Ink, ovvero inchiostro, è il titolo dell’ultimo spettacolo di Dimitris Papaioannou. Arriviamo buone ultime a riflettere su questo duetto “in nero” firmato dal celebre coreografo-regista-artista visivo greco, e speriamo non invano. Tutti sanno ormai che questo duetto, passato e coprodotto da “TorinoDanza” e dal Festival “Aperto” di Reggio Emilia - in cui Papaioannou spartisce la scena con il giovane Šuka Horn - è una sorta di assaggio di uno spettacolo che, Covid 19 permettendo, debutterà ad Atene in dicembre con un buon numero di altri interpreti selezionati nel mondo e di sesso maschile. A noi pare, tuttavia, che Ink sia rilevante in sé e già portavoce di una svolta nella ricerca dell’artista greco che potrà essere confermata o smentita.
Tale svolta la si percepisce subito all’inizio nel suo stesso presentarsi in scena, nel suo viso inquieto quando da una posizione china si gira tra la pioggia battente che sferza sino alla fine l’intera pièce. Stando chino, Dimitris scruta il palco e pesca un polipo che porta con sé e poi getta a terra. In questo suo agire è più che mai lontano dal “maestro di cerimonia” dei suoi precedenti spettacoli e chef d’oeuvre (Primal Matter, Still Life, ma anche l’installazione Sysiphus-Trans-Form). Soprattutto, appare privo di quella hybris, di quella padronanza quasi strafottente nell’esibire la sua precisa conoscenza di come muoversi in scena, e di quali azioni avrebbe fatto seguire ad altre. Qui Dimitris pare, almeno a noi, sorprendersi di se stesso: immerso in uno stato interiore, dubbioso e onirico.
Entro lo spazio avvolto da tendaggi neri liberamente ondulati, anche il suo costume casual - camicia e pantaloni - non assomiglia affatto ai completi impettiti che rimandavano anche per gli interpreti di The Great Tamer e di Seit Sie/Since She (lo spettacolo creato con il Tanztheater Wuppertal in omaggio a Pina Bausch) ad un’iconografia da ballo popolare greco. In Ink, Dimitris è un uomo “qualunque” che sfoggia ciò che di lui ancora non conoscevamo: una fragilità che non teme di mostrarsi tale nei vari giochi d’acqua con una pompa che lui stesso manovra ad un lato della scena, talvolta non senza un certo impaccio (forse sparito al secondo debutto di Reggio Emilia), accrescendo il volume d’acqua che invade il palcoscenico. Il suo maniacale e ripetitivo agire resta quello di riempire una boccia d’acqua, e dapprima di farne roteare con un braccio il colmo contenuto che fuoriesce creando cerchi magici di luce. Poi si siede, anzi si sdraia, quasi addormentato su di uno sgabello posto anch’esso a lato della scena, sino a che, sotto plancia, non gli si avvicina uno strano ranocchio che lo sollecita ad alzarsi, ma in un lampo è sparito. In realtà, si muove sin quasi sotto i suoi piedi, ed è voluminoso: Dimitris ne segue il percorso, ne scopre le giovani fattezze nude ed umane; cerca di bloccarne il movimento a terra con le mani che però scivolano sulla plancia trasparente. Infine, riesce disperatamente ad impossessarsi della nuova creatura entrata nel suo mondo reale oppure onirico - poco importa - facendolo alzare e rinchiudendolo entro la plancia trasparente quasi a forma di cono stringendolo ben stretto con la sua cintura. L’immagine è memorabile almeno quanto quella del getto d’acqua che, fuoriuscito dalla canna, raggiunge la sua testa, come se uscisse dal suo cervello, creando un… pensiero d’acqua.
Sino a qui, per favore, lasciamo stare il mito tanto circola ovunque nella pièce poiché come scrive Mircea Eliade: “Il mito non è il contrario della realtà, è prima di tutto un racconto la cui funzione è rivelare in che modo qualcosa è avvenuto all’essere umano”. Papaioannou conosce bene i miti antichi, “le storie vecchie”, come direbbe Eliade, ma racconta storie nuove nelle quali sono rintracciabili gli archetipi esistenziali, qui come mai prima, a nostro avviso, collegabili al mondo dei sogni, alla psicologia del profondo. Tanto che riassaporando l’immagine del coreografo-regista sdraiato e dormiente sul suo sgabello e quasi svegliato o sollecitato da una creatura aliena, ripeschiamo nella nostra memoria coreutica addirittura un archetipo romantico: quello della Sylphide, con il suo James addormentato e risvegliato da un essere impalpabile, inafferrabile, frutto del desiderio di chi lo ha evocato in sogno.
Un pizzico di romanticismo circola, a nostro parere, in Ink e non è una novità da poco nella poetica di Papaioannou. Sarebbe stato interessante poter scrutare più da vicino i due protagonisti divisi dalla plancia trasparente: le smorfie da primate del giovane che si dibatte, lo stupore del suo partner quando ne ammira il corpo finalmente steso e acquietato e pone sulle sue pudenda il polipo, riuscendo persino ad attirarlo sino a sé con una corda attaccata alla sua plancia. Il primate, o giovane bambino ignudo, si siede, si abbevera alla boccia di nuovo riempita, soprattutto accoglie un’altra boccia argentata, brillante. Ma non è questa, che elevandosi a testa in giù come un acrobata si ritrova tra le natiche. È la boccia trasparente dalla quale ha bevuto e dalla quale ora beve Dimitris postosi sotto l’acrobata.
Ne nasce un abbraccio-amplesso che si conclude con i due corpi stesi, vicini. Ma è solo una tregua; il giovane questa volta s’impegna ad incastrare nella sua lastra trasparente il compagno e ne blocca il suo divincolarsi con una gran luce gialla che illumina il suo mezzo busto e il suo volto. Poi prende la boccia d’argento e oplà in un attimo scompare, lasciando il compagno con il polipo tra le mani che butta a terra per poi risistemare la scena come se nulla fosse accaduto. E invece ecco provenire dal fondo tante luci rotanti; aperto il tendaggio come un sipario da music-hall, Papaioannou ritrova la sua boccia brillante e la ricolloca sulla corda dove era in origine.
D’improvviso ha inizio un breve percorso d’iniziazione, materno più che paterno, con il lavaggio di un paio di mutandine, subito indossate dal giovane ricomparso; poi come fa un genitore con il proprio figlio, ci si lancia a terra la palla/boccia, e il “figlio” comincia ad emulare l’adulto nel modo di muoversi. Attimi giocosi e brevi, prima d’un ennesima sparizione. Un effetto di fumo d’acqua che sale al cielo e rende tutto nebuloso, distoglie l’attenzione dall’entrata di un cespuglio di spighe quasi appassite. Dentro si nasconde il giovane ignudo e si mostra mentre tiene tra i denti fili di frasche appassite. Di soppiatto il presunto o così definito “genitore”, si stende davanti al cespuglio in controluce. Viene così osservato dal giovane che con i suoi gesti facciali lo incita e infine divide in due il cespuglio. Che ne esca un bambino-polipo era forse intuibile, ma che l’adulto Dimitris culli questa duplice creatura come una vera mamma è la sorpresa delle sorprese.
Nel finale il mostruoso bimbo-polipo viene gettato via; su di un tavolo, sul fondo scena, il giovane ex-primate si lancia in nuove acrobazie, percuote l’adulto e viene percosso. Conquista l’attenzione ballonzolando sopra un tavolo come un vincitore e gongolante in un cono di luce scompare, mentre in proscenio l’adulto torna solo. Visibilmente turbato e forse irritato, non ha che da sbattere a terra più e più volte quel polipo: una malefica premonizione dello Janua Inferi, cioè uno dei due varchi solstiziali (estate qui verso inverno), guidati, secondo la tradizione romana da Giano, divinità bifronte che dispone di due chiavi, una d’oro l’altra d’argento. Ma così ritorniamo se non ai miti ai simboli e vi sprofondiamo ancor di più grazie a René Guénon. Lo studioso di Scienze Tradizionali e del patrimonio simbolico, rituale e metodologico delle tradizioni spirituali d'Oriente e d'Occidente intravvede nel passaggio dei due solstizi, da cui il Sole cambia rotta e torna indietro, “l’incontro del cielo e dell’acqua”, “la rappresentazione delle due mezze parti dell’uovo cosmico che vanno a formare la sfera, emblema dell’androgine primordiale e del vuoto animato: il Kàos”. Nel buio in cui vive Ink, forse associato al solstizio d’inverno, i sei mesi estivi sono già trascorsi; le fresche frasche sono appassite; ed anche se non lo vediamo il polipo secerne, ora come sempre, il suo inchiostro come uno sperma inquietante e “altro”.
Ink, dunque, gronda di riferimenti persino esoterici, si offre a molte letture, incappa volutamente nei simboli e senza volerlo nel mito. Per noi, nell’ottica di Mircea Eliade, ci racconta cosa è avvenuto a Dimitris Papaioannou nei mesi del lockdown e come è riuscito a trasformare il suo incontro con il giovane, bravo e allettante Šuka Horn, in qualcosa di speciale, ma non privo di esitazioni drammaturgiche, soprattutto all’inizio dove si legge un non saper cosa fare che scaturisce forse dall’esperienza tutta interiore e personale dell’artista. Del resto, questa è la prima volta che l’artista si svela nei suoi sogni, nella sua psicologia del profondo. Lui, sempre così a distanza da ogni banale restituzione del sacro e del profano che pure sono i suoi “temi”, e invece così immerso nella storia e nei miti come archetipi della collettività, adesso s’inabissa nel suo “io”: sogna, desidera, ama come compagno, madre, padre, tutt’insieme su qualche stralcio di musica vivaldiana e canzoncine appena accennate di sottofondo. Una svolta sulfurea, vagamente romantica, e non da poco.