, e per uno che fin dall’inizio aveva avuto un forte controllo sulle sue canzoni, era un peccato inemendabile.
Ma alla fine com’è questo disco? Merita una chance o è da buttare nell’archivio degli album sbagliati? Mi sembra abbastanza difficile rispondere in modo netto, perché che sia una roba nata al rovescio è innegabile, eppure a più di quarant’anni dalla sua uscita io lo metterei semmai nell’archivio degli album più strani che si possano immaginare, ma sono anche convinto che, al di là di una manciata di pezzi che ascoltati senza pregiudizi funzionano alla grande (con la voce da condannato a morte di Cohen appoggiata su quel florilegio di sovraincisioni), è un momento a suo modo significativo nella sua discografia. Una tappa che probabilmente ha aperto la strada ai dischi successivi, a Recent songs, ma soprattutto a Various positions (prodotto da Lissauer, finalmente), che certamente rompeva in modo deciso con la classicità musicale dei primi quattro lavori in studio. Non sono sicuro che ci saremmo arrivati senza la frattura di Death of a ladies' man. Non è un caso che nel giorno della sua morte, tanti abbiano ricordato Phil Spector postando sui social non solo le canzoni de suo album di Natale o uno dei tanti 45 giri di successo che hanno inventato il modo spectoriano di concepire l’utilizzo dello studio di registrazione, ma anche i brani di questo scontro frontale tra lui e Cohen. Una collaborazione che naturalmente si chiuse con quel singolo episodio, e che non sfociò in amicizia (“la persona peggiore che abbia incontrato” disse a un certo punto Leonard, che negli anni seguenti smussò gli spigoli), ma che, per rispondere alla domanda che facevo poco fa, merita sicuramente una chance, e anche un posticino nel vostro cuore, nell'angolo delle stramberie.
Certo, purtroppo (e tragicamente) Spector era più un tipo da scherzi con la pistola che con le pizze, questo sì.