Immergersi e godere di un paesaggio innevato, selvaggio, in preda a una tormenta è più semplice di quanto si pensi. La lettura di un pezzo letterario per me emblema del racconto d’inverno è certamente più attraente di una carrellata di fotografie in qualche social: Ethan Frome di Edith Wharton (1862-1937). Conosciuta per il romanzo che le valse il premio Pulitzer nel 1921, L’età dell’Innocenza, la formidabile scrittrice americana nel suo lungo racconto raggiunge l’apice dello stile naturalistico. Ambientata nella sperduta campagna del Massachusetts, la storia si svolge tra la neve, le bufere e le trame dei rami gelati che si stagliano nelle serate azzurrine ai margini del bosco. Le discese sulle slitte, il mezzo migliore per spostarsi, rendono verosimile il gelo che penetra nelle ossa, l’ambiente umile delle fattorie isolate svela la semplicità della vita nell’America rurale di fine Ottocento. Un secolo in cui la neve era da tutti conosciuta come insostituibile risorsa. Oggi assimilata alla macchina turistica dello sci da discesa, da fondo e da alpinismo è considerata spesso una sventura quando supera i livelli desiderati o arriva fuori stagione.
Pochissimi pensano alla neve come insostituibile mezzo per ricaricare le falde acquifere o a garantire quell’incredibile processo di sminuzzamento del terreno che lo renderà ideale per accogliere le semine primaverili.
Sotto la neve pane, sotto la pioggia fame.
Un antico proverbio contadino ricorda come il grano, in generale i cereali, beneficino della presenza della neve che ne garantisce lo sviluppo della pianta e predispone un miglior raccolto. Ma credo che qualcuno ricordi quanto nell’ultimo secolo la neve ha perso l’utilità che l’ha sempre contraddistinta. Per secoli, infatti, la sua “coltivazione” è stata un bene prezioso per tutto il Mediterraneo, la sola Sicilia fino agli anni ‘40-‘50 del Novecento svolgeva un ruolo importante nel settore alimentare con delle vere e proprie società per la vendita della neve. Abili mulattieri e carrettieri lungo i tratturi portavano blocchi di acqua gelata, dalle ‘neviere’ del monte Etna e delle Madonie alla marina dove sorgevano le prime botteghe del ghiaccio. Le neviere erano delle grotte molto ampie dove le grandi palle di neve tra i 50 e 60 chilogrammi, trasportate da pali che le infilzavano, erano stipate in strati alternati alla paglia, si dice fino a 365 livelli come il numero dei giorni dell’anno.
Prima dell’avvento dei frigoriferi, il ghiaccio era consegnato a domicilio da carretti tirati da cavalli e migliaia erano le persone che in Sicilia lavoravano con questo tipo di commercio. La conservazione delle derrate alimentari dipendeva dalla disponibilità di ghiaccio acquistato di volta in colta o da una ghiacciaia per coloro che avevano la possibilità di costruirla. La ghiacciaia è un manufatto che ancora oggi possiamo vedere nei grandi giardini storici. Solitamente si tratta di “una costruzione conica o piramidale in muratura spessa o pietra, con un buon drenaggio, spesso semi-interrata, per la conservazione dell’acqua gelata, di cibi e vini”1. Ve ne è testimonianza nell’antica Roma con le nivatae poziones; al IV secolo a.C. invece risalgono le poderose fosse del ghiaccio iraniane dette Unoyakh-chal rinomate per la complessa composizione di diversi materiali dalla sabbia all’argilla alla cenere, al cedro, al pelo di montone. L’obiettivo di queste tecniche costruttive era uno solo: impermeabilizzare e isolare quanto più possibile per conservare al meglio a basse temperature.
Antenate degli attuali frigoriferi, che vengono sostituiti frequentemente e poi ammassati nelle discariche, le conserve della neve erano un elemento di pregio dei giardini e chi poteva ne curava la costruzione e l’aspetto estetico perché diventasse una bizzarra attrazione del parco, come i giochi d’acqua o le meravigliose limonaie.
A Boboli nel famoso parco cinquecentesco, al centro di Firenze, le “diacciaie” sono edifici a pianta circolare coperti con cupolette e un camino centrale, di notevole bellezza. Qui di notte carri con botti coibentate di sughero portavano il ghiaccio proveniente dall’Appennino. Sempre a Firenze, nel Parco delle Cascine, una curiosa struttura a piramide di fine Settecento, che ricorda un monumento sepolcrale, è anch’essa il luogo per la conservazione di vini, frutti e alimenti; sembra che fu proprio Caterina de’ Medici ad introdurre per la prima volta in Francia sorbetti e gelati. Un certo Ruggeri al seguito di Caterina, probabilmente come cuoco, pare stia stato l’ideatore, mentre addirittura all’architetto Buontalenti (1531-1608), autore tra l’altro della grotta grande di Boboli, spetterebbe l’idea di unire l’uovo al ghiaccio e allo zucchero.
La neve era anche venerata quando associata alla figura di Maria madre di Gesù, non stupisce la presenza costante su tutto l’arco alpino, dalla Carnia alle Alpi Cozie in Piemonte, delle piccole chiese dedicate alla Madonna della Neve. A Nostra Madonna della Neve veniva chiesta la grazia della venuta della neve e del ghiaccio per alimentare le neviere e poter conservare i cibi. E questi eventi in montagna venivano auspicati già in agosto proprio quando le riserve di ghiaccio erano ormai finite. Il miracolo della Madonna della Neve, che viene ricordato il 5 agosto del 352, ricorda la nevicata estiva sul Colle dell’Esquilino, uno dei sette colli di Roma dove, sullo spazio innevato, fu costruita Santa Maria Maggiore e anche detta Santa Maria ad Nives.
Tutta questa tradizione delle montagne svanisce agli occhi dei turisti, quando appaiono le stazioni sciistiche sempre più imponenti, con i loro piloni, le grandi cabinovie, i luoghi di ristoro accompagnati da spazi gioco e divertimento per bambini, la musica altissima per bere e divertirsi all’aperto dopo le discese, nonostante le feroci code di attesa, ammassati di fronte ad un costoso tesserino superski valido tutta la stagione.
L’importante è che la neve tenga! Dicono i gestori degli impianti, ma comunque c’è sempre la possibilità di spararla questa neve, per cui anche se non nevicherà è bene fare nuove piste, nuovi impianti, a costi elevatissimi per l’ambiente e per località turistiche. Sul Monte Terminillo, nel Lazio, in questi giorni sono a rischio 17 ettari di bosco per la costruzione di nuove piste, dove probabilmente non nevicherà quasi mai.
Negli ultimi quaranta anni sono stati impiegati tecnici come agronomi, forestali e ingegneri compiacenti, per progettare nuove piste, indipendentemente dalle previsioni delle richieste turistiche. Uno sport quello della discesa mordi e fuggi, una giornata, un weekend, una settimana al massimo per godere di quei luoghi sciando indisturbati in un paesaggio alterato che per ritornare con la flora potenziale impiegherà 40-50 anni nella migliore delle ipotesi. Non è bastato il fallimento delle Olimpiadi del 2006 in Piemonte quando il Villaggio Olimpico dopo otto anni è divenuto un luogo spettrale abbandonato, mentre una pista mai più usata è costata 1,3 milioni di euro all’anno. La montagna diventata una villettopoli delle seconde case, nel migliore dei casi costruite come piccoli condomini di città trapiantati in altitudine, ha comportato gravi effetti sull’ambiente. L’agricoltura di montagna si è ridotta al minimo anche grazie alla politica agricola comunitaria, che ha standardizzato le produzioni, il territorio non gestito e i cambiamenti climatici hanno fatto il resto. Frane, smottamenti, erosione dei suoli spesso proprio in prossimità e in conseguenza di interventi invasivi e incessanti per favorire la ricettività estiva ed invernale.
Molti sono ancora i negazionisti del cambiamento climatico, nonostante l’esempio della tempesta Vaia che nel 2018 ha distrutto quarantadue milioni di esemplari di conifere e alberi diversi sulle Dolomiti, nonostante le cadute di neve improvvise e straordinarie che mettono in ginocchio intere vallate. L’incredulità degli amministratori locali, lo stupore degli sciatori delusi dal non poter sfruttare ancora una volta quel paesaggio che ora cerca di difendersi, di preservarsi e di allontanare tutti in un silenzio immacolato che solo la neve sa creare.
1 Mariella Zoppi, Le voci del giardino storico. Glossario, Angelo Pontecorboli Editore, Firenze, 2014, pag. 78.