Camminando i pensieri si facevano quasi cielo; se li si fosse potuti sottoporre ad analisi chimica, si sarebbe scoperto che contenevano granuli di colore, che avevano in sé qualche gallone o quarto o pinta d’aria. Il che li rendeva subito più eterei, più impersonali. Ma in quella sala i pensieri erano pigiati insieme come pesci in una rete, lottavano, si raschiavano le scaglie l’uno con l’altro, adattavano i movimenti allo sforzo di fuggire… perché tutto il pensare non era che lo sforzo di far evadere il pensiero dalla mente del pensatore, oltre tutti gli ostacoli, il più completamente possibile: e ogni forma di società non è che il tentativo di afferrare e influenzare e costringere ciascun pensiero appena affiora, per obbligarlo a sottomettersi a un altro.
(Virginia Woolf, Una melodia semplice)
Proviamo a immaginare: un coccodrillo che spalanca le fauci, un cavallino rampante, un cane a sei zampe che sputa fuoco dalla bocca come un drago… A chi queste cose, prese singolarmente, non suggeriscono subito qualcos’altro? Sono dei loghi che a loro volta si ricollegano a dei prodotti. E ne è bastata la sola descrizione! Pensate, vedendoli in immagini con forme e colori, quale potere possono esercitare sulla nostra mente. I pubblicitari lo sanno, sanno quanto l’impatto visivo sia fondamentale nel mondo della comunicazione e sanno, grazie alle neuroscienze, che il processo con cui i nostri occhi trasmettono alle parti più profonde del cervello l’impulso a riconoscere un marchio e ad associarlo a una merce è rapidissimo, bastano pochi millesimi di secondo.
Proviamo a immaginare: in autunno alcune strade diventano un tappeto di foglie. Foglie così belle che ci si fermerebbe a ogni passo a raccoglierne una. Così belle da catturare l’attenzione anche se stiamo parlando con qualcuno che ci cammina accanto. Ne riconosciamo qualcuna, forse quelle di quercia, piccole, orlate, leggermente sinuose, o quelle dei platani, lucide, ampie e palmate… ma le altre? Siamo abituati a vederle, a dare per scontato che ci facciano ombra e che si stacchino dai rami col vento o una volta appassite. Ma se ci fermiamo a pensare, difficilmente riusciamo a capire a quale specie appartengano. Semplicemente perché molti di noi, forse la maggioranza, non conoscono gli alberi e le piante, non saprebbero individuarne che poche varietà.
La verità è, purtroppo, che noi abbiamo da tempo, troppo tempo, rinunciato a conoscere ciò che ci dà respiro.
Camminando ci basta un colpo d’occhio per riconoscere un marchio su un cartellone pubblicitario ma non siamo più in grado di dare un nome alle foglie.
Dovrebbe farci paura e farci sentire stupidi e folli prendere coscienza di questa realtà. Perché abbiamo lasciato che succedesse? Perché non ci fermiamo a pensare che si dovrebbe porre rimedio a tutto questo?
La risposta, penso, è terribile nella sua evidenza: molti di noi hanno lasciato addomesticare dall’esterno la propria capacità di giudizio e hanno abdicato, senza accorgersene e in nome di un’apparente comodità, alla propria libertà di scelta. E i pochi che si ribellano ci sembrano degli illusi, gente che ha tempo da perdere.
Intanto annusiamo profumi sintetici dai nomi esotici o che evocano atmosfere ed essenze silvestri. Non spalanchiamo più le finestre per arieggiare le stanze perché alla presa di corrente abbiamo un deodorante per interni che, a intervalli regolari, emette sbuffi di chimica e di aromi pervasivi. Ci convinciamo a rinuciare a ciò che è originale per correre dietro a mistificazioni e sofisticazioni, consideriamo superato ciò che è naturale e lo sostituiamo con gli artifici. Così usiamo filtri digitali che cambiano luce e colore alle nostre foto senza curarci che si snaturino. Ci innamoriamo di oggetti “effetto legno” e di mobili shabby chic, con la patina di finto vissuto. Ci conformiamo alle prigioni che noi stessi abbiamo contribuito a costruire intorno a noi. Come unica reazione alla sottrazione progressiva dei nostri spazi vitali, ci arrampichiamo sugli specchi, o per meglio dire sui muri, concependo strategie di adattamento e simulazione, come gli “orti verticali”.
E non ci ricordiamo da quanto tempo non ci sediamo sull’erba di un vero prato e non andiamo a fare una passeggiata in un bosco per godere dei suoi colori e dell’aria pura. La consideriamo una forma di esercizio fisico, un’attività simile alla palestra e invece è una terapia capace di sollecitare i nostri cinque sensi atrofizzati. E se non bastassero a ricordarcelo le pratiche antiche, quelle sagge abitudini di comportamento che rispondevano all’istinto, a impulsi originari del nostro cervello non ancora riprogrammato dalle leggi dell’economia e dalla televisione in nome di una falsa idea di progresso, lo dimostrano anche molte ricerche scientifiche: quando siamo immersi nella natura il nostro sistema nervoso si riequilibra, la frequenza cardiaca si abbassa così che, di conseguenza, le nostre difese immunitarie si rafforzano e le capacità di concentrazione e di memorizzazione aumentano. In poche parole, un bagno di serenità e salute.
Basterebbe una passeggiata in un bosco, o ancora meglio una vita nei paraggi.