Quando arrivammo la fredda notte dell’inverno indiano era già scesa sul decrepito campus del Gandhian Institute of Studies, dove regnava un silenzio inquietante. Una fitta nebbia ci impediva di vedere il Varuna, ma lo sentivamo scorrere. Dopo qualche centinaio di metri, si sarebbe tuffato nella Ganga, come gli indiani chiamano il Gange. Un ragazzo avvolto nella sua ruvida coperta si affacciò all’ingresso, era una delle guardie del corpo ingaggiate dopo le minacce. Nulla a che vedere con il severo e minaccioso appostamento della polizia indiana, che stazionava qualche metro prima. Lui proteggeva il professore, loro lo tenevano d’occhio.
Fondato nel 1960 da Jayprakash Narayan, celebre attivista del Freedom Movement - che dopo l’indipendenza indiana fece parte per un breve periodo del Partito Socialista Indiano - l’Istituto di Studi Gandhiani era un’istituzione senza uguali che cercava una nuova via che emergesse dal ricco patrimonio acquisito con la lotta per l’indipendenza - soprattutto dal suo movimento di lotta non violenta (ahimsā) - e costruisse una società premurosa e democratica, piuttosto che una caricatura della democrazia occidentale che, col tempo, sta dimostrando la sua inadeguatezza a districarsi dall’egemonia borghese. L’idea alla base dell’Istituto era quella di costruire un ponte organico tra il mondo delle scienze sociali, quello accademico e quello dei movimenti sociopolitici gandhiani e non.
Tutt’intorno una strana atmosfera di disagio e di effimera pace era evidente – era un campus jellato. Mi chiedo il perché dell’attacco all’istituto Gandhiano da parte di un’orda di fascisti hindu e della mafia della parte orientale di questo stato: l’Uttar Pradesh.
Il Direttore dell’istituto, Prof. Dipak Malik, economista e docente di storia alla BHU, l’università di Varanasi, che è stato il leader del movimento studentesco indiano, editorialista dei più importanti quotidiani indiani, si unì all’Istituto Gandhiano con la convinzione che il movimento gandhiano e le preoccupazioni della sinistra in definitiva convergono, soprattutto quando confrontate con motivati fascisti hindu. Il Prof. Malik mi spiega, inoltre, che l’RSS (Rashtriya Swayamsevak Sangh), fautore del fascismo hindu, lavora come fulcro dell’organizzazione, mentre il BJP (Bharatiya Janata Party) come suo braccio politico. Ad oggi è la principale forza politica indiana e governa il sub continente dal 2014 attraverso il suo leader Narendra Modi.
Il BJP lavora sulle premesse delle discriminazioni religiose e detiene un marchio politico aggressivo ed esclusivista. Mobilita la maggioranza delle masse Hindu ostentando la bandiera ultranazionalista e in particolare, fomentando l’odio contro i musulmani. Questo ricorda la strategia dei nazisti, che manipolavano le masse e l’opinione pubblica tedesche e faceva degli ebrei il capro espiatorio di tutti i problemi della Germania, mettendo Hitler in grado di raccogliere il sostegno necessario per arrivare al potere.
In India l’RSS è un gruppo semi-militarista che istruisce i giovani Hindu in una campagna di odio contro i musulmani, li addestra a fomentare le lotte e le agitazioni interreligiose e li indottrina al fondamentalismo Hindutva.
Gandhi e la sua ideologia sono tutt’oggi una barriera a questo modello di fascismo induista, che fu il motivo per cui Nathuram Godse, discepolo di Vinayak Damodar Savarkar l’ideologo del fascismo induista convertito all’ideologia dell’RSS Hindutva, uccise il Mahatma Gandhi in quella decisiva notte del 30 gennaio 1948, mentre camminava verso il suo quotidiano incontro di preghiera a Delhi.
Gandhi fu una barriera al marchio dell’RSS Hindutva perché organizzò un massiccio movimento anticolonialista unito a una forza etico–spirituale, invece dell’uso della violenza praticata dalla maggior parte delle battaglie anticolonialiste.
La nuova interpretazione dell’Induismo Gandhiano supportava la causa dei poveri e dei contadini e auspicava un ritorno alla campagna, alla sua semplicità e pace lontano dall’emergente sistema del mondo urbanizzato. Il suo rifiuto del modello democratico occidentale, della sua idea di Stato e di società, era essenzialmente il rifiuto della situazione politico-sociale post-industriale dell’occidente, costruita sui principi del capitalismo nutrito dal bottino coloniale.
Il linguaggio di Gandhi era principalmente popolare, etico e spirituale, solo in un secondo tempo divenne politico.
Così quando diceva di voler costituire il “Ram Raj”, il regno di Dio, una sorta di nascosta utopia paragonabile al contesto Marxiano della perfetta società comunista, dove anche l’idea di Stato sarebbe appassita, egli intendeva una società giusta e ugualitaria basata sul modello di vita contadina come habitat naturale di una società non violenta e su di un nuovo modello di Stato nazionale. Lo stesso “Ram Raj” è stato interpretato dai fascisti Hindu come un regime di soppressione dei musulmani e delle altre religioni minori, in nome di una “Nazione Hindu” dove la vecchia gerarchia di divisione in caste avrebbe sostituito il modello gandhiano di villaggio basato sui poveri e i contadini, centrato sull’uguaglianza e sulla moderna società parlamentare democratica.
L’idea fascista di una nazione Hindu che miri a conquistare il resto del mondo, con l’India come superpotenza nucleare emergente, è un sogno che viene espresso per impossessarsi del mondo dopo mille anni di umiliazione nelle mani dei conquistatori stranieri, come rivendicano i comuni storici fascisti; questo naturalmente è ardentemente contestato dagli intellettuali e opinionisti secolaristi e progressisti.
Il “Ram Raj” di Gandhi, quindi, infastidisce i fascisti che dopo essersi liberati di lui fisicamente ora vogliono liberarsi della sua memoria e della sua eredità. E ora, dopo oltre 70 anni dal suo assassinio, un’istituzione chiamata Istituto di Studi Gandhiano è diventato il bersaglio del loro odio.
I guai iniziarono nel 1998-99 quando il partito del BJP acquistò potere nel Governo centrale a Delhi, come anche nello Stato dell’Uttar Pradesh. Il BJP divenne il braccio politico dell’organizzazione fascista dell’RSS e iniziò un lungo periodo di persecuzioni politiche mirate a smantellare questo importante centro studi. Come primo risultato le sovvenzioni all’ISG, fornite dal Governo Centrale e dal Governo dell’Uttar Pradesh, vennero sospese immediatamente.
L’apparato statale fu talmente manipolato dal BJP che espropriò sia l’edificio dell’Istituto, che il terreno sul quale sorge, senza produrre nessun documento! Questo è il tipico stato fascista che calpesta i diritti civili e i diritti della proprietà privata espressi dalla Costituzione Indiana.
Abbiamo parlato a lungo quella sera nella piccola stanza del professore Dipak Malik, dopo un semplice pasto cucinato dalle guardie del corpo che, oltre a proteggerlo, cucinano per lui e per i suoi ospiti. La stanza è sparsa di libri di Gandhi, libri di storia della vecchia Varanasi, testi marxisti e là, confuso nella moltitudine di libri, c’era anche un nome italiano: Antonio Gramsci. Il professore sta provando a capire Gandhi attraverso il linguaggio gramsciano ed egli trova una vasta area di convergenze tra loro, malgrado le differenze tra i due di tempo e spazio: uno un Hindu etico che provava a vedere il mondo attraverso una sorta di lente spirituale, l’altro un ateo marxista, leggendario Segretario Generale del Partito Comunista Italiano nella prima parte del XX secolo. C’era una strana combinazione tra un intellettuale marxista italiano e un indiano votato alla non violenza che regnava in questa semplice e modesta stanza del Professore. Una combinazione per lui comunque molto naturale. Come molto naturali sono le sue relazioni con l’italia attraverso la lettura sì di Gramsci, ma anche di Berlinguer, Togliatti, un sano elogio a Federico Fellini e le sue giovanili letture di Alberto Moravia. In questa semplice “capanna” gandhiano/marxista potevamo vedere come il mondo si possa globalizzare in modo molto gentile, attraverso un leggero potere di diffusione di idee, ideologie e letteratura, piuttosto che attraverso la crescita di enormi profitti da parte di corporazioni multinazionali, che creano disoccupazione da una parte del mondo, ingaggiando lavoratori a buon mercato, e generando profitti oscenamente grandi dall’altra parte.
L’istituto fu messo in ginocchio dall’attacco fascista dell’RSS unito agli avidi occhi della mafia e a una burocrazia corrotta tanto quanto la magistratura locale, dove invece della Giustizia l’unico principio è il riconoscimento di casta di un singolo o la somma offerta da chi intende corromperla. La Mafia, muscoli e denaro, determina il corpo politico in queste parti settentrionali dell’India, terreno ideale per la crescita del fascismo.
Il professore non è molto contento della rinascita dell’India nel mondo, come viene strombazzata in occidente come pure nei “circoli di potere” e dai media indiani, oltremodo entusiasti e campanilisti, che proclamano il XXI secolo come il secolo asiatico con India e Cina al centro.
Questo è fumo negli occhi gettato dalla classe dirigente indiana, desiderosa di entrare nella serie A del capitalismo il prima possibile, fino ad ora prerogativa dell’OECD (Organization for Economic Cooperation and Development).
Lo spesso strombazzato 9% o 10% di crescita del PIL indiano non appassiona il Professore, tantomeno la grande rinascita digitale indiana, finché ci saranno divisioni e conflitti interni irrisolti e più del 70% della popolazione vivrà sulla soglia della povertà. Questo sbaraglia qualunque irreale statistica del Governo. Il Professore asserisce che con l’avvento di questo tipo di globalizzazione, liberalizzazione e privatizzazione il povero cadrà ulteriormente sulla strada della privazione. Circa il 90% della popolazione non può accedere ad alcun tipo di servizio sanitario; lo scintillante mondo di Internet non va oltre i confini delle megalopoli indiane, con i remunerativi processi di outsourcing che ora attraggono gli esperti giovani indiani, moderni facchini cibernetici che hanno preso il posto dei poveri lavoratori dai colletti blu e dei contadini indiani che, nel passato, lavoravano notte e giorno per mantenere funzionante l’apparato del grande impero britannico.
Era mezzanotte ed il freddo aumentava, c’era vento e scorgevo attraverso una densa nebbia i giovani avvolti nelle loro coperte ruvide tutt’attorno l’appartamento del Professore. Le forze brutali del fascismo non si curano dei limiti di proprietà, minacce di morte infestano il campus jellato; la polizia resta indifferente e si muove solo nella corruzione, parteggia invariabilmente per i gruppi mafiosi e decide non in base alle prove o ai meriti, ma in base ai doni della corruzione, stesso modo di agire delle Corti di Tribunale delle città moffusil, come i britannici chiamavano la provincia rurale del loro impero. Una burocrazia estremamente porosa e corrotta, una forza di polizia collusa con la mafia ed una società indifferente e irresponsabile rappresentano uno spettacolo pauroso, in mezzo alle voci del 9% di crescita. L’India che si sta trasformando in una potenza del software è solo un ridicolo gioco con il quale l’Occidente e l’ingenua elite indiana si gongolano.
Che il fascismo si nasconda in quest’area non è una frase presa in prestito da un distante passato, ma un fatto che diventa giorno dopo giorno sempre più reale in questo vasto sub continente. La Sinistra non è in grado di porre fine a questo declino e all’ondata di primitivismo e primordialismo che accoppiati stanno smantellando il grande disegno di un’India che si prende cura del povero e dell’oppresso, come sognarono Gandhi, Nehru e gli altri rivoluzionari. I pochi laici non possono salvare il sub continente da questa versione del fascismo, che in India viene definito “fascismo comune”, molto più radicato nelle masse della risposta troppo timida ed intelluattizzata dei modernisti. Gandhi, naturalmente, in questi momenti sarebbe la risposta più grande.
Questo è ciò che mi spiegò il Professore, che iniziò la sua vita politica come giovane leader risorgimentale nei tardi anni ’60, nel Nord dell’India, quando dall’Europa arrivavano i riverberi degli slogans di un radicalismo utopico capeggiato da persone come Rudy Dutschke in Germania, Tariq Ali in Inghilterra, Regis Debray in Francia ed i Figli dei Fiori nel nord America, con la partecipazione dell’SDS (Students for a Democratic Society). Dipak Malik era molto coinvolto in queste agitazioni e divenne una delle maggiori figure del tumulto rivoluzionario indiano; studiò all’Università di Varanasi nel 1974 ed in seguito divenne la figura di maggior spicco della Sinistra. Più tardi si unì all’Istituto di Studi Gandhiano.
Quando nel 1992 i fondamentalisti Hindu rasero al suolo, a furia di martellate, la moschea di Babri, ad Ayodhya, nello stato dell’Uttar Pradesh, il professor Malik fu intervistato da diverse testate giornalistiche sull’accaduto; lui disse che era stata un’azione stupida e senza senso, fomentata dal BJP e portata a termine dal suo braccio armato, il Rashtriya Swayamsevak Sangh. Da allora ricevette svariate minacce di morte e vive costantemente sotto scorta, ma non della polizia indiana, ma di volontari appartenenti al Gandhian Institute of Studies.
Questo è ciò che sta accadendo in India: gli stessi che hanno ucciso Gandhi e che non hanno mai giurato fedeltà alla Repubblica indiana, sono quelli che oggi la governano e fanno affari con l’Occidente.