Quante le donne che hanno infranto il soffitto di cristallo, e raggiunto posizioni di leadership al giorno d’oggi. Dall’attuale presidente della commissione europea, la tedesca Ursula von der Leyen alla leader della Banca Centrale europea, la francese, Christine Lagarde. Dalla vicepresidente degli Stati Uniti, Kamala Harris, ex procuratrice di San Francisco e della California, alla prima donna a capo della Direzione della National Intelligence, Cia e Fbi compresi, la neoeletta, Avril Haines, 51 anni. E poi le ultime in ordine di tempo: Linda Thomas-Greenfield, afroamericana, scelta come ambasciatrice all’Onu con il rango di ministro, e Janet Yellen, la prima nella storia alla guida del Tesoro.
Dall’Europa agli Stati Uniti, passando per alcuni Paesi dell'Africa e dell'Asia, le donne al vertice nel mondo sono in continua crescita. Forte personalità, spiccata volontà e determinazione, tra le note di una evidente leadership che le porta a puntare sempre più in alto, a prendere il timone e mettersi alla guida del proprio Paese.
È vero, più donne al potere. Ma c’è ancora molto da fare. Un momento delicato per l’emergenza mondiale, che oggi più che mai assume un significato profondo. Nelle università, non si era mai vista una donna nella storia a ricoprire la poltrona più alta come quella del prestigioso ateneo romano che qualche mese fa ha nominato, Antonella Polimeni, docente e preside della Facoltà di Medicina e Odontoiatria. Era da più di 717 anni che non si vedeva un volto femminile alla guida del rettorato de La Sapienza di Roma, tra le più grandi e antiche università d’Europa. Prima di lei ci sono stati altri 47 rettori, tutti uomini. Un caso isolato? Niente affatto. Sono solo 7 su 84 le donne al vertice dell’università italiane. Sette a fronte di 77 rettori maschi. Dunque, lo stato di genere, anche nei rettorati italiani, è declinato per lo più al maschile, anche se in questi ultimi anni sono state le donne a salire sul gradino più alto dell’Ateneo italiano.
Così è stato per Tiziana Lippiello dell'università Ca' Foscari di Venezia (eletta appena un mese fa) o per Maria del Zompo dell'università di Cagliari. E poi Giovanna Iannantuoni dall’università di Milano-Bicocca, Sabina Nuti alla Scuola Superiore Sant'Anna di Pisa, Maria Grazia Monaci all'università della Valle D'Aosta e Giuliana Grego Bolli dell'università per stranieri di Perugia.
Tuttavia, il gap di genere è ancora forte, malgrado la presenza femminile sia maggiore in ogni ambito. Sono di più le studentesse (55,4% degli iscritti), di più le laureate (56%), di più le studiose post-laurea (59,3%), anche nell'ottenere risultanti migliori: il 55,5% si laurea in corso contro un numero più basso di studenti maschi (50,9%), mentre il 24,9% esce con 110 e lode contro il 19,6% degli uomini.
La percentuale di donne però si assottiglia a ogni step di carriera: il 47% è fra i ricercatori a tempo indeterminato, il 38% tra i professori associati e solo il 23% tra i professori ordinari. Anche se le loro condizioni di vita e di lavoro sono molto cambiate e migliorate dal dopoguerra ad oggi, la battaglia per la parità di trattamento tra i sessi è ancora lontana. Negli anni ‘40 e ’60 le mamme, le mogli che lavoravano lo facevano in modo saltuario, per necessità e per portare un complemento al reddito familiare. L'idea che la mentalità femminile fosse "instabile", secondo stereotipi sessisti che le hanno dipinto come inferiori, era estremamente diffusa, i loro ormoni, si diceva allora, le rendevano volubili e incapaci di prendere decisioni razionali. Ed è il motivo per cui le donne in Italia hanno potuto accedere alla magistratura solo nel 1963.
Era impensabile nel 1960 vedere una donna al vertice delle aziende e delle istituzioni. È solo dagli anni Settanta che le donne considerano il lavoro come segno della propria identità, qualcosa che non si fa saltuariamente, ma che richiede pianificazione, investimento in scolarizzazione, scelte di studi che non siano solo motivate da una generica acquisizione culturale, ma dall’obiettivo di una carriera professionale.
Una vera e propria rivoluzione nel campo occupazionale: il lavoro per il gentil sesso diventa, come per gli uomini, parte determinante della loro identità. Un cambiamento che si accompagna a grandi trasformazioni della vita familiare, che comporta aumenti di conflittualità intra familiari, e a conquiste importanti: il divorzio, le leggi contro la discriminazione e la parità di genere.
In Italia la presenza delle donne nel campo lavorativo non è ancora influente rispetto agli altri Paesi europei. Il nostro Paese ha il più basso tasso di partecipazione femminile al mercato del lavoro dell’Unione Europea. Anche se con +16% donne al lavoro è record occupazione femminile degli ultimi 40 anni, il divario con gli uomini resta fra i più alti d’Europa. Oggi siamo al 39,5% contro il 55% della Germania, il 51% della Francia e il 45% della Grecia.
Nei Paesi dei Balcani, l’Albania è lo Stato che maggiormente assicura un equilibrio di genere, con il 53% di donne al Governo; e si avvicinano anche la Macedonia del Nord (38%) e Serbia (37%); la Serbia, in particolare, vanta anche la prima donna a essere nominata Primo Ministro, Ana Brnabić, nonché il primo capo di Governo dichiaratamente omosessuale.
Dunque una corsa verso la parità di genere tuttavia ben lontana da quella dei Paesi occidentali. Tutto porta a sospettare che ci sia qualcosa di più, legato a un problema culturale, di maschilismo, di misoginia generalizzata e di rapporti tra uomo e donna in una società fin ancora di recente molto tradizionale. Lo dimostrano i dati relativi alla scarsa presenza femminile nelle alte cariche professionali dell’economia, istituzionali della politica e della finanza e in tutte le sfere alte della società, imposti dagli stereotipi di genere.
Nonostante risultino più brillanti degli uomini, a partire dalla scuola fino all’università con i voti più alti, con esperienze internazionali e un maggior numero di attestati che certificano un percorso formativo linguistico, le donne sono penalizzate anche nel rapporto salariale. Lo stipendio medio degli uomini è nettamente superiore a quello delle donne. Non solo in Italia la retribuzione femminile è al di sotto di quella maschile, ma lavorano più degli uomini in termini di orario, 512 minuti al giorno contro i 453 dei colleghi.
La situazione peggiora, se possibile, dopo la nascita dei figli: solo il 71% delle donne con figli risulta occupata, contro l'80% delle donne senza figli. In Islanda, per esempio, la parità di stipendio fra maschi e femmine è diventata legge. Nella piccola isola “delle donne” è stata introdotta un’ammenda per chi non rispetta la norma: aziende e uffici pubblici con più di 25 dipendenti devono dimostrare che le donne ricevono lo stesso compenso dei loro colleghi uomini. E nel Regno Unito le società con oltre 250 dipendenti devono pubblicare ogni anno i dati su stipendi e bonus di uomini e donne. Analoghe misure sono in vigore anche in Germania e Belgio.
In Italia c’è una legge che tutela la parità sul campo della retribuzione? In Italia, naturalmente, la legge prevede la parità retributiva fra uomini e donne. Non solo. Nel nostro Paese è in vigore anche l’articolo 46 del Decreto Legislativo 11 aprile 2006 n. 198 (ex art. 9 L. 125/91), modificato dal D. Legislativo 25 gennaio 2010 n. 5 in attuazione della direttiva 2006/54/CE relativa al principio delle pari opportunità e della parità di trattamento fra uomini e donne in materia di occupazione. Articolo che prevede che: “Le aziende pubbliche e private che occupano oltre cento dipendenti sono tenute a redigere un rapporto almeno ogni due anni sulla situazione del personale maschile e femminile in ognuna delle professioni e in relazione allo stato delle assunzioni, della formazione, della promozione professionale, dei livelli, dei passaggi di categoria o di qualifica, di altri fenomeni di mobilità, dell’intervento della Cassa integrazione guadagni, dei licenziamenti, dei prepensionamenti e pensionamenti, della retribuzione effettivamente corrisposta”.
L’Islanda, quindi, non ha inventato nulla di nuovo che noi non sapessimo o avessimo già. Dunque, c'è un problema non solo di autostima, come si tende a pensare, quanto di una società che non ha ancora realmente accettato il fatto che uomini e donne vengano valutati con lo stesso metro e sulla base del merito, e bisogna prendere atto che si è ancora troppo distanti dall’obiettivo di concretizzare un ambiente sociale che rispetti al 100% l’uguaglianza di genere.