Un'altra ambulanza.
Quante sono?... Cinque?... Ventitré?... Millanta? Una di voi, non ricordo chi delle tre, contava così, da piccola. “Conti come Heidi!”, dicevo io, e sorridevo. Millanta era il mio numero preferito, sapeva di cieli stellati e tappeti magici.
Sono notti agitate queste. Il sonno vero, quello è un ricordo. Il suono delle ambulanze di notte fa ancora più paura. Il buio e il silenzio lo amplificano. Mi scuote spesso dallo stato di semi-incoscienza in cui mi accontento di scivolare, la sera, quando mi abbandono sfatta sul letto. Allora rimango in attesa, vigile, le orecchie tese, a indovinarne la provenienza, a seguirne il percorso, a sperare che si allontani e non svegli voi, che per fortuna dormite tranquille. Per ora non è mai arrivato troppo vicino, nella via dove stiamo.
Lì, con gli occhi sbarrati, ripenso a quando in attesa, vigile, le orecchie tese, ci restavo ogni volta che una di voi si ammalava. Avete sempre condiviso gli spazi del riposo e le influenze, così al primo colpo di tosse non sapevo subito su chi concentrarmi. Ciò che sapevo con certezza era che per quella notte non avrei più dormito.
...Millanta e uno...
Il suono delle ambulanze non mi è mai piaciuto, neppure di giorno, neppure nei giorni di prima, quando le occupazioni e i rumori riuscivano a distrarmi in fretta, anche se quel buco nella pancia mi si scavava lo stesso e dentro andava a infilarcisi una strana angoscia. Iniziavo a figurarmi scenari apocalittici che avrebbero impedito ai soccorritori di arrivare in tempo... un ingorgo nell'ora di punta... un'auto maldestramente lasciata in seconda fila...
Sono le dieci del mattino. Ormai l'unico buio rimasto è quello di dentro, mentre al di là dei vetri il silenzio è ancora assordante. Non smette, mi frastorna.
Quando eravamo piccole, la mia amica Alessandra mi aveva confidato che in realtà a chiamare le ambulanze erano i bambini quasi pronti a uscire, che non avevano più voglia di starsene tutti accartocciati ed erano impazienti di vedere com'erano fatti mamma e papà. Quella sirena non era mai piaciuta neanche a lei.
Chissà com'è venire al mondo di questi tempi...
Chissà com'è nascere mamma in giorni così...
Vi lascio alle vostre occupazioni, un'ora di italiano su Meet, la chat con l'amica del cuore, qualche divisione con i decimali, e mi defilo. Mi chiudo la porta alle spalle, come se bastasse a lasciarvi fuori.
Sono sempre stata inflessibile con voi sull'utilizzo della mia camera. Niente nascondino nell'armadio, niente bivacchi sul lettone. Solo che poi è finita che sul lettone mi sono sempre portata a turno quella di voi che aveva bisogno di parlare di cose importanti, che ci abbiamo bivaccato insieme sgusciando dalle loro bustine colorate almeno una decina di assorbenti diversi per capire bene come si fa, che l'armadio ce lo avete rovesciato sopra per trovare qualcosa di mio che vi andasse bene (perché “non ho niente da mettermi” inizia a tredici anni), che contro la parete di fianco alla porta ora c'è persino il pianoforte che è stato la salvezza per te che mi hai fatto nascere mamma per la seconda volta e ti sei trovata incastrata in quel posto di mezzo che ti è sempre andato stretto.
Mi fermo, in piedi, davanti alla finestra. Il mio fiato disegna aloni liquidi. Tengo lo sguardo fisso, ma non vedo niente. Penso, a tutto, o forse a niente. Vorrei essere più forte, dovrei mantenere il controllo, con voi, per voi. Ma le mie labbra spesso restano vuote delle risposte che non so dare alle vostre domande, mentre gli occhi non sempre sanno rispondere ai vostri sorrisi. Voglio uscire. No, no voglio. Ho bisogno di prendere fiato. Le onde s'ingigantiscono. Annaspo. Sto naufragando.
Anche quando sono nata mamma per la prima volta mi sono sentita naufragare, uguale. Non è successo subito. È iniziato il giorno in cui mi hanno comunicato che l'indomani mi avrebbero dimesso. Ho intuito che qualcosa di grave stava per succedere, ho avvertito uno scossone, dentro. Un'acqua alta mi è arrivata alla soglia degli occhi ed è rimasta lì. Guardavo il mondo che tremolava attraverso quell'acqua.
Che non sarebbe stato facile, l'abbiamo intuito subito. All'uscita dall'ospedale ci muovevamo come sulle uova. Papà impugnava forte l'ovetto con te dentro e camminava all'indietro, come un gambero, per tenerti al riparo dal sole accecante del primo pomeriggio. Sembrava geniale! L'illusione si è infranta quasi subito, quando un passante ci ha sorriso ruotando in aria indice e medio come per arrotolare una forchettata di spaghetti volanti. Abbiamo compreso che quel sorriso era stato il suo modo gentile di compatirci... d'altronde, negli ultimi mesi tutto il mondo si era messo a girare intorno a te, non era mica semplice immaginare che fosse sufficiente “girare te”!
I primi momenti a casa sono un'istantanea: tu in braccio a me, io seduta su una sedia nel mezzo della stanza, senza intenzioni, senza direzione. L'acqua è tornata a salire ed è rimasta lì per un po', sulla soglia degli occhi, finché non ha trovato il coraggio di uscire. Allora non si è più fermata. Pensavo che tutta l'acqua che avevo dentro fosse uscita con te, invece continuava a venire fuori e io non sapevo come stare a galla.
A scuotermi stavolta è un picchiettio sulla porta.
“Mamma, giochiamo a Memory? Quello difficile del treno?”. Sono transitati da casa nostra almeno dieci versioni del Memory... di Topolino, delle Winx, delle Principesse Disney. Un giorno è arrivato questo del Trenino Rosso del Bernina ed è stata la fine, la mia fine. Non che con Aisha o Cenerentola me la cavassi tanto meglio, ma insomma, qualcosa riuscivo a combinare. Qui ci sono la bellezza di settantadue tessere che ritraggono il treno con un mucchio di neve alle spalle, il treno con un mucchio di neve di fianco, il treno che attraversa un campo verdissimo pieno di fiori, il treno che attraversa un campo pieno di fiori da cui spuntano in primo piano fili d'erba più alti degli altri...
Non vinco mai e nemmeno mi avvicino. In genere non c'è neppure bisogno di contare le coppie che tu e io indoviniamo. Le tue torri parlano da sole. Eppure, mi piace giocare con te a questo gioco che dura un'eternità, e ridere della mia incapacità, e sapere che tu non ti stancherai di venirmi a cercare, e riderai della mia incapacità, e batterai le mani se indovinerò...
Le onde intorno si quietano. L'acqua alta si ritira dalla soglia degli occhi e torno a respirare, piano. Non è stato facile alzarmi da quella sedia in mezzo alla stanza sedici anni fa. Col tempo ho imparato che per trovare la direzione era sufficiente guardare negli occhi voi tre, che avete saputo da subito come farvi cullare dall'acqua, che ancora non l'avete dimenticato. Mi avete insegnato la rotta, ho imparato a navigare insieme a voi.
Apro la porta. Tu fai un salto e ti avvinghi a me. Sono dieci anni che sono nata mamma per terza volta. Mi contagi subito con il tuo entusiasmo.
Ti guardo e sorrido. “Andiamo, il treno ci aspetta!”