Fëdor Dostoevskij, nel suo romanzo L’idiota, fa dire ad un suo personaggio, il principe Myskin, una frase divenuta celebre: “La bellezza salverà il mondo”. Tale frase, ha continuato, e continua, a riecheggiare, benché in fondo usata in modo diverso da quello del protagonista del romanzo. In realtà, sappiamo infatti che così non è.
Non che si voglia negare l’importanza della bellezza, ovviamente; è, nella storia umana, un elemento di primaria importanza, e dalle grotte di Lascaux al David di Michelangelo, l’ha sempre accompagnata. Ma ahimè essa non ha alcun potere salvifico universale, di per sé. Crederlo, implica una enorme ingenuità (una “purezza assoluta”, come quella immaginata da Dostoevskij per il suo principe), ed in ultima analisi rischia di divenire l’illusorio alibi di chi, invece, non intende neanche porsi il problema.
In ogni caso, salvare il mondo è un compito di tale vastità, e di tale profondità temporale, da entrare inevitabilmente in conflitto con miliardi di singoli egoismi. Salvare la foresta amazzonica non è forse un tassello di tale compito? Eppure, per come stanno le cose oggi, ciò non confligge forse con gli interessi di grandi latifondisti, multinazionali del legname, ma anche piccoli coltivatori? E non è proprio per questo che, se da un lato la frase risuona ancora, e proprio per la sua “ingenuità”, dall’altro l’idea stessa di bellezza viene fatta regredire nell’animo umano?
Se la bellezza è ridotta ad un’idea estetica, astratta, e contemporaneamente se ne perde ogni reale cognizione, ogni capacità di riconoscerla nel mondo, inevitabilmente la si depotenzia, la si riduce ad effimero ed occasionale godimento della vista.
Nei giorni scorsi è stata diffusa la notizia di uno straordinario ritrovamento, nella foresta amazzonica colombiana: una sequenza di pitture rupestri su roccia, lunga circa 12 chilometri, risalente al magdaleniano, cioè circa 12.500 anni fa. Qualcuno l’ha definita la Cappella Sistina degli antichi, ma in effetti l’eccezionalità del ritrovamento sta nella sua estensione, più che nella narrazione visiva di quel mondo perduto. Una gigantesca “lavagna”, su cui alcuni dei nostri progenitori hanno descritto la realtà che li circondava, ed a cui sicuramente tutti gli altri guardavano con stupore.
Ben al di là del suo valore per gli studi antropologici, e sicuramente al di là del suo pur notevolissimo impatto visivo, quella roccia ci parla della relazione dell’Uomo col mondo, e di come la bellezza ne sia parte essenziale.
Questa relazione è perduta, in gran parte, e con essa la percezione della bellezza non come astrazione, ma come elemento fondativo della natura umana. Come caratteristica precipua della specie, dal momento in cui si è evoluta dagli ominidi progenitori all’Homo Sapiens.
Recuperare la particolare relazione umana con la bellezza, dovrebbe essere uno dei compiti primari dell’educazione. Nel duplice senso di importante e precoce. Già nella scuola dell’infanzia, quando ancora le tracce biogenetiche non sono state sovrastate dal depauperamento culturale.
Reclamare bellezza, come afferma il progetto artistico Claim beauty!, dovrebbe diventare parola d’ordine delle giovani generazioni, perché la consapevolezza della necessità di agire per il pianeta non può darsi senza la piena consapevolezza della speciale relazione che con esso ha la specie umana.
In quel microscopico segmento della storia umana che stiamo vivendo, così segnato dalla paura e dalla costrizione, dalla forzata rinuncia a gran parte della nostra specifica natura di specie altamente sociale, recuperare un autentico sentimento della bellezza - e non già un mero gusto estetico per il “bello” - non può non essere parte del progetto futuro dell’umanità.
Non la mera sopravvivenza ma la vita. Questo, e non altro, dev’essere affermato. La bellezza non salverà il mondo, ma ci è necessaria per impegnarci a farlo.