Ai poli opposti della produzione culturale ho individuato due modelli, le opere “cosmo” e le opere “cosmetiche”, cui corrispondono intellettuali che con il loro pensiero e la loro congerie di idee secernono un vero e proprio cosmo culturale e, di contro, intellettuali cosmetici, i quali invece si limitano a imbellettare e riordinare o rimodernare un mondo, un universo già esistente. Per esemplificare i due modelli potrei fare riferimento alla nota accoppiata Roland Barthes e Umberto Eco, o alla più famigerata Pasolini/Calvino, dove i primi soltanto sono creatori di un vero e proprio cosmo, mentre i secondi sono più o meno valorosi rappresentanti di cosmesi culturale. Soltanto gli esponenti della cultura-cosmo, siano essi scrittori, psicologi, medici, antropologi, ecc., sono reali intellettuali. La vera cultura promana dai primi; i secondi, spacciatori di nozioni cosmetiche, appartengono all’ambito culturale soltanto nella misura in cui compiono un’opera di intrattenimento, di svago, di imbellettamento, di blanda narcosi.
I cosmetici non portano mai avanti un discorso in prima persona, non si azzardano mai a dire “io”. Il loro ego, d’altra parte piuttosto pervasivo, è però messo al riparo delle loro locuzioni preventive – nelle opere dei cosmetici vengono adoperati spessissimo i “si dice”, “come si è detto”, “si afferma” – e i loro discorsi e le loro argomentazioni vengono montati come puzzle di citazioni, sotto la tutela di classici autorevoli.
Gli intellettuali cosmo invece si assumono la responsabilità delle loro idee, parlano in prima persona, dicono “io”, ci mettono la faccia. Non protetti dal gioco combinatorio del citazionismo, appunto rischiano, con il loro personale discorso, di perdere la faccia – che è forse l’unica cifra per misurare il valore di un saggio o di un romanzo. Molto spesso i libri cosmetici sono estenuanti rimasticazioni, peraltro molto ben diluite, molto ben insalivate dall’autore, di idee tratte da teorie affermate mescolate a concetti perlopiù impersonali, divenuti ormai di dominio pubblico a furia di essere estrapolati dai loro contesti originari e riproposti in forma stilizzata e quasi naif per via del continuo logorio e delle eccessive semplificazioni cui son stati sottoposti. I libri “cosmo” nascono invece dall’esperienza diretta degli autori che, prima ancora di essere autori, sono esseri umani alle prese con la vita.
Le opere degli scrittori-cosmo hanno quest’origine vitale e umana, connessa con un’esperienza personalissima e irripetibile, che viene narrata e testimoniata in prima persona. Le opere dei cosmetici invece hanno un’origine perlopiù antologica e combinatoria; i loro autori, facendo le pulci a qualche trattato accademico, ne ritagliano poi una frase o due, e su quelle ci cuciono addosso postille e minuterie argomentative per centinaia di pagine.
Connessa alla prima caratteristica, e in stretta relazione con essa, c’è il discorso sull’origine delle idee degli scrittori-cosmo in contrapposizione con i cosmetici: questi ultimi, come le succursali in franchising di grandi marchi, si appoggiano sempre all’azienda madre. Le opere cosmetiche sono caratterizzate dalla circostanza che i loro autori non hanno visto ciò di cui scrivono, né vissuto in prima persona ciò di cui argomentano, e anzi il più delle volte non l’hanno mai nemmeno concepito o immaginato. In breve, le opere cosmetiche sono letteratura e saggistica in franchising. Umberto Eco, per esempio, possiede precisamente il temperamento dell’aziendale che desidera avviare una nuova impresa, ma che, non volendo partire da zero, preferisce affiliarla a un marchio già affermato. Nei suoi saggi e nei suoi romanzi, in effetti Eco compie un lavoro di affiliazione commerciale: le sue idee in franchising, mediate dall’azienda-madre di riferimento – la semiotica strutturalista del saccheggiatissimo Barthes - vengono ri-prodotte e ridistribuite al grande pubblico come servizi e beni di consumo. Sarà difficile trovarci qualcosa di illuminante o di originale, perché in cambio del rischio d’impresa dimezzato grazie alla tutela dell’azienda-madre, come ogni buon affiliato, gli autori di opere cosmetiche si impegnano a rispettare scrupolosamente gli standard e i modelli di produzione stabiliti dai franchisor.
Un’altra fondamentale differenza tra i due modelli riguarda la natura della complessità dei libri-cosmo rispetto a quella dei cosmetici: la complessità delle opere cosmetiche è tutta apparente ed esteriore, superficiale. A rigor di logica, non la si potrebbe nemmeno definire complessità, se intendiamo la complessità nel suo più puro significato derivante da complessione, cum (insieme)+plecto, dal greco pleko, ovvero attorco, intreccio, piego, creo pieghe, cioè unisco insieme strati diversi, di diversa fattura, di diversa natura, di diversa profondità, cosicché ciò che sta sotto è unito a ciò che sta sopra, o di traverso, o di lato, o ai bordi, per mostrare quelle affinità e analogie che nel dispiegamento della superficie non potevano balzare all’occhio, né essere colte insieme.
Mentre i cosmetici spiegano - la diligente spiegazione, il prolisso spiegamento come operazione contraria alla turgida e fitta complessità, dove s-piegare significa mettere tutto sullo stesso piano, cosicché i punti salienti risultino sì ben visibili, ma accampati l’uno distante dagli altri, precludendo ai nessi e alle relazioni di risultare evidenti e ben visibili; i saggisti-cosmo invece rendono complesso, cioè creano pieghe nel discorso, cucendo insieme idee, avvicinando i lembi di quelle analoghe, per metterle in relazione e per creare tra di esse una familiarità, affinché prolifichino. Si capisce come i primi, i cosmetici, abbiano più successo, e i secondi meno.
La complessità dei cosmetici, dicevo, è complessità soltanto esteriore, e si avvale della ricercatezza del linguaggio per sopperire a quella ricchezza di significati che non possiede. Si può dire che i libri cosmetici siano discorsi comuni tradotti in linguaggio letterario, accademico. Discorsi che suppergiù qualsiasi persona priva di cultura potrebbe formulare andando a braccio, sulla rotta del proprio buon senso, e che vengono poi tradotti in linguaggio accademico, imbellettati di termini che suonano colti e desueti. Si tratta insomma di contraffazioni, di traduzioni – mai come in questo caso il termine traduzione, dal latino tradere, strettamente imparentato con tra-duco, conserva il proprio significato originario di tradimento.
Il linguaggio adoperato nelle opere-cosmo è invece esattamente l’opposto: si adopera una lingua comune, comprensibile e accessibile a tutti, per esprimere idee mai prima concepite, idee che allacciano insieme concetti che ancora nessuno mai aveva avvicinato né messo in relazione, affinché dischiudano un’inedita interpretazione delle cose.
Mentre i cosmetici fanno pagare cara la banalità conciata da eccezionalità; gli scrittori-cosmo offrono l’originalità e non di rado la genialità sguarnite da orpelli letterari, servite sul modesto vassoio di una lingua accessibile a tutti (modesto vassoio, che poi… la lingua accessibile a tutti non è un demerito, bensì il più raffinato approdo per chi ha serie ambizioni letterarie), infischiandosene spavaldamente del rischio di essere svalutati da chi non sa cogliere le cifre dell’autentica creazione intellettuale (cioè da quasi tutti).
I libri cosmetici non si aprono mai davvero alla realtà, sono sistemi chiusi, bei labirinti di nozioni in cui perdersi graziosamente in un pomeriggio pigro. I libri-cosmo si aprono e si riconnettono sempre alla realtà – prima di tutto nascono da essa, e difficilmente possono essere annoverati tra la saggistica accademica perché il più delle volte nascono come testimonianze di lavoro sul campo, come documenti di impegno civile e professionale – e sono infatti intrisi di considerazioni personali, di stralci diaristici e di interferenze autoriali.
Per gli scrittori-cosmo la cultura è un universo organico, vitale, per i secondi un gioco combinatorio. I primi sono come degli estrattori di succo: il mondo passa attraverso di loro come una mela una carota un limone attraverso gli ingranaggi e il filtro di un estrattore. Ne uscirà un siero, il succo condensato di un universo culturale. I secondi sono delle specie di hobbisti che per noia giocano al piccolo chimico: tirano fuori la scatola con le essenze e gli elementi, li diluiscono e li combinano a vicenda, ne vien fuori una sintesi magari anche gradevole e profumata, ma a che serve? Un trastullo con cui trascorrere il tempo. Ecco la cosmesi culturale, sintesi di principi attivi morti ridotti in polvere, gioco combinatorio, vezzo estetico nel riproporre e nel riprodurre il già visto, già capito, già detto.
C’è differenza anche nella militanza tra gli scrittori-cosmo e i cosmetici. Questi ultimi spacciano nozioni, i primi fanno esercizio d’intelligenza. Differenza tra spaccio di nozioni e intelligenza: intelligenza come capacità di intus+legere, ovvero abilità di cogliere e mettere in relazione ciò che sta sotto (sotto all’apparenza, sotto al discorso condiviso, sotto alla realtà manifesta), quindi abilità di leggere il mondo - il mondo, non la realtà; la realtà è già mondo cifrato, è già mondo ridotto a sistema. Intelligenza in questa accezione è tutt’uno con l’onestà intellettuale, e con la purezza delle intenzioni. Le stesse identiche teorie, gli stessi identici concetti, se maneggiati con intelligenza, possono dirsi realmente cultura, costituiscono davvero cultura; ma gli stessi concetti, se esplicati senza intelligenza diventano altro – non si può nemmeno dire che si deteriorino a mere informazioni, ma appunto fuoriescono dall’ambito intellettuale, diventano svago, intrattenimento.
Ma a questo punto allora è meglio trattare e avere a che fare con il dato nudo e crudo, andarsi a leggere direttamente i libri dell’autore in questione – meglio leggersi le opere di Barthes invece di Eco che le copia male – meglio consultare direttamente i manuali, l’enciclopedia, persino Wikipedia è una scelta migliore rispetto ai riadattamenti dei cosmetici, perché le idee e i concetti trattati senza intelligenza scadono a propaganda, vengono deformati dagli interessi di chi li manipola per abbindolare, per ottenere visibilità, per smuovere emozioni, compiacere vanitosamente l’uditorio, ipnotizzarlo retoricamente, ecc.
Inoltre, una differenza molto eterea, quasi esoterica, tra i due modelli consiste nella diversissima qualità dell’attenzione e dell’intenzione con cui gli autori scrivono: gli scrittori-cosmo sono come antenne che captano dall’etere segnali-radio per poi trasmetterli e diffonderli attraverso le loro opere, mentre gli autori-cosmetici compongono le loro opere perlopiù a partire da un atto volontaristico, da un desiderio egotico. Mentre i primi ricevono e captano idee, i secondi architettano nozioni. C’è differenza tra idee e nozioni.
Un’idea è qualcosa di organico e di indipendente – indipendente dalla mente di colui che la maneggia e che la esprime. Le nozioni sono i tasselli di cui si compongono le idee, come le tessere di un mosaico. Certo sono essenziali per la sua realizzazione, ma quel che conta è il mosaico, la visione d’insieme, appunto l’idea, il “disegno”. Anche i concetti, benché più complessi e articolati delle nozioni, hanno un’origine limitata, in quanto vengono concepiti da una singola mente, la loro manifattura è umana. All’origine di concetti e nozioni c’è sempre un atto di volontarismo individuale, e, pertanto, scorie più o meno evidenti di autoaffermazione. L’idea invece viene sempre in mente, (“Mi è venuto in mente”, “Idea!”, “Ho avuto un’idea”, “Mi si è accesa la lampadina”). Le nozioni hanno un’origine individuale e volontaristica, mentre le idee hanno un’origine superindividuale e spontanea, nella misura in cui vengono captate e recepite dall’ambiente circostante. Le vere idee non vengono mai pensate, studiate a tavolino; le vere idee vengono in mente, solo loro che pensano noi. Gli scrittori-cosmo, come in un download, le scaricano dall’etere, dall’atmosfera, dall’ambiente, dalla qualità elettrica collettiva in cui siamo immersi. Si può essere solo buone o cattive antenne per le idee, mai buoni o cattivi artefici. Chi architetta un pensiero, chi mette insieme concetti è fuori dall’idea. Può avere idee chi sta in ascolto – chi ha una struttura fisiologica atta a essere ricettivo. Poi, naturalmente, c’è bisogno che le riconosca, che le organizzi e le traduca in un pensiero condivisibile, comprensibile. A questo punto soltanto sono concessi il lavoro a tavolino, l’analisi, l’architettare un recipiente nozionistico in cui calare l’idea. Ma, prima, tutte queste operazioni sono controproducenti.
Gli scrittori-cosmo dunque scaricano le idee e le danno in pasto, le mostrano, le offrono generosamente quand’anche non organizzate in un discorso impeccabile, non hanno remore a servirsi di linguaggi che rasentano l’oralità perché sono gli stenografi del mondo. Gli scrittori cosmetici invece si limitano a riorganizzare concetti derivati da vecchie idee, ovvero ideologie - quando l’idea non aderisce più alla realtà, perché nel frattempo il mondo è cambiato, come una pancera larga, o troppo stretta, si ha l’ideologia; la vecchia, esausta idea scade in ideologia, l’ideologia è un complesso di idee scadute. Calvino, per esempio, è uno che ha maneggiato pancere troppo strette o troppo larghe (i giochi combinatori? l’allegorico-simbolico? l’“io me ne lavo le mani, non voglio saper nulla dei fascisti?”, ma che vogliono ‘sti zombie?), insomma ideologie che non calzano più il mondo.
Ancora sulla differenza della vocazione e della militanza: i cosmetici non sono al servizio di un’idea ma, al contrario, usano e riciclano idee per i propri scopi, per vendibilità, per vanità personale, godibilità, popolarità, ecc.
Pasolini, per esempio – emblema degli intellettuali-cosmo - era al servizio delle idee, e non si curava di sé e della propria immagine, o di quella che poteva essere la ricezione della sua immagine. L’immagine di Pasolini è stata totalmente modellata dalle sue idee, come se fossero le idee a secernere l’intellettuale, e non viceversa. Il vero intellettuale capisce sempre il mondo suo malgrado. Nei video, nelle interviste, questi aspetti sono lampanti, - è evidente la passione con cui Pasolini è manovrato dalle sue idee, è evidente la sua mancanza di vanità (e se c’è vanità, è la vanità dell’invasato, di chi sa di essere il portavoce di qualcosa di più grande di lui, di qualcosa che lo trascende). Il vero intellettuale è sempre sottoposto, sempre vittima delle proprie idee. Gente come Eco, Calvino, invece, stanno al di sopra delle idee. Comodi, avvolti in caldi maglioni e gilet sartoriali, te le fanno cadere dall’alto, proprio. Non le prendono sul serio, e non sono presi sul serio dalle idee. Giocano. Ci giocano come fossero biglie, scavano tunnel in cui farle rotolare, gongolano mettendole in fila una dopo l’altra, compiacendosi della resa estetica, imboniscono l’uditorio elargendo le più leziose, le più intriganti, le più ricercate. Fanno un lavoro di ricamo, di uncinetto culturale.
Nel migliore dei casi, i cosmetici fanno teatro con la cultura. Attori che allestiscono una messinscena a partire da qualche topos trito e ritrito del nostro immaginario dottrinale. Come in un monologo teatrale, il risultato può essere accattivante. Sono interpreti, attori che inscenano il grande pensatore, il filosofo, il Maestro, l’intellettuale, ecc.
È questo a sedurre e ad affascinare, e che sta a fondamento del loro successo e della loro popolarità.
Non a caso i loro monologhi, le presentazioni dei loro libri, gli interventi di fronte al pubblico hanno sempre un impianto drammatico-scenografico: dai modi all’abbigliamento, dalla gestualità alla gestione dei silenzi e del tono della voce, ci sono molto più studio e lavoro e qualità attoriali che non intellettuali - non sto con ciò sminuendo la carriera attoriale, tra l’altro notevole, sto piuttosto cercando di riportare l’attenzione sul fatto che è una cosa diversa dal ruolo dell’intellettuale.
Come alla radio, impostano la voce nei toni giusti, sembra che siano abituati a fare prove microfono, più che a sondare i principi generativi di un concetto dall’altro. Prendono una frase, una semplice citazione e la atterrano in cento posizioni diverse, come in un kamasutra del verbo. Sono manierati, raramente dispongono di intuizioni notevoli, allora ripiegano sul linguaggio e gli fanno fare il contorsionista, genuflettono frasi, stordiscono coi virtuosismi linguistici, anafore, catafore, ripetizioni, ellissi… è una cantilena. È la carriera del pifferaio, dell’imbonitore di folle. Alzano e abbassano la voce come nei trailer dei film commerciali, in cui gli speaker montano la suspense secondo ritmi calcolati per tenere in pugno l’attenzione degli ascoltatori.
Perlopiù fanno appello a quel piacere che gli esseri umani imparano a godere da piccoli, nel lettuccio protetto dalla voce rassicurante dei genitori che raccontano le fiabe. Non importano i significati, importa soltanto un certo sentimentalismo del Significato, quel tiepido senso di pace e sicurezza che promana dalla voce pastosa dei genitori. Sono come il padre che declama impeccabilmente la fiaba. Non importa il senso della storia, importa l’ipnosi, la devozione verso il padre che dice. Non importa cosa, perché il Padre dice. Allungano le vocali, “No, signori, noooo… non è come pensate”. Uhh, brividi… No, e certo, la detengono loro la verità. È arrivato il padre a dirmela.