Mentre scrivo è ricominciato il genocidio turco contro gli armeni e la pandemia ha ripreso la sua corsa da patria in patria e oltrepassa anche i muri eretti per frenare l'esodo degli ultimi su questa terra nera.
E io più che viva continuo a sentirmi superstite.
"Come stai?" e io "Non lo so". Sto. Sto con la mascherina, distanziata e con riserve esagerate di disinfettanti e igienizzanti di tutte le categorie. Forse è più probabile che io muoia intossicata che da Coronavirus.
Di più, di me, non so dire, però continuo a scrivere come sto facendo ora.
Gianfranco carissimo, devo frenare l'ammirazione incontenibile per Notturno, il tuo ultimo film. Dirò solo che è un capolavoro e per descriverlo andrò sghemba. Procederò di traverso tentando di riportare in scrittura pensieri che, da quando l'ho visto, attraversano la mente.
Ti ho conosciuto nell'estate del 2019. Eri ospite, qui a Ravenna, della mia amica Eleonora, la quale conoscendo la mia passione per il popolo curdo, mi aveva raccontato i tuoi tre anni trascorsi lungo i confini di Iraq, kurdistan, Siria e Libano. Avevo già visto Sacro Gra e Fuocammare; in tutti tre i film ho incontrato vite e luoghi che mi appartengono per quella passione che si riconosce nel patire la violenza subita dai popoli e dai luoghi di questa nostra terra.
Ritorno agli anni che hai trascorso, per realizzare il film, in quelle zone senza pace del Medio Oriente, perché la distanza tra noi e quei luoghi è un filtro potente. Certo, proviamo dolore, compassione, partecipazione ma, c'è un grande "ma" che fa la differenza.
Ma qui non risuonano "quei colpi, secchi e terribili" di mitragliatrice, di ferraglia e di passi pesanti di eserciti in corsa.
Ma qui non ci sono più madri che accarezzano i muri di una prigione abbandonata dove i loro figli sono stati torturati e massacrati.
Ma qui nessun ragazzo per mantenere al mondo se stesso e la sua famiglia deve fare "il cane da riporto".
Ma qui non ci sono bambine e bambini che raccontano, sfiniti dall'immisurabile smarrimento, le violenze dei militanti dell'Isis a loro volta rinchiusi in prigione.
Ma qui non ci sono le donne curde che combattono per difendere la terra delle loro speranze.
La ragazza di Kobane
Immutato il cielo,
un blocco d'azzurro intenso,
alto, distante.
I turchi sulla collina, alle mie spalle,
guardano.
Sto andando alla postazione dell'Isis e lì mi farò saltare in aria.
Questo è un breve brano del mio racconto Un oceano di dolore del 2015.
Lo sento come passaggio tra la descrizione di alcuni episodi del film e il sentimento e l'esperienza del film stesso. Mentre io scrivevo tu avevi in mente – sentivi - Notturno. Sei andato in quei luoghi e ha preso corpo così l'esperienza che nasce dalla passione di dare risposta alle cose che accadono. Nel momento in cui queste divengono in noi sangue, sguardo e gesto non più distinguibili da noi stessi, solo allora può darsi che nasca e prenda corpo un'opera, nel nostro caso, un film come Notturno.
Mi sono ritrovata in quel tempo sospeso, nei silenzi, nei suoni lontani, nel dolore delle madri, nell'annichilimento delle bambine e dei bambini con i loro disegni più potenti di qualsiasi altra denuncia e infine nel buio, nella luce e nell'attesa, come se davanti a loro - a noi - giungesse l'eternità.
E ogni immagine si fa testimone di lutti, di dolore e di disperazione che già c'erano e noi ci ritroviamo ancora lì.
E nonostante tutto, l'ostinata rassegnazione del vivere quotidiano.
E nonostante tutto, "qualunque ostinazione pur di non morire".
Ecco perché mi sento anch'io - come loro - più che viva, superstite.
Non ho avvertito la macchina da presa e mentre guardavo mi sono ritrovata ad essere la madre che accarezza il muro del carcere,
e ancora,
mi sono ritrovata ad essere il ragazzo che deve fare il cane da riporto,
e ancora,
io sono i due innamorati nella notte di pioggia, sono il cacciatore di frodo che nella valle lascia nell'acqua la sua scia di luce, sono le bambine e i bambini che raccontano l'indicibile.
E ancora.
Sono la madre che ascolta nel cellulare la voce di sua figlia rapita dalle bande dell'Isis.
Ma sono anche la pioggia, la notte, la valle, il silenzio, l'attesa. Ascolto, vedo, sento e mi riconosco in un dolore e in coinvolgimento senza tempo e senza distanza.
Ecco l'essenziale fatale qualità di Notturno.
Infine, un brano di Rainer Maria Rilke, perché le sue parole riferite alla poesia appartengono, a mio avviso, a qualsiasi altra espressione artistica e l'ho sentita molto vicina al tuo lavoro.
Dimenticavo.
Sono anche la coperta con l'immagine della rosa.
I versi non sono sentimenti (che si acquistano precocemente) sono esperienze. Per creare un verso bisogna vedere molte città uomini e cose, bisogna conoscere gli animali, bisogna capire il volo degli uccelli ... Bisogna saper ripensare a sentieri in regioni sconosciute, a giornate trascorse in stanze silenziose, a mattinate al mare, a notti di viaggio che si allontanano con il loro fruscio, a incontri inaspettati, a congedi previsti da tempo, a giorni dell'infanzia ancora indecifrati. ...Solo quando -esperienze e ricordi - divengono in noi sangue, sguardo e gesto, anonimi non più distinguibili da noi stessi, solo allora può darsi che in una rarissima ora... sgorghi la prima parola di un verso.
(Rainer Maria Rilke, I quaderni di Malte Laurids Brigge, 1910)