L’altro giorno sono andato a curiosare in una rivendita di libri riciclati ad Alessandria. Il Libraccio. Il ben noto paradiso dei volumi di seconda mano. Andare in questo genere di rivendite, man mano che avanzo con l’età, è una cosa che faccio ormai sempre più di frequente. Tra i vari libri messi in fila sugli scaffali ho trovato un libro di John Le Carré che si intitola Il visitatore segreto. Stava accanto a un altro libro di Le Carré: La casa Russia. Mi sono avvicinato e li ho contemplati entrambi per un po’, messi di costa. Mi ha attirato un particolare. Quell’edizione del Visitatore segreto è stato il primo libro che ho visto nella vetrina di un negozio di libri (“Lo Scolaro” a Tortona; ora rimpiazzato da un negozio di scarpe) e che ho desiderato acquistare. Avevo dodici anni.
Va detto che, benché così giovane, non fossi vergine di questo genere di letture. Avevo già comperato qualche libro alla Standa sotto casa mia. I primi due titoli furono Confessionale di Jack Higgins e L’alternativa del diavolo di Frederick Forsyth. Mi rifornivo soprattutto dalla Standa perché lì vendevano i libri in edizione economica. Soprattutto ero attratto dalle copertine della Sperling&Kupfer, che spesso erano le locandine dei film tratti dai libri. Ad esempio, Una preghiera per morire di Jack Higgins dal cui libro è tratto il non memorabile film con Mickey Rourke e lo stesso attore che ha interpretato “Chi ha incastrato Roger Rabbit?… Bob Hoskins. In quella copertina viene rappresentata l’immagine di un uomo con il volto di Mickey Rourke con indosso un husky verde, i capelli biondicci sul lungo, da buon irlandese, e un ceska cecoslovacca con il silenziatore avvitato tenuta in spalla come se fosse una canna da pesca. In un riquadro una donna seminuda, con capelli lunghi corvini e un bel paio di seni e lo stesso uomo dell’immagine principale inginocchiato. Se si guarda con attenzione si nota che la donna è non-vedente. Oppure La zona morta o Cujo di Stephen King. La copertina del cane San Bernardo, con le grandi orecchie penzoloni, gli occhi buoni, spauriti e il tartufo nero del naso e sotto… una chiostra di denti giallognola, bavosa che mostra l’idrofobia contratta da chi è sempre stato fino a quel momento un buon amico a quattro zampe. Compravo quei libri anche per queste ragioni e li compravo, almeno inizialmente, perché in edizione economica e tascabili. Sì, si tratta di motivi piuttosto superficiali, me ne rendo conto, ma avevo dodici anni. Comunque, non calcolavo che motivi così di superfice mi avrebbero traghettato verso una passione che non mi ha più lasciato nemmeno oggi.
Quei tascabili acquistati alla Standa sono stati oro per me. Mi hanno, ad esempio, aiutato moltissimo a migliorare nei temi d’italiano. Io volevo fare bene d’italiano. Sentivo che quella fosse la mia materia. Ma non andavo molto bene. Andavo benino. Eppure, mi leggevo i grandi classici della letteratura come Guerra e pace di Tolstoj o i romanzi di Balzac. Fu leggere libri scritti con un linguaggio più accessibile e moderno e farmi spiccare il volo. Tra l’altro, questo è anche uno dei motivi per cui non si leggono solo i classici, ma si acquista la narrativa contemporanea: il Conte di Montecristo non sapeva cosa fosse Internet, ad esempio, e Madame Bovary non si faceva venire a prendere in Spider dal suo amichetto… e se è per questo nemmeno Cenerentola.
Eppure, continuo a ritenere che il primo libro che ho realmente desiderato acquistare sia stato Il visitatore segreto di John Le Carré. Il motivo è che quel libro era in edizione cartonata. Non era un tascabile. Era un libro dall’aspetto vero, importante. Anche la copertina, in fondo, lo suggeriva. Il nome dell’autore scritto in nero e il titolo del romanzo in rosso su campo giallo. Quasi la copertina di un dossier. Senza immagini o altri abbellimenti. Di Le Carrè avevo già letto in edizione economica La spia che venne dal freddo e l’avevo trovato un po’ ostico rispetto ai libri di Jack Higgins, Frederick Forsyth e Ken Follett. Però, Le Carrè è il Re delle spy-stories e sentivo che nei miei giudizi ci fosse qualcosa che non quadrasse. Mi piaceva quello che leggevo, ma non riuscivo a capirlo e un po’ mi ci perdevo – tra parentesi: oggi penso che capire come Le Carrè ci riesca, ti metta nella condizione di capire come ci riesca Kafka, autore, com’è noto, tra i più imperscrutabili in assoluto. Volevo dare a Le Carrè una seconda chance. Peraltro, ora ricordo di aver letto La tamburina ancor prima della Spia che venne dal freddo, perché lo avevo in casa – e lì avevo capito tutto, o quasi, e mi era piaciuto moltissimo. Fatto sta che mentre decidevo se comprare o non comprare il nuovo romanzo di Le Carré (sarà stato il 1990 o il 1991), passando e ripassando davanti alla vetrina dello Scolaro, a un certo punto comparve Il Simulatore di Frederick Forsyth e alla fine… decisi di acquistare quello. Non fu per la copertina (un uomo vestito in giacca ritratto di spalle mentre osserva un pavimento a losanghe dall’aspetto labirintico), ma per lo stile ipnotico e avvincente dell’autore che mi decisi per quel passo. Perciò, si può affermare che nella mia mente successo questo: mi si era formato il desiderio di acquistare il libro di Le Carré, ma alla fine mi risolsi per porti più sicuri direzionandomi verso Forsyth. Qualche tempo più tardi acquistai Il visitatore segreto per posta tramite Il Club Degli Editori. Ce l’ho di là, in sala, assieme agli altri libri in quell’edizione.
La cosa importante dunque è che io il libro di Le Carrè ce l’ho già, lo possiedo. L’ho letto (e riletto) ed è uno dei migliori del Maestro.
Nondimeno, l’altro giorno dalla rivendita di libri usati ho rivisto l’edizione italiana originale dello stesso libro che ho nell’edizione del Club Degli Editori e ho desiderato acquistarla. Mi sono anche fatto una serie di pensieri poco ortodossi. Per esempio, ho pensato che potrei andare al Libraccio con il libro che ho in casa e chiedere se posso scambiarlo con il loro libro… perché in effetti è quel libro, quella edizione che io ho sempre desiderato e quella Del Club degli Editori è sempre stata… quasi un palliativo, una seconda scelta. Sarà per via della copertina: uno spiocrate tipico personaggio alla Le Carré con bombetta e bastone da passeggio, la cui ombra si allunga su una carta geopolitica. Magari, è tutta colpa di quella bombetta. O della scelta dei colori: un titolo rosso su campo bianco. Ma se la proposta venisse accettata e io scambiassi i libri, chi mi dice che tra qualche anno non proverei gli stessi sentimenti capitando per caso davanti all’edizione del Club Degli Editori? Ho anche pensato che forse potrei richiedere di acquistare la sola copertina del libro senza il libro. Potrei vestire il volume nell’edizione del Club degli Editori con quella copertina sopra l’altra copertina così da avere un libro con due, diconsi, due copertine. Potrei, sì. Gustandomi anche la faccia dei ragazzi dietro il bancone dopo aver fatta loro la mia proposta. Ma poi, un libro è solo la copertina? Il mio desiderio si riduce a quello? O è il libro tutto intero? Io dico che prima o poi sentirei la necessità di avere il libro con i caratteri dell’edizione originale e financo la copertina rigida – che differisce di pochissimo tra edizione ed edizione della stessa casa editrice e a volte anche di case editrici differenti. Alla fine, comunque, sappiamo tutti benissimo come andrà a finire: andrò dal Libraccio, acquisterò il volume e mi terrò due copie dello stesso titolo.
Ma non importa. La cosa importante in tutto questo sono i sentimenti che ho provato nel rivedere un oggetto che ho desiderato intensamente di acquistare da giovanotto e che non ho mai più rivisito fino a quel dato momento. Nelle bancarelle e nei negozi come questo io non faccio altro che andare alla ricerca di quei libri che vedevo a dodici, tredici, quattordici anni e che non ho comperato perché ovviamente non mi bastavano i soldi della paghetta e che successivamente non sono mai più riuscito a trovare. Bisogna fare delle scelte e tutto non si può avere. Però, rimane il desiderio, dentro di noi. Io non sto facendo altro da tre, quattro anni, con l’andare per bancarelle di libri usati o nei discount, che soddisfare desideri antichi, desideri del me bambino, ragazzetto.
Mi chiedo cosa accadrebbe se entrassi in un negozio di giocattoli e rivedessi giocattoli che ho desiderato avere ma che i miei non mi hanno preso o che io non ho mai avuto il coraggio di chiedere. Non credo che li acquisterei. Sono cose, queste, che con i giochi non si fanno. Con i libri si può fare, ma non credo cambi molto, in fondo. Certo, non acquisterei oggi un albo di Winnie The Pooh, anche se non ne sono sicurissimo – e poi io libri per ragazzi non ne ho mai letti (dai quattordici ai sedici ho letto Topolino nella sala d’aspetto del dentista, tanto che aspettavo di entrare per farmi stringere le viti dell’apparecchio e come tutti l’ho trovato geniale ed esaltante), mi sono subito dato a Tolstoj e le spy-stories. Quello che voglio dire con questo è che per me certi libri sono stati i miei giocattoli. Ci sono cresciuto. Ci ho mangiato sopra e fatto tante cose sopra. Alcuni libri sono, ecco, toy-books. Si prestano a esserli. E una parte di me che non è cresciuta va ancora alla ricerca di quei giocattoli perduti, di quei toy-books.
Dirò di più.
Per me ha comportato uno sforzo assumere un atteggiamento del tutto serio nei confronti della letteratura. Oggi riesco a essere serio e tutto quanto, ma a ventidue, ventitré, ventiquattro anni e poi con varie ricadute anche nel corso dei trent’anni ho avuto difficoltà a parlare di libri anche difficili e importanti con lo stesso entusiasmo di un bambinone. Per questa ragione. Perché ho cominciato presto, prestissimo. A leggere e a scrivere, anche se, a un certo livello, sotto certi aspetti, scrivere è più facile che leggere. Ti metti lì e pasticci, e quel che viene viene. Ma leggere… Leggere significa e per me ha sempre significato cercare di carpire qualcosa, imparare. Ma appunto perché avevo dodici anni. Solo un dodicenne può volere veramente fare lo scrittore e impegnarcisi a fondo. Solo un dodicenne. Lo penso e basta. Così leggevo per carpire, imparare, ma… avevo dodici anni! E tredici! Quattordici! Sedici anni! Quando sono arrivato a venticinque mi sembrava di essere il Matusalemme del Lettori Del Mondo – o forse d’Italia o… o del Piemonte! Non sto cercando di farmi un vanto della cosa e non sto cercando di fare proprio niente. Cerco solo di descrivere uno stato d’animo, un sentimento o se non di descriverlo, quantomeno di dire che c’è, esiste. Ciò che per gli altri è importante, serio, gravoso, per me è un’attività che faccio da quando sono piccino. Così se mi parli di Dostoevskij, io trovo che sia un mattacchione, con tutte quelle storielle che s’inventa nei suoi megaromanzi. O se mi parli di Maupassant, idem con patate. È perché una parte di me vede in questi libri importanti il lato toy. C’è sempre un toy-book dentro un libro importante. Anzi, deve esserci. Un lato paradossale, parossistico, spurio, ibridato, folle. Insomma, non so se debba esserci, ma di sicuro in Tolstoj o in Faulkner, ma perché non in Omero, Sofocle, Euripide e molti, molti altri… quel lato questi autori lo mettono.
Qual è il lato toy di questo pezzo che ho scritto? Semplicissimo: un uomo che vuole acquistare una copertina e non un libro.
Più toy di così…!