Ci sono delle domande che l'uomo medio si pone da sempre: chi siamo, da dove veniamo, dove andiamo? Oppure: quando la Roma vincerà di nuovo lo scudetto? Quando aumenterà il prezzo delle sigarette? Si dice "arancina" o "arancino"?
Domande, appunto, che spesso rimangono senza risposte per il semplice motivo che di risposte non ce ne sono.
E una domanda, leggendo come sempre i quotidiani, mi sono posto e riguarda il mio giudizio sulla Calabria. Cioè: cos'è veramente la Calabria? È, come si dice, un immenso ricettacolo di malaffare, la sentina di tutti i modi possibili per guadagnare in modo illecito, l'epitome dei tanti modi in cui si può coniugare il verbo "delinquere"?
Interrogativi alla cui risoluzione poco o nulla serve la conoscenza diretta di Calabria e calabresi, una regione e le persone che la abitano (su quelle emigrate il discorso si fa più complicato) che appaiono ben diverse dalla narrazione che se ne fa giudicando da lontano.
Vorrei dire soltanto, a chi pensa alla Calabria in termini negativi, che non è così, che quello che sta accadendo non è colpa solo dei calabresi, che pagano in modo esagerato la marginalizzazione che essa ha subito nell'arco di oltre cinquant'anni e che oggi viene avvertita in modo quasi violento, come una ferita sanguinante, da una certa intellighenzia calabrese che alimenta un sentimento di rinascita che però spesso tracina in un afflato neoborbonico.
La favola che la Calabria del Regno delle due Sicilie fosse ricca e libera resta tale, una favola. La verità sta altrove. Sta nella lenta opera di depredazione delle sue ricchezze, che non sono solo quelle materiali, ma quelle intellettuali, in virtù del quale migliaia di splendide menti sono dovute andare via a cercare fortuna, come si diceva un tempo. Più realisticamente, andati a trovare quello che la loro terra non poteva garantire.
Ora della Calabria si ricordano i buchi della sanità pubblica, l'indegno balletto dei commissari, i comuni sciolti per infiltrazioni mafiose, una endemica disoccupazione che si abbatte soprattutto sui giovani che vedono le loro prospettive ridotte alla stregua di un sogno e che vivono sulle spalle dei genitori, sino a quando ci saranno ancora a dare loro una mano.
Ma la Calabria non è l'attuale presidente della Regione Spirlì e la caricatura che ne fa Maurizio Crozza. La Calabria è anche mancanza endemica di infrastrutture. Al punto che la maggiore arteria di collegamento stradale, la Salerno-Reggio Calabria, ad ogni riammodernamento viene salutata come la rampa di lancio della rinascita. Un errore marchiano ed anche criminale, che certo non fa giustizia dello stato delle infrastrutture che dovrebbe suonare a vergogna non della Regione, ma dello Stato che lascia la statale 106 Jonica (quella che collega Calabria, Basilicata e Puglia) in condizioni indegne, tali da costituire un quotidiano attentato alla sicurezza stradale.
Ma, in un giudizio generale che è conseguenza del frullatore mediatico che la Calabria subisce ogni giorno, su una cosa sono d'accordo con la maggior parte dell'opinione pubblica. Se vuole sollevarsi (non risollevarsi, perché non lo ha mai fatto), la Calabria deve avere un moto di orgoglio, deve trovare la forza di fare piazza pulita di quella classe dirigente - anche quella di più recente comparsa sul palcoscenico, su cui ha fatto irruzione facendosi vessillifera di un cambiamento al quale non contribuisce - deve capire che solo tirando fuori il meglio di sé, in termini di uomini e progetti, potrà nascere a nuova vita.
Non è un discorso qualunquista, ma fa rabbia vedere come della Calabria alcuni (magari espressione di quello che un tempo era un partito territoriale e che ora, miracolo dei miracoli, ha intriso le sue parole di meridionalismo) si interessino solo in periodo elettorale, abbandonandola al suo destino una volta chiuse le urne.
La speranza è che, nelle ormai vicine elezioni regionali, la Calabria si ridesti e, per una volta, scelga nel proprio interesse e non in quelle di conventicole parassite.