La donna che ha avuto un contributo decisivo in termini di musica e parole nell'adolescenza della maggior parte di noi, ha passato qualche mese fa un compleanno sereno nei limiti dell'ictus che l'ha colpita poco oltre la fatidica soglia dei 70. Un abbraccio affettuoso per Roberta Joan Anderson in arte Joni Mitchell, da qualche tempo oggetto di approfondite elaborazioni della sua sconfinata arte. Con uno splendido cofanetto, Joni Mitchell Archives. The Early Years (1963-1967), che conta ben 29 inediti assoluti, si inaugurano ufficialmente i suoi archivi personali che prenderanno in oggetto tutta una carriera che parte da queste prime, acerbe, folgorazioni degli esordi.
Nella lunghissima intervista rilasciata a Cameron Crowe, Joni rimane quella di sempre: intelligente, spiritosa, veloce di testa, senza peli sulla lingua, con la sua amara per quanto realistica visione del pianeta e dell'industria discografica. Di certo una che chiude dicendo: “I'm still a sucker for love”, è ancora capace di (fare) sognare.
I ricordi sembrano ben ordinati e copiosissimi: in questo box di finitura pregiata e suono quasi sempre all'altezza anche dal punto di vista dinamico, ci sono quasi sei ore di registrazioni casalinghe impresse su nastro magnetico, fra cui un trittico di pezzi provinati solo per sua madre, session radiofoniche e live incantatori, che inanellano un dettagliato ritratto di una crescita rapida per quanto sorprendente della Mitchell come performer e autrice, nel periodo che porta al suo album di debutto fino al 1967.
Le sue influenze negli anni '60 attingono ovviamente al folk di Joan Baez e Judy Collins, ma Joni ci racconta anche della sua passione per il jazz (a cui suo padre l'ha iniziata) ed il rock 'n'roll, con un fulminante incontro con Chuck Berry. Ma quello che sentiamo nelle prime composizioni originali di Mitchell, però, è qualcosa di più luminoso e coinvolgente: si tratta della gioia palpabile della creazione artistica. "Questa è una canzone nuovissima, e ho fatto impazzire tutti suonandola due e tre volte a notte", ribadisce al disc jockey Gene Shay nel marzo 1967, prima di attaccare Both Sides, Now, il capolavoro che aveva scritto solo qualche giorno prima.
Ciò che segna l'evoluzione del songwriting di Mitchell, però, è il graduale emergere di leggerezza, fluidità, persino di umorismo trascinante, come si evince in Dr. Junk e What's the Story Mr. Blue, mentre il disco finale, con tre live set consecutivi dell'ottobre 1967, mostra un’interprete assai più matura e consapevole rispetto alla direzione da intraprendere e anche a qualche peccatuccio veniale, come l'ingenua Happy To Be Here del 1963.
Ciò che arriva in pieno è la consistenza dell'intero corpus lavorativo, più che il singolo episodio: a voler scegliere un momento di particolare soavità, forse si potrebbe propendere per il primo arrangiamento di Little Green, la candida ode alla figlia che aveva (suo malgrado) dato in adozione in una vicenda quasi dickensiana. "Rimasi incinta a 20 anni nel college che frequentavo - ebbe a dire la Mitchell - la cosa più importante in quel momento era cancellare l'onta. Lo scandalo era enorme. Socialmente era una rovina. Quasi come se avessi ammazzato qualcuno". I genitori non seppero nulla, e lei non chiese mai aiuto alla famiglia. Il padre della piccola, Brad McMath, all' epoca era uno studente e non era pronto a metter su famiglia. Non se la sentì di affrontare l'aborto né un matrimonio riparatore. "Una madre infelice non può crescere un bambino felice". Nel pezzo ripreso dagli archivi, a differenza della versione apparsa più tardi su Blue, Joni canta il nome della figlia in un potente e struggente lamento: Kelly Green.
Non la sentiremo più dal vivo, né avremo dischi nuovi, ma oltre a questo primo capitolo di una serie che andrà a ripercorrere per intero il suo volo, Joni ha creato tanta e tale bellezza che la sua eredità continuerà a brillare in eterno. Come ha sottolineato di recente David Crosby, il suo mentore per antonomasia: “Joni Mitchell è allo stesso livello di Bob Dylan per i testi, ma è molto più completa come musicista”.
In pratica, il/la migliore del secolo.