Oggi le fiabe non si raccontano più davanti al camino. Gli spazi della narrazione si sono spostati presso nuovi focolari: cellulari, dispositivi, computer... Ma pur sempre di focolari si tratta, in un certo senso. Il contatto con l’immaginario avviene attraverso uno schermo; con un semplice click siamo in grado di realizzare un’azione molto simile a quella del mago, possiamo evocare contenuti in un “battibaleno”, acquisire il superpotere di viaggiare senza spostarci. Nella dimensione social possiamo decidere di osservare il mondo rimanendo invisibili oppure, al contrario, di diventare visibili a un gran numero di persone. Ci inoltriamo in luoghi virtuali come un tempo eroi ed eroine esploravano gli antichi boschi delle fiabe, nei quali non è inusuale imbattersi in lupi o predatori, e non è un caso se i primi motori di ricerca celebravano i nomi di accompagnatori iniziatici o psichedelici: Virgilio, la guida che fa da scorta nelle profondità infere; Alice, la bambina che conduce attraverso la soglia di un mondo pieno di meraviglie. Ma noi, siamo sempre gli stessi viaggiatori di un tempo?
Nel luogo di ogni narrazione c’è un focolare acceso: un tempo aveva forma circolare ed era considerato lo spazio sacro di Hestia, la dea che ci invita ad aggregare le nostre energie verso il centro, nel nucleo più intimo di noi. “Centro” e “fuoco” sono le suggestioni intorno a cui chiama Hestia, che non ha statue o simulacri: solo nel guizzo delle fiamme si può intuire il suo volto, nel cuore di quel balenare trasformativo e cangiante, in quell’ipnotico baluginare che è in grado di indurci in uno stato di quiete meditativa. Il “focolare psichico” di Hestia è lo spazio che chiama l’anima a ritirarsi verso la propria sorgente sacra; il luogo nel quale è più facile accogliere le storie.
Sono molte le fiabe che ci ricordano l’importanza di custodire il fuoco sacro, perché quando il focolare di Hestia è spento il gelo ci attanaglia. Di quel gelo ci parla la fiaba struggente della Piccola Fiammiferaia, una bambina che non conosce il tepore di un nido famigliare. A piedi nudi, vagando intirizzita per le strade innevate della città, oltre le finestre delle case ammira tavole imbandite di ogni ben di Dio, fuocherelli scoppiettanti e famiglie allegramente riunite per le festività natalizie. Nella tasca del suo grembiule custodisce le uniche illusioni che ha: quei pochi fiammiferi di cui dispone, che accende uno dopo l’altro. Ognuno sembra riuscire a portarle un po’ di quel calore tanto desiderato, ma non è che una fiammella effimera, che dura il tempo di un attimo e poi si estingue. Ne sono rimasti pochi, ormai: gli altri li ha venduti, cedendo per un misero penny l’unica cosa che può tenerla al caldo. L’ultimo fiammifero le dona anche l’ultima immagine felice, che riesce a riscaldarla per una volta ancora: quella della nonna morta che la chiama a sé. Il vero focolare... l’unico in grado di sciogliere il gelo.
Ma c’è un’altra fiaba, di tutt’altro tenore, che ci parla del fuoco di Hestia, ed è quella di Vassilissa la Bella. Anche Vassilissa sperimenta un focolare domestico privo di tepore: sua madre è morta da tempo e la nuova moglie di suo padre proprio non ci riesce ad amare quella figliastra, che con la sua gentilezza e la sua pazienza mette in cattiva luce le figlie naturali. Ma una fredda notte d’inverno il focolare si spegne e la matrigna invia Vassilissa a cercare un po’ di fuoco. Per ottenerlo dovrà recarsi da Baba Jaga, la vecchia che vive nel folto della foresta: è la strega a custodire il fuoco sacro! Vassilissa è coraggiosa e trova la casa di Baba Jaga, che la accoglierà e la terrà con sé per molto tempo, sottoponendola a difficili e progressive prove da superare. Il suo aspetto è terrificante: ha il viso sporco di fuliggine e occhi infuocati, si affaccenda intorno al camino con scopa e attizzatoio e di notte dorme sopra la stufa. Talvolta si sposta in volo, cavalcando un mortaio, spingendosi con un pestello e spazzando dietro di sé con la scopa che regge nella mano sinistra. Eppure, sotto quelle spoglie è simile a una nonna, che osserva e sorride di nascosto dei progressi della ragazza; sono prove di iniziazione quelle a cui la costringe, che consentiranno a Vassilissa di guadagnarsi il fuoco prezioso che illuminerà la via del ritorno e riporterà calore nella sua casa.
Nella figura della Baba Jaga non rivive solo il sembiante igneo della mite Hestia. In lei c’è soprattutto l’eredità simbolica di una dea tutt’altro che docile, la splendida e terrificante Ecate, la strega divina che incede avvolta in un manto infuocato e che abita nei recessi dei focolari. Ecate è la dea che irrompe nel buio delle notti che precedono il solstizio per illuminare il cielo con le sue torce; colei che i greci chiamavano Phosphòros, la Portatrice di Fiaccole. Il mito racconta che fu lei a porgere la mano a Persefone quando riemerse dalle profondità degli inferi, per aiutarla a superare la soglia e illuminarne la strada.
Nella figura della nostra Befana rivive l’archetipo di entrambe: Ecate e Hestia. La Befana si sposta in volo come la prima, e come la prima è minacciosa e benevola al contempo, terrificante ma portatrice di doni. Il fuoco è il suo elemento e la cappa del camino, come una porta infera, è la soglia magica attraverso la quale ci raggiunge. Come Hestia, per un attimo ci concede di indovinare le sue fattezze fra le fiamme: ama farci visita nell’intimità delle nostre dimore, proprio nel luogo in cui le nonne sono solite raccontare storie ai bambini. È dove si tramandano i racconti che la casa è più calda, ed è lì che può aprirsi lo squarcio incantato che permette ai vivi e ai morti di comunicare e agli antenati di portare doni.