Due autobus e lo spettro ceruleo di un misterioso personaggio davanti a un libro chiuso dalla copertina gialla hanno segnato il destino artistico di de Chirico. Gli autobus transitavano in rue de la Boétie, una larga strada dell'8° arrondissement di Parigi che si immette sugli Champs-Elysées.
Il personaggio misterioso troneggiava nella vetrina della galleria che Paul Guillaume, giovane mercante delle Avanguardie artistiche di inizio secolo, aveva aperto da poco in quella strada. Sul primo dei due bus viaggiava un giorno André Breton, irriducibile teorico del Surrealismo, che dal finestrino vide il grande quadro. “Mi attrasse così tanto da obbligarmi a scendere per guardarlo da vicino”, scrisse più tardi ricordando l'emozionante sensazione che aveva provato. Quel volto dagli occhi chiusi, baffi e barbetta stile Napoleone III, inserito in un contesto altrettanto enigmatico, per buona parte chiuso da una tenda, lo rapì completamente. Breton uscì dalla galleria solo dopo aver comprato l'opera del giovane e ancora sconosciuto de Chirico, opera che resterà per oltre 40 anni nella sua casa di rue Fontaine, “presenziando” tutte le tumultuose riunioni del clan surrealista.
Solo per poche settimane il quadro, battezzato col nome Il cervello del bambino dal poeta del gruppo Louis Aragon, ritornò nella vetrina della galleria di rue de la Boétie: avvenne qualche anno dopo, nel 1926, per un'altra esposizione dell'ormai famoso de Chirico. E anche allora catturò l'attenzione di un altro artista, Yves Tanguy, anche lui sull'autobus, anche lui magnetizzato da quella pittura al punto di scendere per andare a vederlo. “Il fatto che anche Tanguy, che io ancora non conoscevo, abbia avuto la stessa reazione che ho avuto io, basta a dotare di obiettività un tale richiamo”, sentenziò Breton nel 1952 ricordando in una rivista i due episodi, ormai diventati leggendari.
È proprio sui territori psichici sconosciuti evocati dall'immagine che tanto affascinò Breton e Tanguy che Giorgio de Chirico costruisce la sua “pittura metafisica”, influenzando l'arte moderna, da Picasso ai surrealisti. Ed è proprio a Parigi, città dove l'artista vive dal 1911 al 1915, che forgia quel linguaggio enigmatico e provocatorio con cui esplora l'universo parallelo di paesaggi mentali irreali.
A questo breve, ma fondamentale soggiorno nella capitale francese, il museo dell'Orangerie dedica una mostra che è un viaggio nel periodo più rivoluzionario e complesso di de Chirico, quello che iniziò quando arrivò carico di valige e paure alla parigina Gare de Lyon la notte del 14 luglio 1911. Per la verità il giovanotto elegante in giacca e cravatta che conosciamo dal suo autoritratto di quell'anno non approdava nella capitale dell'arte alla ricerca di stimoli ed esperienze nuove, ma piuttosto fuggiva dalla chiamata alle armi del governo italiano che lo avrebbe più tardi persino condannato in contumacia, dichiarandolo disertore. Certo, quando presentò per la prima volta i suoi quadri al Salone d'Autunno mai avrebbe pensato di ottenere così tanta attenzione da parte delle Avanguardie parigine.
Quelle piazze vuote, quelle architetture scarne unite a frammenti di statue antiche apparvero subito come un ponte con la poesia e la filosofia, così che il grande Apollinaire, scrittore, critico e poeta coniò per loro l'espressione di “Pittura metafisica”, mentre Paul Guillaume ne diventò il primo mercante. Difficile “incontrare” tutte insieme quelle prime tele, da La serenità del sapiente a La conquista del filosofo, entrambe ora negli Stati Uniti, la prima conservata al Moma di New York e la seconda all'Art Institute di Chicago, da Il ritorno del poeta, che arriva dalla Fondazione Aga Khan di Ginevra a La stanchezza dell'infinito, proveniente, come molte altre opere esposte, da una collezione privata.
Un tempo molti di questi quadri, insieme a dipinti di Modigliani, Renoir, Picasso, Derain, Matisse, Utrillo, Rousseau e Soutine, appartenevano alla raccolta dello stesso Paul Guillaume, che l'Orangerie oggi custodisce. De Chirico, i cui dipinti vennero tutti venduti dopo la morte del mercante, è oggi il grande assente della collezione. Perciò il museo ha voluto ritrovare e riunire queste opere, in mostra fino al 14 dicembre, dopo un rinnovo dei locali e della disposizione espositiva dell'intera raccolta. “Sono dipinti rari, nati nel suo periodo più radicale e più bello, quando le sue opere dialogavano con quelle di Picasso e Max Ernst, suggestionando surrealisti come Magritte e influenzando artisti come Carrà e Morandi”, spiega la direttrice del museo, Cécile Debray.
Nelle stanze dell'Orangerie ritroviamo tutto l'universo immaginario sbocciato da riflessioni speculative e concettuali legate all'ossessione dell'artista per Nietzsche, ma anche alle sue ansie malinconiche. I porticati disadorni e le torri isolate sono il palcoscenico di scene teatrali in cui ambienta la percezione della realtà che emerge dal suo mondo interiore. Caschi di banane appaiono accanto al busto di Afrodite, carciofi giganteschi occupano la quasi totalità di uno spazio o giacciono sotto la bocca di un cannone, biscotti spuntano accanto a squadre e altri strumenti di misura. L'incoerenza degli oggetti accostati ci restituisce l'idea del sogno o del ricordo. I treni, infatti, appartengono alla sua infanzia in Grecia, dove il padre sovrintendeva alla costruzione di alcuni tratti ferroviari. I treni, così come le vele, che spuntano sempre per metà sopra muri divisori, sono i simboli del viaggio verso le terre enigmatiche dell'esplorazione psichica, mentre gli orologi annientano il tempo, segnando momenti eterni. A popolare questo teatro dell'assurdo compaiono frammenti di statue antiche, filosofi o politici dalle lunghe tuniche, ombre che emergono dal nulla.
Ancora una volta non sarà un richiamo dell'arte, ma una scelta opportunista a far rientrare in fretta e furia de Chirico in Italia. Il governo della Penisola si apprestava infatti a dichiarare guerra, varando dunque un decreto d'amnistia per tutti i disertori. È il 20 maggio del 1915. Undici giorni dopo, il 31 maggio, de Chirico, insieme al fratello Alberto Savinio, è già a Firenze. Dichiarato inadatto a sopportare gli sforzi della guerra a causa dei suoi disturbi di nevrastenia, viene destinato all'ospedale militare di Ferrara. La mostra dell'Orangerie si allunga a tutto il periodo ferrarese, quando nascono i suoi manichini senza volto, figli spersonalizzati degli orrori della guerra, ma anche robot generati dal progresso tecnologico. L'influenza della sua “pittura metafisica” supera così i confini francesi e giunge in Italia condizionando pittori come Carrà e Morandi.
Piazze solitarie e manichini saranno poi replicati da de Chirico nel corso di tutta la sua produzione artistica, qualche volta anche retrodatando le opere per inserirle nei gloriosi anni giovanili. Ma già a partire dagli anni Venti il suo interesse si era spostato verso l'antichità classica tra cavalli, templi e gladiatori, provocando una radicale revisione del suo stile. Tanto che il secondo soggiorno a Parigi, iniziato nel 1924, finì in lite con i suoi vecchi amici surrealisti che lo accusarono di “voltafaccia” e lo dichiararono “morto” a partire dal 1918. De Chirico li castigò a modo suo e nella sua autobiografia li definì “un gruppo di degenerati, teppistoidi, figli di papà, sfaccendati, onanisti e abulici”.
Non solo. Ormai stanco delle lodi che i suoi dipinti del periodo metafisico continuavano a ricevere (nonché dei prezzi esorbitanti che questi raggiungevano alle aste) e del biasimo riservato agli anni del suo “classicismo”, fece di tutto per “cancellarli”. Così nel 1972, alla veneranda età di 84 anni, dichiara false - facendole mettere sotto sequestro - le quattro tele “metafisiche” esposte a Parigi al Museo delle Arti decorative, insieme a opere di Dalì, Magritte, Duchamp, Giacometti, Masson e altri surrealisti. Tra queste c'è Il Redivivo - acquistato nel 1986 da Yves Saint Laurent, ora conservato al Centre Pompidou e oggi in mostra all'Orangerie. Il processo opposto dai proprietari andrà avanti fino alla sua morte, nel 1978. Naturalmente quei dipinti erano autentici. Vendetta, tremenda vendetta di un artista.