Sipari chiusi, artisti di ogni disciplina bloccati, soldi che non arrivano loro, se non in minima parte e un governo, o forse meglio un Ministero della cultura, che non sembra aver recepito il danno culturale inferto in luoghi d’arte o speciali, come Milano con il suo Teatro alla Scala. Ove si annida il Covid-19 si cura, e si riparte e se non vi si annida i teatri restano territori sicurissimi, controllati, con spettatori in mascherina e a distanza eccetera, eccetera, come era stato nella prima ondata pandemica, ma questo secondo ciclone sembra essere ben peggiore. Le illusioni create tra fine estate ed inizio d’autunno si sono inabissate. Restano i progetti, che anche il Ministero avalla, di tipo digitale; resta il silenzio che può essere gravido di pensiero nelle sale prove dove teatranti e danzatori continuano a tenersi in forma, se lo possono fare. Poi c’è la tv generalista (e non contempliamo quella a pagamento), ma è un capitolo scabroso; buono per la lirica, la proiezione di balletti (chissà perché così poca danza contemporanea?), ma depresso da certi eterni format che ormai andrebbero tolti dal palinsesto se non altro per il raggiungimento dell’età pensionabile e la ruggine accumulata. Che fare?
Riassumono quanto abbiamo descritto due registi ancora in formazione, Giulia Sangiorgio e Alessandro Paschitto, in Litura. Al progetto ribelle, nato durante la prima pandemia (fase uno), e ripreso il 1° novembre, non a caso alla vigilia del giorno della Celebrazione dei Morti (fase due), hanno aderito un gran numero di teatri e artisti su scala nazionale. Litura, termine tratto dal latino e che per i Romani indicava la cancellazione di uno scritto mentre per i filologi equivale a quella sui codici, è una maratona in streaming (trasmessa sui canali Facebook, Theatron 2.0, L’Ultimo nastro di Krapp e altri partner) in cui una quarantina di artisti famosi si mostrano fermi, immobili, in spazi di solito destinati allo spettacolo da vivo, ma non solo. Nessuno di loro si rende riconoscibile se non per il nome sovrimpresso, neppure l’ultima figura che pur voltandosi non restituisce allo spettatore virtuale il suo volto, bensì l’obiettivo della telecamera: l’occhio meccanico responsabile delle riprese. L’interrogativo postosi da Litura è politico e insieme linguistico. Come ipotesi di ricerca destinata a durare sino a che il teatro non tornerà in presenza, inventori e partecipanti rifiutano di lavorare online o di creare col digitale; sostengono che “se il teatro - tra tutte le nostalgie di questo tempo sospeso - è il grande assente vale forse la pena portare quest’assenza fino in fondo, perché ritorni a essere nostalgia di qualche cosa, anziché dimenticanza”.
Affermazione e progetto intelligente. Ciò non toglie che di alcuni spettacoli lanciati in vari festival e in attesa di tornare a circuitare si debba scrivere. Con Hyenas- Forme di minotauri contemporanei, la celebre Compagnia Abbondanza Bertoni che tra l’altro ha aderito a Litura ha, ad esempio lanciato dal Festival “Oriente Occidente 2020” di Rovereto e nel Teatro della Cartiera, la sua residenza, uno spettacolo singolare. Le cinque “iene” del titolo (i bravissimi Marco Bissoli, Sara Cavalieri, Cristian Cucco, Ludovica Messina, Francesco Pacelli) indossano maschere dalle fattezze ovine - di capre, arieti e pecore - create con vivacità dalla bulgara Nadezhda Simeonova, e se ne disfano di rado anche quando, verso il finale, ballano solo in slip, dopo essersi tolti i loro variopinti costumi casual. Incredibile e suggestiva la loro iniziale pacatezza, da agnelli e non da felini feroci. Si toccano mani e gambe; avanzano inginocchiati e poi si fermano in gruppi vicini (ma non troppo: lo spettacolo è stato comunque segnato dal Covid-19). Si mettono le mani in tasca, mentre terminano le elaborazioni musicali, qui di Tommaso Monza. Sono davvero “minotauri” magari allusivi, chiusi nel loro labirinto (il lockdown)? Di certo, scrutano in silenzio il pubblico e poi si lanciano sotto la cornice metallica di un poligono rettangolare vuoto in un ballo da discoteca con luci al neon e musica consona, ma non assordante, e una certa dose di fumo che inonda la scena.
Ridere, battere le mani appartiene a questo gruppo di mascherati inermi, che torneranno nella loro discoteca prima di danzare in slip e anche senza maschere, mentre l’ultima scena è un duetto ravvicinato, o un atto predatorio da parte di un minotauro in maschera (Francesco Pacelli) che assale una bella dal volto scoperto. Ma l’atto volutamente si perde nel buio. L’impressione suscitata dal gruppo ha una valenza a nostro avviso politico-ironica: queste iene non sono tali; questi minotauri non pretendono vittime estranee al loro entourage. Il gruppo resta coeso nell’indifferenza degli altri, solo osservati come stranieri (il pubblico), mentre la propria esistenza si srotola in un esclusivismo che pare alludere ad un taglio coreografico - espressivo generazionale, a certi cosiddetti Millenials, arrogantelli ma pacati che poco si curano di chi non ha la loro età, per poi assecondare alte e nobili cause, o concedersi le più sordide avventure. Lettura forzata? Forse, chissà…
Un altro spettacolo, Toccare-The White Dance - di Cristina Kristal Rizzo, con debutto a “TorinoDanza”, passaggio a “Fabbrica Europa” ed infine, in ottobre, al milanese “MilanoOltre”, non è parso del tutto estraneo ai commenti precedenti. Nella prima parte della pièce, che muta notevolmente se inserita in teatro, oppure in uno spazio senza barriere tra danzatori e pubblico, si assiste a una meravigliosa esplosione di danza pura; tra i quattro, concentrati, interpreti biancovestiti non può che emergere la duttilità speciale e la naturale ebbrezza espressiva di Annamaria Ajmone, che come gli altri si muove senza mai fare a meno di stringere in una mano un cellulare. In teatro, ove i musicisti sono dal vivo (clavicembalo, flauto, percussioni), la musica, riarrangiata dal clavicembalista Ruggero Lagana, non sembra neppure di Jean-Philippe Rameau (Les pièces de clavecin), ma nell’andirivieni degli interpreti che paiono il doppio di quanto in realtà non siano, regala un brivido speciale. Sempre a teatro la scena prevede un alto pannello ove compare una sorta di grattacielo che si alza e si abbassa. Nella seconda parte della pièce che dalla prima procede senza soluzione di continuità, entra in scena la coreografa Rizzo, in costume semplice ma quasi orientale e con un sussiego che la porta ad essere sollevata di peso da altri danzatori nel frattempo in costumi per lo più scuri. Il suo movimento è lento e quasi nobile su di una musica che pure ha placato il proprio brio. C’è aria di meditazione, per la verità un po’ polverosa: ma non sono spariti i cellulari; l’alto parallelepipedo proiettato sul cartellone ha però abbassato la sua curva. Senza inizio né fine, questo Toccare è virtuale, e non solo per via delle norme vigenti; forse perde un po’ della sua elettrica fantasia nella seconda parte, ma pare che ciò non accada negli spazi non teatrali. Ancora una volta la nostra lettura della pièce per quanto sia astratta, refrattaria a narrazione di sorta, si lascia trascinare da un venticello tra Occidente e Oriente ma anche generazionale…
Nulla di tutto ciò nel suggestivo spazio delle rinnovate Cascine di “Fabbrica Europa”. Qui la già citata Ajmone ha presentato, a più riprese, una sua azione coreografica dal titolo Segreto. Parte di un progetto, “No Rama”, ideato con altri artisti, tra i quali Francesco Cavalieri, artefice di tre macchine sonore rotanti - o “Rose Spinner” - Segreto sospinge la sua solitaria coreografa/interprete ad entrare in un ecosistema in sui soffia il vento, si agita il mare, si sente la presenza del cielo. Tutto questo grazie alle mille pose a cui l’artista si presta, nel portare una pietra in bilico su di un braccio, o sulla testa; nel cercare equilibri con il corpo capovolto, nello sgambettare, nello stare in equilibrio su di un braccio solo per poi concedersi un frammento danzato subito interrotto dalla necessità di rimettere in ordine le pietre spostate e nel raccogliere la cenere sul tappeto beige dove aveva vagato. Il Segreto è svelato di lì a poco.
Quando entra in scena una seconda danzatrice, Marta Capaccioli, con un suo costume più attillato, si capisce che rifarà il percorso della Ajmone, ma con il suo corpo e a suo modo (più aggressivo): userà le pietre e le rose del deserto. La pièce è ideata anche per Lucrezia Palandri, pure apparsa in scena a “Fabbrica Europa” e sappiamo anche che il Triennale Teatro Milano, scelta la Ajmone come artista associata per il triennio 2020-2022, presenterà online, il prossimo 4 dicembre Il Segreto - Chronicles from NO RAMA, progetto forse tra i più completi e compiuti dell’ancor giovane Annamaria, ormai nota all’estero.
Non ha certo bisogno di presentazioni Alessandro Sciarroni, già discusso Leone d’oro alla carriera alla Biennale Danza 2019. Tornando alla sua prediletta danza popolare, nella quale aveva più o meno esordito in Folk-s, l’astuto artista marchigiano ha rielaborato in Save the Last Dance For Me, la Polka chinata, ovvero un ballo di coppia maschile d’inizio ‘900 e lo ha donato a due meravigliosi interpreti, Gianmaria Borzillo e Giovanfrancesco Giannini, che a loro volta si sono prestati, sin tanto che è stato possibile, a trasmetterla ad altri danzatori e/o dilettanti. A sua volta Sciarroni si è avvalso di un esperto, Giancarlo Stagni, maestro di balli Fizzullani (il termine significa esclusivamente di Bologna e non di altre città emiliano-romagnole) che ha riportato in vita questa tradizione grazie allo studio di documenti piuttosto recenti e risalenti agli anni ’60. Scoperto poi il declino comunque alle porte per questo ballo rimasto in auge solo grazie a cinque esecutori, Sciarroni si è prodigato per la sua diffusione.
Danzata come s’è detto da una coppia maschile, mentre la Polka classica impone un duetto uomo/donna, questo ballo vuole agilità, capacità di rotazione su se stessi, buon orecchio musicale e un certo savoir-faire nella restituzione che deve essere pimpante, allegra, creare empatia e sorriso. Ma perché la Polka chinata si è guadagnata questo nome? L’assenza delle donne (nel dopoguerra impegnate in ben altre faccende) ha fatto si che questo ballo passasse nelle balere ma anche all’aperto, agli uomini ai quali la maggiore forza fisica consentiva, ad esempio, piegamenti sulle ginocchia abbastanza continui, pur mantenendo i passi tipici della Polka classica. Il ballo è tutt’altro che facile: con il suo vigoroso ritmo in 2/4, il fascino di un movimento che combina giri da valzer a figure coreografiche quasi da galop porta con sé il desiderio di vivere in veloce e fresca gaiezza. Quel che occorrerebbe in questi tristi momenti di cancellazione, di Litura.