Qualche anno fa lessi un’intervista a Lou Reed. Parlava del disco Songs for Drella uscito nel 1990 come omaggio postumo a Andy Warhol, firmato in coppia con John Cale. Chiacchierando con l’interlocutore a un certo punto Lou disse: “Sai che questo Lp non si trova più, non esiste più in commercio?”. L’intervistatore rispose: “Ma sì che si trova, l’ho visto in un negozio poco tempo fa”. E Reed, con uno sguardo dei suoi, uno di quelli con cui polverizzava i giornalisti costringendoli a sognare di non essere mai nati, sentenziò come una rasoiata: “Stai parlando di un compact disc, non di un vero disco. Un giorno arrivi a casa, lo metti nel lettore e dentro non c’è più niente. Niente musica, niente parole, niente. Nessuno sa quanto dureranno, non puoi saperlo”.
Mettetevi nei miei panni, un poveraccio con la casa piena di cd, affastellati alla meglio, rubando centimetri tra le guide di viaggio e i dizionari, tra la porta del corridoio e quella del bagno. Oggetti che secondo Lou da un momento all’altro potrebbero cancellarsi e diventare inanimati, pezzi di plastica tutti uguali, senza alcun valore. Non ci dormii per un paio di notti. Mi feci coraggio e andai a controllare sullo scaffale, sfilai il compact di Songs for Drella, lo misi nel lettore e schiacciai play.
Funzionava. Partiva la prima canzone, una spruzzata d’odio nei confronti delle piccole città. “Nessun Michelangelo viene da Pittsburgh”. Quando nasci in una piccola città, l’unica cosa buona da fare è andarsene. Pittsburgh era la città di origine di Warhol, uno dei padri della Pop Art, certamente quello che più di tutti l’ha resa pop, quello che l’ha canonizzata a forza di ritratti colorati e barattoli di zuppa. Mi ricordo una mostra al Centro Pompidou a Parigi, quando avevo diciotto anni e Warhol era morto da pochissimo. Mi trovai davanti a una catasta di cubi di legno che replicavano scatoloni di detersivo Brillo, e immediatamente, in quella specie di discount ante litteram in mezzo al museo, capii cosa volesse raccontare l’artista con il suo lavoro. Arte accatastata vicino all’uscita, poco prima delle casse.
Un lavoro che era un tutt’uno con la vita: una canzone, Work, spiega quale fosse la dedizione al lavoro da parte di Warhol, che spingeva anche Lou Reed a coltivare la stessa etica. Quante canzoni hai scritto in questi giorni? Dieci? Non rimarrai giovane per sempre, avresti dovuto scriverne quindici. Lou non ne aveva scritta nemmeno una, perso dietro ai suoi casini. E ancora sull’arte in Trouble with classicists: “Il problema con un classicista è che quando guarda un albero, lui vede un albero, dipinge un albero”. Qui a parlare è John Cale, che regala alcuni dei gioielli più preziosi di questo album essenziale, sia nel senso che non si può farne a meno, sia perché è uno di quei dischi in cui non un colpo di plettro, non un passaggio dell’archetto sulle corde, non una parola sono di troppo. Nemmeno la retorica, un rischio sempre dietro l’angolo quando si scrive un omaggio, rovina questo mosaico fatto di racconti, testimonianze, lettere, immagini. “Ho ancora risentimenti che non possono essere cancellati - ammette Lou Reed nella lettera conclusiva. Mi hai ferito dove faceva più male, non ho riso, i tuoi diari non erano un degno epitaffio”.
Andy Warhol fu un personaggio chiave per i primi Velvet Underground. Era una specie di mentore, produsse il loro primo album, e disegnò quella copertina con la banana sbucciabile, probabilmente la più famosa di tutta la storia del rock. Quei Velvet Underground, quelli con l’aggiunta di Nico proprio ad opera di Warhol, per lui erano un’opera da esporre in una mostra permanente che si chiamava vita. Accanto al poster con la mucca o ai cuscini argentati volanti citati da Reed in Hello, it’s me. Una vita e un’arte che avevano come centro di gravità la Factory, la “Open House” che Warhol non voleva proteggere dai pazzoidi nemmeno dopo l’attentato di Valerie Solinas, scrittrice che gli sparò tre colpi di pistola cercando di mandarlo al creatore perché si sentiva sfruttata. “Ma se devo vivere nella paura dove prenderò le mie idee? Quando tutta questa gente matta se ne sarà andata, svanirò lentamente?” sono parole di Slip away.
Songs for Drella compone un ritratto complesso, racconta anche questa vicenda, è un tributo sincero, in cui i due autori omaggiano da un lato l’artista, dall’altro aprono un dialogo con l’amico, cercando una conciliazione definitiva, benché postuma. Senza dimenticare gli attriti, ammettendo le proprie mancanze (“Vorrei averti parlato di più quando eri ancora vivo”) e sigillando il tutto con una chiusura magistrale:
Well now Andy
I guess we've gotta go
I wish somewhere somehow
Your life has little show
I know this is late in coming
But it's the only way I know
Hello, it's me
Goodnight, Andy
Goodbye, Andy.
Questo articolo, a proposito, nasce dal fatto che alla fine Lou Reed è stato accontentato, e proprio in questi giorni è uscita una ristampa in vinile di Songs for Drella. La mia copia non l’ho ancora ritirata, mi aspetta in un sacchetto insieme a un altro po’ di dischi, nel mio negozio di fiducia, in cui tornerò appena questo maledetto tempo di pandemia me ne darà la possibilità.
Intanto per scriverne ho deciso di riascoltarlo, ho cercato il cd sullo scaffale, l’ho inserito nella fessura del mio lettore, ho aspettato che scomparisse e ho trattenuto il respiro per qualche secondo in attesa di capire se le profezie nefaste di Lou Reed sul futuro dei compatc disc fossero giustificate. Alle prime note di Smalltown ho sorriso, e ho pensato che ogni tanto anche Lou diceva qualche cazzata, per fortuna. O almeno speriamo.