Un percorso ideale che parte dall’omonima pinacoteca di Saluzzo (CN), tocca il Museo di Arte Sacra di Acceglio (CN) ed include una capatina alla Pinacoteca del Divisionismo di Tortona, è un ottimo punto di partenza per riscoprire la pennellata di un artista eclettico, il quale ebbe – altresì - un profondo legame con la famiglia Galimberti di Cuneo e con Pellizza da Volpedo. L’intervista a Daniela Bernagozzi, sua biografa, ci consente di far nuova luce sull’artista e sull’uomo, con uno sguardo ai progetti futuri.
Vorrei iniziare dall’immenso lavoro di ricerca, alla base della biografia dedicata a Matteo Olivero. Quando ha iniziato ad interessarsene e quali sono state le tappe salienti?
Come ho già scritto nel libro (Matè, vita solitaria e randagia del pittore Matteo Olivero) il mio interesse per Matteo Olivero nacque casualmente vedendo il piccolo dipinto Funerale a Casteldelfino, che allora era esposto nei corridoi del Palazzo Comunale a Cuneo. Sapevo vagamente chi fosse l’autore ma l’opera mi colpì in mezzo ad altre, pur di buona fattura, ma decisamente più convenzionali e prevedibili. Quello che mi catturò nel dipinto, che poi scoprii essere degli anni ’20 e cioè di un periodo in cui l’arte di Olivero era ormai giunta alla maturità, era il taglio del quadro ma anche il contrasto fra il tema della morte rappresentato in modo non tetro e in uno scenario di montagna innevato ma aperto alla luce e ancora vitale. Allora non sapevo, lo imparai dopo, che il tema del funerale fra i monti era stato molto amato dai pittori del divisionismo, Maggi, Segantini, ma Olivero lo tratta in modo tutto suo, unisce vita e morte. Da lì decisi di partire. E quando vidi che a quell’epoca tante opere di Olivero a Saluzzo ancora ammassate qua e là nel palazzo Comunale, capii che era il caso di scoprirlo di più, di provare a valorizzare quello che mi appariva un grande dimenticato.
La visita ai musei che ospitano le sue opere ci dona una prospettiva affascinante sui suoi stili pittorici (Divisionismo, Impressionismo, Fauvismo e Futurismo paiono convivere in lui). Quali pensa siano state le fasi dominanti della sua carriera?
Poi nel percorso all’indietro, che feci per conoscerlo meglio scoprii i suoi vari stili e le sue fasi. In realtà Olivero fu fedele per tutta la vita a una poetica di tipo divisionista che però non applicò mai con rigidità scolastica. I suoi esordi pittorici furono nell’arte impegnata e sociale, meraviglioso il quaderno Le macchiette dell’Hotel eseguito nel 1900 a Torino, abbozzando tipi umani che vedeva nelle mense dei poveri della città, dopo un viaggio a Parigi, e ancora in parte inedito, anche se a poco a poco la sua carriera fu segnata da una minore preoccupazione per l’elemento umano per concentrarsi sugli aspetti tecnici della realizzazione della luce o della neve, in questo certamente anche per accontentare la committenza. Ma nella resa della neve e delle montagne lui non è mai solo fotografico, decorativo, perché per lui il paesaggio della Val Maira o della Val Varaita che raffigura, come nel bellissimo Solitudine, una delle mie opere preferite era sempre anche interiore, voleva rappresentare i suoi stati d’animo e le sue emozioni.
Il Futurismo fu per lui un episodio interessante che ancora non mi so del tutto spiegare: a volte sembra che Olivero lo prenda molto sul serio a volte che se ne burli. Il suo autoritratto in stile futurista mi fa propendere per questa interpretazione: come se lui dicesse: “Vedete, se volessi lo potrei fare anch’io ma, appunto, non voglio”. Si sentiva impegnato alla fedeltà allo stile della fine dell’Ottocento in cui si era formato, non si fece mai sedurre dalla stagione delle avanguardie forse per scrupolo di lealtà ai suoi maestri.
Una parte importante dell’esistenza di Olivero, fu il suo rapporto con i Galimberti. Cosa crede l’abbia reso così unico? Penso, soprattutto, alla varietà delle committenze ed al gusto sopraffino di Alice.
Sto lavorando proprio, da due anni, a una biografia sulla giovinezza di Alice Schanzer (nata nel 1873 a Vienna e cresciuta a Roma, di discendenza ebraica) e sto imparando un sacco di cose su di lei... Alice era una donna coltissima che si era educata all’arte attraverso i corsi liberi che Adolfo Venturi teneva alla Università di Roma. Sapeva un sacco di cose in letteratura e musica ma, in un certo senso, in arte era un’autodidatta. Lei e suo marito Tancredi Galimberti apprezzarono Olivero e lo protessero, affidando loro committenza importanti (il grande quadro della Spinetta di Cuneo, che fu esposto alla Biennale di Venezia e che faceva il paio con la veduta di Cuneo dal lato Stura affidata a Delleani) ma forse temevano un po’ il suo temperamento bizzarro. Nei Galimberti era forte l’intenzione di intraprendere una collezione di famiglia, che potesse rafforzare la vocazione politica di Tancredi, sul territorio. In questo Tancredi Galimberti era molto diverso dal rivale Giolitti che non diede mai molta importanza alle opere che in modo più o meno adulatorio gli artisti o i suoi “clienti” gli offrivano. Io rimpiango sempre che il ritratto di Alice che il marito commissionò a Giacomo Grosso (ritratto bellissimo, ma triste, che rispecchia forse solo una parte della personalità) non sia stato eseguito da Matteo, chissà cosa ne avrebbe tirato fuori…
Matteo Olivero amava tornare alla sua terra, ma come pensa abbiano influito sul suo stile le numerose permanenze altrove?
L’etichetta di Olivero come pittore della neve e della montagna non deve infatti fuorviare: Matteo si formò alla Accademia di Belle Arti di Torino in cui insegnavano Bistolfi e Grosso, fu amico di Pellizza da Volpedo, forse l’unico artista fra i suoi conoscenti che amò sinceramente, e fu mandato dai suoi professori già a 21 anni in viaggio premio alla grande Esposizione Universale di Parigi dove studiò le tendenze artistiche più attuali e vide per la prima volta le opere di Segantini. Scrisse anche di arte per una rivista francese dell’epoca, Les tendences nouvelles, a cui collaborava persino il giovane Kandiskij. Non era “solo” un provinciale anche se, come racconto nel libro, per il suo primo viaggio a Parigi partì con due bottiglie di vino nella valigia che si ruppero in treno perché temeva che in Francia il vino fosse troppo caro. Quello che a un certo punto lo rinchiuse un po’ nell’etichetta di “pittore della neve” fu a mio avviso la sua committenza che pretendeva sempre di più da lui opere tranquille da poter appendere in salotto. Questo a partire dagli anni successivi alla Prima guerra mondiale, gli fece perdere un po’ di mordente. Ma rimase un pittore con una capacità di sperimentare: in un suo autoritratto oggi in Casa Galimberti ci sono degli accenti espressionisti inquietanti.
Singolare il personaggio di Rigadin… cosa lo spingeva a ‘servirsene’?
Rigadin è una delle sue facce: il suo doppio comico, la parte opposta a quella degli autoritratti “notturni”. Rigadin era la sua maschera: la usava nei carnevali di Torino e poi di Saluzzo, in cui costruì colossali carri carnevaleschi. Il carnevale in lui era forse un retaggio dei grandi carnevali della Val Maria a cui aveva assistito nella sua infanzia, ma era anche un momento di trasgressione consentita, di libertà assoluta, in cui riprendeva la parte buffonesca della sua personalità. Faceva parte della visione dell’arte un po’ bipolare di questo “timido egocentrico” come in fondo deve essere stato, la cui trasgressione non era legata all’assenzio o alle droghe ma alle burle delle osterie piemontesi.
Ci suggerisce un “percorso ideale” per avventurarci alla scoperta di Matteo?
Un percorso: io partirei dal Museo Matteo Olivero di Saluzzo, in cui una parte delle opere da lui lasciate in studio sono esposte in un percorso magnificamente curato da Rosanna Maggio Serra, recentemente scomparsa, in uno scenario suggestivo, proprio di fronte al palazzo dove il pittore aveva il suo studio. Al Museo Olivero di Saluzzo è possibile vedere il suo capolavoro quel Mattino: Alta Valle Maria, che nelle sue grosse dimensioni è la sua opera più impegnativa, realizzata per l’Esposizione milanese “del Sempione” del 1906, acquistata poi dall’industriale Luigi Burgo e regalata al Comune di Saluzzo. Poi mi sposterei a Ussolo, in Valle Maira, per una passeggiata: è possibile infatti vedere di quel quadro il modello: e cioè l’identica visione della valle dall’angolo della grangia ancora esistente da cui il dipinto è stato realizzato (c’è Demetrio Zema, di Chamin che organizza periodicamente visite sul posto). Ussolo è anche un paese alpino perfettamente conservato in cui è stato ambientato il film Il vento fa il suo giro e merita comunque una visita. Dopo Ussolo ci si potrebbe portare ad Acceglio per vedere nel museo parrocchiale le opere che gli accegliesi si sono aggiudicati alla sua morte per dono del Comune di Saluzzo. Il resto di Olivero è sparso in collezioni private ma si può vedere qualcosa alla GAM, un meraviglioso Suburbio al Museo del Divisionismo di Tortona, e belle opere a Casa Galimberti, dove forse si potrebbe finire la visita. Salutando, uscendo da Casa Galimberti, proprio quella Alice, madre del partigiano Duccio, che consumò in quella tranquilla dimora borghese trent’anni della sua vita.