In Italia, si sa, le classi dirigenti non hanno quel che si dice un buon rapporto con l’arte e la cultura. In genere, gli assessorati alla cultura sono i meno ambiti, ed i più poveri di risorse... Anche a livello di governo centrale non ce la passiamo tanto meglio. Fatte salve poche, rarissime eccezioni - e mi piace qui ricordare la purtroppo fugace esperienza di Massimo Bray - il ministero di via del Collegio Romano è solitamente presidiato da personaggi che starebbe molto meglio al ministero per l’agricoltura e foreste...
Il MiBACT, tra l’altro, è un ministero particolare, che si occupa di una materia assai delicata come la cultura, in cui la direzione politica deve muoversi con i piedi di piombo. Per questo, un eccesso di ‘dirigismo’ ministeriale non può che suscitare perplessità già in linea di principio; quando poi sembra orientarsi verso obiettivi non condivisi da gran parte degli operatori del settore, forse sarebbe il caso di soprassedere.
In questo senso, è significativo che l’attuale ministro sia tra i capofila, nell’ambito della compagine governativa, di quanti stanno penalizzando massimamente proprio il settore di cui dovrebbe occuparsi. E, ovviamente, a nulla vale richiamarsi alle ragioni sanitarie addotte, stante che queste valgono per qualsivoglia attività. Mentre, ed è un dato di fatto difficilmente confutabile, le attività artistiche e culturali sono neglette, considerate e trattate come superflue ed irrilevanti. Ben oltre le eventuali motivazioni dettate da ragioni di profilassi.
Se poi si considera che la risposta ministeriale alla crisi in cui sta precipitando il comparto, è l’idea - a dir poco bizzarra - di una Netflix della cultura italiana...
Pensare infatti che la creazione di un canale digitale, su cui far confluire la produzione artistica e culturale italiana, possa essere sostitutivo, od anche solo di efficace sostegno, rispetto al teatro, al cinema, ai musei, sembra piuttosto il segnale che di teatro, cinema e musei si ha un’idea alquanto miserrima.
È un po’ come voler applicare all’arte un’eutanasia non richiesta - mentre la si nega a chi invece ne vorrebbe riconosciuto il diritto.
Insomma, la morte dello spettacolo dal vivo.
Questa idea di canalizzare sul digitale le produzioni culturali, partorita in assoluta solitudine dal ministro, e subitaneamente resa operativa, senza alcuna consultazione degli operatori del settore, ed anzi nonostante la loro manifesta contrarietà, suscita molte perplessità; di merito e di metodo.
Nel giro di pochissimo tempo, infatti, si è passati dall’annuncio dell’intenzione di procedere in questa direzione, alla concretizzazione di un accordo con un piccolo canale digitale italiano, Chili, peraltro facente capo ad un imprenditore nonché parlamentare dell’opposizione. Quel che si sa è che il ministero finanzierà l’operazione con 10 milioni (non sappiamo prelevati da quale voce di bilancio), mentre altri 10 li verserà la Cassa Depositi e Prestiti - ormai diventata il bancomat del governo... mentre Chili ne investirà 3.
Ma perché si è arrivati a Chili? Perché gli altri possibili partners, Rai in testa, si sono sottratti all’abbraccio, consapevoli dell’inutilità di una simile operazione, destinata a sicuro fallimento (tanto paga Pantalone!).
Quella che il ministro immagina come una “piattaforma per valorizzare nel mondo l’offerta culturale italiana e in particolare gli spettacoli dal vivo”, e che il nostro non esita a dipingere come un potenziale colosso dell’entertainment culturale (“altro che Netflix”!), non ha infatti alcuna possibilità di competere sul mercato globale, già solo per una questione di scala. Il citato canale digitale, per dire, ha investito nel 2020 17,3 miliardi di dollari in produzioni originali (200 milioni solo in Italia), Hbo Max 2 miliardi, Apple Tv+ 1 miliardo.
Inoltre, com’è ovvio, i fondi che andranno investiti in questo buco nero verranno chiaramente sottratti ad altro, ed in particolare al Fondo unico per lo spettacolo, e quindi avremo da un lato un inutile spreco di risorse in un’operazione sbagliata concettualmente, ed economicamente improponibile, e dall’altro un depauperamento delle risorse disponibili per sostenere realmente il mondo delle produzioni artistiche e culturali. Oltre il danno, la beffa.
Ma, appunto, il danno economico è solo una parte dell’assurdità di questa operazione. Pensare infatti di “valorizzare nel mondo” l’arte e la cultura italiana, significa innanzitutto renderle disponibili in varie lingue, cioè un investimento notevole per ciascuna produzione (che sia in carico al canale stesso o meno), e quindi automaticamente restringendo di fatto l’accesso alla piattaforma ad un numero ristretto di player, quelli ovviamente attrezzati per grandi produzioni. Ci sarà qualche grande teatro nazionale, qualcuno dei più importanti teatri d’opera, e poi? Ovviamente nessun operatore medio-piccolo avrà la possibilità reale di accedervi, e comunque di essere ‘competitivo’.
Tutto ciò, purtroppo, si inquadra nell’ambito di quel ‘cattivo rapporto’ di cui si diceva all’inizio, e che di norma (a questo punto, quando va bene!) comporta trascuratezza, ma sfortunatamente talvolta si concretizza invece in un interessamento dalle conseguenze negative.
Insomma, non paghi dei fallimenti di ‘very bello’ (sic!) e ‘Italia.it’ - perfetti esempi di cosa la classe dirigente italiana intenda per digitalizzazione, nonché di come non ne capisca un accidente - ci accingiamo ad un altro spreco di denaro pubblico, con la scusa di sostenere l’arte e la cultura italiana.
Eppure, se davvero si volesse farlo, ci sarebbero ben altri modi, e forse persino più economici. Perché il sostegno alla cultura non si può esaurire nel privilegiare poche grandi istituzioni, ma necessita un investimento sul futuro, e quindi deve essere capace di sostenere e far crescere soprattutto le realtà piccole e medie, che sono poi ad un tempo quelle che alimentano l’offerta culturale diffusa, e che contengono i germi per il continuo rinnovamento artistico e culturale del Paese.
Avendo, ad esempio, a mente l’articolo 42 della nostra Costituzione, laddove dice che la proprietà deve avere una funzione sociale ed essere accessibile a tutti, si potrebbe mettere mano ad un grande piano di ‘messa a profitto culturale’ del patrimonio immobiliare pubblico e privato in disuso. Sulla falsariga di quanto sperimentato a Napoli (una delle poche cose veramente buone ed innovative della sindacatura De Magistris), dove alcuni edifici comunali non utilizzati sono stati dati in concessione gratuita per attività sociali e culturali, e che hanno animato ed animano da anni la vita culturale della terza città d’Italia, si potrebbero affidare a cooperative di produzione culturale tanti spazi abbandonati, ottenendo così molteplici risultati.
Intanto, quello di offrire una possibilità alle realtà più deboli economicamente, affrancandole da un onere insostenibile ed al contempo mettendole in condizione di autosostentarsi; e poi, ovviamente, di aumentare fortemente l’offerta culturale sul territorio, rendendola accessibile anche a chi non può permettersi i costi della cultura più ‘paludata’, di impedire il progressivo degrado di edifici a volte di grande pregio, e più in generale di frenare il degrado urbanistico e sociale di pezzi delle nostre città. Il tutto, con una scheggia di quel che ci costerà l’ultima alzata d’ingegno ministeriale.
Insomma, per dirla in una frase, più Cinema Palazzo, e meno decisionismo di Palazzo.