Maria Schneider è una sorta di Re(gina) Mida del jazz. Ogni arrangiamento che la sua forbita penna tocca diventa oro e con Data Lords, il recente doppio album pubblicato dalla Artistshare, la meritoria piattaforma di crowdfunding artistico fondata nel 2000, il livello si è innalzato ad uno status da vertigine. Già accolto trionfalmente dalla critica di tutto il mondo nella sua dicotomia fra il freddo mondo digitale e la calda luce proveniente dalla natura, questo album sembra destinato a restare come uno spartiacque. Una carriera che l'ha vista formarsi con il grande guru del jazz Gil Evans per poi formare il proprio ensemble tenuto a battesimo nel 1994 con Evanescence, un lavoro pensato per 18 elementi, che poi è diventato una sorta di marchio di eccellenza nel suo modo di ragionare sulla musica, oggi impensierito da questi mefistofelici padroni dei dati.
“Come tanti – esordisce - sono molto preoccupata dall'impatto devastante dell'universo digitale sulla nostra cultura. Ogni nostro dato sensibile può essere utilizzato per profilarci e creare assuefazione e questo mi sembra particolarmente vero per le nuove generazioni: che differenza c'è adesso rispetto alla mia adolescenza, quando insieme agli altri ragazzi del college usavamo l'immaginazione per sottrarci alla noia discutendo però faccia a faccia.”
The Sun Waited For Me che è fra i pezzi portanti di questo disco, sembra appunto un cammino di speranza e redenzione.
Potrebbe essere considerato un promemoria rivolto alle persone, per connettersi con il mondo reale che è lì in attesa della nostra attenzione. Un mondo perduto e probabilmente anche meno speranzoso. È un grido per quello che sento abbiamo smarrito: è funzionale alla connessione più profonda e sincera che ci possa essere, ovvero quella con noi stessi. La democrazia è messa in pericolo dalla facilità con cui si può essere denigrati sui social per il solo gusto di farlo. E questo mi rende molto triste e spaventata. L'informazione è molto contraffatta, la verità spesso è lontana. Ma se noi non riusciamo a riconoscere la realtà dei fatti, se qualcuno o qualcosa li manipola costantemente al di là del nostro volere e della nostra etica, allora diventiamo solo dei burattini. Mi chiedo come abbiamo potuto permetterlo. La gente viene sedotta dalla apparente convenienza commerciale, ed il nostro cervello viene bombardato da aziende che sanno come far scattare la nostra chimica cerebrale. C'è un documentario molto popolare su Netflix al riguardo chiamato The Social Dilemma. Ogni persona cosciente e responsabile di questo mondo dovrebbe guardarlo.
Con i social apparentemente siamo più in contatto, ma in realtà non è così, e tutto questo mi sembra particolarmente evidente in The Digital World, il primo disco così fitto di idee che sembrano quasi in contrapposizione.
Questa alienazione è proprio ciò che contraddistingue il nostro tempo, per cui è stato naturale per me riflettere una gran parte dei miei pensieri al riguardo. Devo aggiungere che in questo lavoro mi sono concessa una maggiore libertà. La parte improvvisativa è molto più spiccata rispetto al passato, difatti ci sono dei brani in cui lo spazio concesso ai solisti è assoluto.
Qual è l'elemento distintivo del suo modo di comporre ed arrangiare? Attraverso quali fasi si è realizzato?
Il mio tratto è l'impegno, ovvero fare in modo che la mia musica possa esprimere ciò che sento dentro di me. Nel corso della mia carriera, ho cercato di capire il ruolo evolutivo dell'improvvisazione in un ensemble. Sono sempre alla ricerca di un senso di inevitabilità allo sviluppo della mia musica. Cerco sempre di valutare la sua dimensione temporale, ovvero della durata giusta di un'idea musicale per avere il suo impatto positivo e cosa invece le farebbe perdere di efficacia. Poi cerco di arrivare ai giusti colori strumentali. Sperimento molto. Per esempio, in questo disco ho fatto tre versioni di CQ CQ, Is Anybody There? con gli interventi degli strepitosi Donny McCaslin, Ben Monder e Jonathan Blake, prima di essere soddisfatta, ci sono voluti molti discorsi e sperimentazioni per arrivare ai risultati voluti, attraverso altrettanti tentativi ed errori; così come abbiamo lavorato molto sulla dinamica del suono, come si faceva una volta, direbbero i saggi, per avere una timbrica estremamente naturale.
E che tipo di sfida è quella di combinare un’orchestra con solisti non classici?
Combinare la musica scritta con l'improvvisazione è la parte preferita del mio lavoro. Bella, ma anche molto difficile. Mi stimola creare musica in cui la parte scritta e quella improvvisata si possano sentire organicamente connesse. Mi affido anche a musicisti con un enorme talento, che possiedono un grande gusto, che non ho considerato solo per l'apporto che potrebbero dare con gli assoli o semplicemente per le loro capacità tecniche.
Se dovesse descrivere il suo stile a qualcuno che non ha familiarità con ciò che fa, come lo definirebbe adesso?
Direi che si tratta di jazz orchestrale, e che al meglio di ciò che riesco a fare, porta l'ascoltatore in un mondo parallelo, concedendogli un tipo di esperienza che va oltre la musica. Non so se effettivamente ci riesco, ma questo è il mio desiderio.
Qual è stato il suo più grande successo professionale?
Oddio, non lo so. Credo che il momento musicalmente più potente sia stato tornare nella mia città natale, in Minnesota, per far suonare la mia musica con la band al completo per tante persone che mi hanno ispirato fin da piccola, non solo nella musica, ma anche nella vita. La musica non mi spinge solo a comporla ma è piuttosto la vita che mi spinge ad esprimere delle emozioni reali attraverso di essa. Ho avuto un'educazione meravigliosa a Windom, la mia piccola città natale.
Un ricordo della sua preziosa esperienza con David Bowie per Sue, apparso nella retrospettiva Nothing has changed.
È stato tutto davvero fantastico e spontaneo, nonostante la mia reticenza iniziale. Ma lui che è stato e sarà una delle più grandi icone nella storia dell'arte, aveva capito perfettamente che il jazz ha alla sua base la comunicazione, la collaborazione. Pertanto, non è stato difficile portare un po’ del mio mondo nel suo. Certamente un grande onore e privilegio scrivere la musica su cui le sue parole si sono meravigliosamente adattate.
E invece se dovesse ipotizzare un'altra collaborazione con un musicista contemporaneo o scomparso chi sarebbe?
Sarebbe carino se condividessi una cena con Bach, in maniera tale da potergli chiedere dell'Arte della Fuga e magari farmi portare con sé in quel suo geniale incedere. Potrei anche chiedergli se ogni tanto ha dei giorni in cui le tenebre lo avvolgono e cosa fa per uscirne fuori, oppure fargli ascoltare dei brani canonicamente intesi come jazz ed osservarne, compiaciuta, la reazione.
Come si rilassa nel tempo libero, quando non deve scrivere?
Il birdwatching e lo stare all'aperto sono le mie cose preferite.