La scuola, per i “primini”, rappresenta un momento sacro di passaggio dall’ambiente casa all’ambiente sociale, è il primo ambiente esterno, fortemente significativo, non solo per il doversi cimentare in quell’arduo compito che è la separazione dal materno, ma anche perché comporta l’incontro con l’ignoto e il misurarsi con le proprie capacità, il proprio impegno e il tollerare di essere giudicati e valutati per le proprie prestazioni. È un momento diverso dal solito, dove il giocare non è più in primo piano, ma va lasciato sullo sfondo, come un po’ a decantare… Comunque, questa avventura dell’iniziare l’anno scolastico è connotata sempre da emozione, qualsiasi anno di scuola si frequenti.
I primi grembiulini, le cartelle, gli astucci, i quaderni nuovi di zecca per i “primini”, l’acquisto di testi più complessi e magari qualche materia da recuperare per i “veterani”: tutti, comunque, alle prese con un mondo di emozioni da incontrare e metabolizzare.
Sappiamo che la scuola è diventata, sempre di più, un affare di famiglia: gli allievi in prima linea, i genitori nelle retrovie; in ogni caso l’impatto con l’avventura dell’apprendimento è un’impresa che coinvolge a tutto tondo il nucleo familiare. Si accendono sentimenti di speranza o di preoccupazione, ansie o aspettative e, proprio all’interno del percorso scolastico, si giocano gli affetti familiari e, a volte, si manifestano conflitti latenti.
La questione è che la mente umana ha bisogno dell’altro per potersi sviluppare e necessita di un lungo periodo di attenzione e di cura da parte delle figure primarie, per cui è logico che il processo di conoscenza tocchi, non solo l’interessato, ma inevitabilmente anche le persone di riferimento, perciò i genitori, consciamente o inconsciamente, si sentono corresponsabili del funzionamento mentale dei propri figli.
Può essere utile allora pensare a questo strano e meraviglioso fenomeno che è l’apprendimento, fenomeno che riguarda tutti gli esseri viventi, ma che negli umani ha dato vita a una facoltà che ci contraddistingue, a quella funzione specie-specifica che si chiama “mente”, la quale, pur essendo un’acquisizione assolutamente recente nella storia dello sviluppo dell’umanità, è di un’importanza fondamentale, a seconda che funzioni o meno, per determinare il benessere o il malessere della persona.
Com’è accaduto che proprio nell’uomo si sia strutturato l’apparato per pensare? Se ci tuffiamo negli albori dell’umanità, possiamo scoprire questa storia.
Due milioni e mezzo di anni fa, in prossimità del lago Turkana, nell’Africa orientale, esistevano gruppi di esseri viventi a metà tra la scimmia e l’uomo: gli Australopitechi che, come le scimmie avevano la mandibola robusta, adatta per triturare noci e radici e, allo stesso tempo, camminavano eretti come l’uomo.
Raccoglievano i sassi con le mani con le quali rompevano il guscio delle noci e, spesso, scheggiavano le pietre per ottenerne frammenti con lo scopo di raschiare la corteccia degli alberi per procurarsi le larve, cibo molto appetibile. Una volta usati, i ciottoli scheggiati venivano abbandonati e, al bisogno, ne venivano forgiati dei nuovi.
Contemporaneamente agli Australopitechi, viveva un altro gruppo di ominidi, con la testa un po’ più grande e la mandibola meno possente, camminavano in gruppo, maschi, femmine e piccoli, con passo più spedito e, soprattutto, non mangiavano subito quello che trovavano nella savana, ma conservavano il cibo in rudimentali contenitori fatti di foglie intrecciate, urlavano parole primitive e vivevano anche di caccia: questi formavano la banda dell’Homo Abilis. Alla sera si riunivano per la spartizione del cibo e gli “utensili” ricavati dalla scheggiatura dei sassi non venivano buttati, ma erano riutilizzati per realizzare le loro attività di sopravvivenza.
Mentre gli Australopitechi si sono estinti, l’Homo Abilis si è evoluto fino a diventare l’Homo Sapiens da cui noi deriviamo.
L’Homo Abilis non si è estinto perché era più destro nell’usare le mani, questo gli ha consentito di avere un certo successo con la caccia e, di conseguenza, di diventare onnivoro, di dover usare meno le mandibole che sono diventate meno robuste, rendendo possibile un aumento di volume della scatola cranica. Insieme all’uso delle mani si è parallelamente sviluppato l’uso dell’occhio con i relativi centri visivi e si è modificata la posizione dello scheletro che è diventato sempre più adatto alla stazione eretta.
L’uso della mano, perciò, ha dato il via allo sviluppo del cervello, instaurando una circolarità positiva di influenza. Da quel momento l’uomo ha modificato la natura riuscendo a adattare l’ambiente ai suoi bisogni. Ma cos’è successo al cervello del nostro antenato quando per la prima volta usò un sasso per spaccare una noce?
Tra le immagini visive immagazzinate separatamente nel cervello si è verificato un collegamento che ha messo in contatto l’immagine-sasso con l’immagine-noce: questo primo legame ha generato un’idea, un pensiero creativo e, da quella prima volta, i collegamenti neuronali si sono sempre più potenziati e il pensiero è diventato sempre più complesso.
Questi cambiamenti strutturali avvenuti nel cervello dell’uomo nel corso di milioni di anni e che hanno notevolmente modificato i comportamenti della specie umana, li possiamo ritrovare nel percorso evolutivo che il piccolo dell’uomo affronta, fin da quando è concepito, nel compiere il suo cammino verso l’adultità.
I comportamenti adattivi dell’Homo Abilis che gli hanno permesso di evolversi sono le condizioni che tutte le teorie evolutive ritengono indispensabili per la realizzazione del processo di sviluppo di un bambino: il “camminare in gruppo” dell’ominide lo ritroviamo nel bisogno fondamentale del bambino di non sentirsi solo, ma appartenente ad un gruppo stabile di riferimento, alla famiglia come base sicura per poter crescere; il “costruire contenitori per conservare cibo ed utensili” dei nostri antenati corrisponde alla necessità di sentirsi dentro il proprio luogo, dentro quel contenitore psico-fisico dove affidare le proprie parti fragili e bisognose al fine di sentirsi coesi e di essere aiutati a tollerare il dolore mentale; lo “spartire il cibo”, invece, si riflette nell’esperienza di condivisione, di costruzione di legami affettivi, di vivere relazioni di scambio, di aiuto reciproco; l’“abilità manuale, visiva, cerebrale” si ripropone nel poter sperimentare il proprio corpo nella relazione con sé e con gli altri, tramite, per esempio, il gioco, e riguarda il toccare e l’essere toccati, il guardare e l’essere guardati per riconoscersi e poter strutturare il senso di identità.
L’apprendere, dunque, non è una questione meramente intellettuale, ma la storia della nostra specie ci dice che presuppone un’esperienza complessa di relazione e di maturazione. E di messa in gioco del corpo.
Si evince, anche, che l’evoluzione del piccolo dell’uomo richiede molto tempo; la neotenia, cioè la immaturità congenita del neonato è la caratteristica che lo contraddistingue dagli altri cuccioli che nascono invece con maggiori competenze: il bambino necessita, pertanto, di molta cura, pensiero e dedizione e, soprattutto, della possibilità di sperimentare legami emotivi profondi che lo facciano sentire “in gruppo” nel suo cammino di apprendimento alla vita.
Ma ora siamo tutti immersi in una terribile situazione, mai vissuta prima con la stessa gravità, estensione e forte compromissione del vivere sociale. La pandemia ci obbliga ad una necessaria distanza per cui tutto il patrimonio sociale di contatto e di condivisione è molto mortificato. Ci sono di supporto le comunicazioni via etere, è vero, ma si sente tanto la mancanza della bellezza della presenza col corpo anche se ci ingegniamo a trovare altri modi di colloquialità.
Questo vedersi, contattarsi “da remoto” è utile, indispensabile e sostenibile a partire da una certa fascia di età, sia per l’aumentato numero di competenze maturate che per il patrimonio acquisito, interiorizzato di esperienze di contatto e di legame in periodi precedenti. C’è stata una storia personale e di gruppo, una storia relazionale intessuta di corporeità che si è insediata nella mente. Abbiamo immagazzinato un tesoretto di cui probabilmente non ci rendevamo conto e che magari abbiamo anche sottovalutato dandolo per scontato, ma di cui ora riconosciamo tutta la preziosità e da cui possiamo attingere per andare avanti.
Ma per i nostri “primini”?
Per i primini e per i bambini della scuola elementare si sono trovati stratagemmi per offrire loro una fisica convivenza possibile, anche se non scevra da rischi ed inquietudini. Il virus corre impudico anche lì, incurante di violare la sacralità dell’età infantile.
E come si stringe il cuore quando si scoprono positività negli scolaretti con la conseguenza di assenze obbligate, di isolamenti e di tamponi di controllo.
E come ci suona tragico, perché innaturale, sentire un bambino di 10 esultare felice, esclamando “Sono negativoooo!!!”.
Non erano altri i motivi di gioia?