Accade che a Ravenna le persone si intravedano da sempre; alcune rimangono lontane, in altre ci inciampi - per un po' di tempo le frequenti, poi rientrano in una specie di ombra - e altre ancora ritornano per condividere nuovi cammini. Venendo dalla collina ho impiegato molto tempo a comprenderne sguardi, silenzi, teorie e il "...confinare dell'immobilità con la velocità suprema...". L'enigma che pongono donne e uomini ravennati è tutta concentrata nei mosaici delle loro basiliche. È lì che trovi gli sguardi bizantini che incontri per strada, è lì che ritrovi le teorie che girano intorno come dervisci senza mai incontrarsi e conoscersi.
Poi qualcuna o qualcuno, come accade in qualsiasi cittadina di provincia, prende il largo, ma qui lo si può prendere rimanendo - immobilità e velocità suprema - nella serenità del precipizio.
Oggi è mercoledì 9 ottobre ed è venuto a trovarmi in studio Marco Martinelli della Compagnia teatrale delle Albe. Parlare con Marco senza che il pensiero non corra immediatamente incontro a Ermanna Montanari, è operazione impossibile. Ermanna e Marco, dalla fine del Liceo Classico lavorano insieme. Infatti, Marco mi parla subito di matrimonio e di teatro. Giovanissimi si sono sposati e hanno iniziato la loro esperienza teatrale. Mentre Marco parla ho preso qualche appunto. Ecco le sue parole. Non tutte, perché la parola è più veloce della scrittura.
Matrimonio e teatro. Scommessa assoluta. A Ravenna non c'era niente. Dovevamo stare a Ravenna.
L'errore è stato il nostro maestro. L'errore che deriva da errare, allontanarsi dalla norma.
Il nostro sogno era viaggiare e il teatro, l'edificio, è la nostra casa, l'aspetto sedentario che abbiamo reso nomade aprendolo alla città.
La prima esperienza è stata, nel 1983 al teatro di Bagnacavallo, poi nel 1991 abbiamo iniziato qui a Ravenna a dar forma al teatro vivente: un'opera d'arte aperta, collettiva.
La Compagnia delle Albe è nata nel 1983, ma è da quarant'anni che lavoriamo. E siamo sempre gli stessi: Ermanna, io, Luigi Dadina, Marcella Nonni, più altri quaranta che si sono aggiunti nel tempo.
Il perdurare è bellezza.
Stiamo vivendo questi due momenti: la scoperta dell'Africa e dai primi anni '90 abbiamo aperto il teatro agli adolescenti. Sempre dialogo, apertura.
Il primo altro è Ermanna. Siamo nati nella dimensione dell'ascolto. Ermanna mi sorprende sempre. >Da questa cellula ai mille (?) c'è proprio un'ostinazione.
Il nostro è un cerchio che si allarga sempre e si condivide.
Cerchiamo sempre di mettere in forma la vita.
La disubbidienza è eresia ed è indispensabile per trovare l'ortodossia.
Oggi è il 17 novembre.
Ho riletto le parole di Marco.
Non so chi sia stato il primo ad aprire gli occhi dell'altro o dell'altra. Penso che l'incontro con il teatro sia nato da un desiderio, seguito da una passione che non li ha mai abbandonati. Il teatro e la scrittura nelle loro diverse forme, sono la conseguenza di una comunione perfetta. Quando trascorro, anche raramente, un po' di tempo con loro, m'incanto perché due persone così vicine, pur aventi due caratteri ben distinti, non le ho mai incontrate. E dire che vivere sempre contro corrente non è cosa semplice. Tra le tante amiche disubbidienti e preveggenti di cui ho scritto, Marco è il primo amico che inserisco in un cammino comune. Quando lo sento parlare rimango sempre incantata per questa sua infinita semplicità che accoglie e comprende. Insomma, gli viene naturale dire, fare e nel suo lavoro creare, eventi teatrali, che vengono un po' prima degli altri. Pone, inoltre, la massima attenzione alle persone o alle cose che in quel momento sono le ultime, le inaspettate e si affida all'imprevisto. Ma quel che scrivo lo si può leggere al plurale perché dall'inizio sono due: Ermanna e Marco.
18 novembre.
Queste sono giornate tremende. Piove sempre. Ora mi alzo da questo tavolo bianco e vado a preparare le orecchiette con le cime di rapa, così bevo anche un po' di vino sperando che compia il miracolo. Il miracolo consisterebbe nel togliermi la melanconia, anche lei mia compagna di viaggio. Ma le cose non vanno mai come le vorremmo perché mi sono allontanata dalla scrittura, ma lei non mi ha abbandonata, così per tutta la serata ha continuato a scrivere e io a fare altro in piena schizofrenia. Di tutto quello che la mia mente ha scritto ieri sera mi sono rimaste due parole; passione condivisa.
Oggi è il 19 novembre.
Riprendo a scrivere nel pomeriggio inoltrato sempre più depressa. Speravo di avere un po' di febbre per rimanere a letto. Non solo non riesco a uscire di casa, ma non riesco neanche a conquistare la posizione verticale. E voglio dare un senso a quelle due parole: passione condivisa.
Il tempo ha divorato le immagini dei primi incontri con il teatro delle Albe. All'inizio ero tra il pubblico, poi Letizia Bolognesi mi ha fatto conoscere Ermanna e Marco. È accaduto così quel miracolo che a volte accade anche in una città assopita e distratta, come Ravenna.
Ma io non abbandono la presa e voglio, ancora, ascoltare a distanza di mesi "maledetti" (il 20 novembre, il mio incidente, poi la pandemia) i loro progetti.
Tre domande.
È la prima volta, da quando scrivo, che tento la via delle domande.
La parola "domanda" non mi piace neanche come suono e mi ricorda il periodo delle domande di insegnanti ai quali, spesso, non sapevo dare risposta.
In realtà la mia vita è fatta di interrogativi, ma rivolti a me stessa. E continuo a non avere risposte.
Allora parto da lontano, parto da quell'età dell'oro che è ed è stata la nostra infanzia e vi chiedo se è in quella fucina che ha preso forma l'arte come vita.
Tutto nasce nell’infanzia. Che, sotto un certo aspetto, è per eccellenza la stagione delle domande: lì cominciamo a chiederci il perché delle cose, perché questo e perché quello, perché la ferita di uno schiaffo o di un abbandono, perché le ingiustizie, e così via. E la nostra umanità dipende dal fatto che riusciamo a tenere viva la curiosità, la tensione alla conoscenza. E certamente lì prende forma il nostro destino, il destino di tutti, anche se non se ne è coscienti – la conoscenza comincia nella non-consapevolezza – si sviluppa nel confronto con i genitori, i primi modelli, e con i fratelli e le sorelle, in quell’embrione di società che è la famiglia, nella meraviglia davanti al paesaggio che abitiamo e che ci attraversa, la campagna romagnola per Ermanna, l’orizzonte cittadino per Marco. Abbiamo scritto due libri sul nostro tempo d’infanzia, che ci sembra si parlino a distanza, nelle loro grandi diversità: Ermanna ha composto le Miniature campianesi, Marco Nel nome di Dante.
All'inizio degli anni '90 ricordo di avervi seguiti a "Sant'Arcangelo dei teatri". Eravate una comunità. Condividevate le giornate come una grande famiglia. Più che prove erano dialoghi, confronti che Marco orientava con la sensibilità e l'umiltà che caratterizza la sua persona.
Quello che hai percepito allora non è mai cambiato, eravamo allora e siamo ancora oggi una “compagnia” nel senso letterale e antico del termine: condividiamo l’arte e la vita con i nostri “compagni”, con cui dividiamo il pane, ovvero il denaro, la fatica, la gioia della creazione. Pane materiale e pane spirituale. E la direzione artistica, anche se il ruolo di regista di Marco lo rendeva più evidente, l’abbiamo sempre tenuta insieme: essere diretti da una coppia, da un maschile e un femminile, è forse più fecondo che mettersi in fila dietro al leader, inguaribilmente maschio nella nostra società. E le eccezioni confermano la regola. Ci siamo sempre ispirati a un modello di comunità gilanica, come quella teorizzata da Maria Gimbutas, in cui uomini e donne si amano e si rispettano e lavorano insieme con pari dignità.
La vostra visione di comunità si è ampliata a dismisura. Come un fiume in piena. Mi tracciate le mappe? So che sono territori troppo vasti. A me interessano le regioni dell'anima che vi hanno condotti fin qui. Come nasce, per esempio, il coinvolgimento dei griot senegalesi, la scoperta della “Romagna africana”?
A noi è capitato di avere vent’anni e sentire che la vita non era nell’affannarsi per il conto in banca e il successo, no, la vita stava nella ricerca di Verità e Bellezza. Lì stava il segreto, nell’indagare il mistero del nostro stare al mondo. Che il teatro, che le arti, tutte le arti, o sono arti del vivere, o sono questa fiamma che arde, o non sono niente. Quante volte ci afferra l’angoscia, la paura di non essere all’altezza, di non aver centrato il risultato, quante volte lo spietato meccanismo in cui, più che vivere, sopravviviamo, ci spinge a eliminare gli altri, ad accumulare cose e cose, ad avvelenare e avvelenarci. E alla fine? Alla fine ci troviamo in una “selva oscura”, fatta di depressione, di errori e fallimenti, una selva amara come la morte, dove si aggirano le belve che ci divoreranno. È lì che l’arte, l’arte nella sua purezza, può venirci incontro, come Virgilio va incontro a Dante, mandato dall’alto, da Beatrice. Ma per non essere ingannati dalla “marcia della vita”, per riconoscere, come Dante fa con Virgilio, l’ombra che ci prende per mano, che ci fa uscire dalla “selva oscura” in cui ci siamo smarriti, occorre essere umili e comprendere che forse la “selva oscura” è la prigione del nostro io, lo specchio in cui vediamo specchiato sempre e soltanto e solamente il nostro piccolo io, malato e arrogante. Che noia! Occorre un gesto di coraggio, occorre rompere il maligno incantesimo, uscire da quel carcere e prendere aria, e saper ascoltare, e sentire la fratellanza di tutti i miei simili, il mio vicino di casa come l’uomo o la donna che vivono dall’altra parte del mondo. Le onde che hanno segnato questi quattro decenni di Albe sono state all’insegna dell’uscir fuori e incontrare l’Altro.
Ci è sempre piaciuta la fedeltà, l’essere legati da un patto profondo di amicizia, il piacere della durata. Le Albe le abbiamo fondate in quattro, Marco ed Ermanna, appena sposati, insieme a Luigi Dadina e Marcella Nonni. E in questi quarant’ anni la compagnia si è continuamente allargata, siamo diventati pian piano quaranta, tenendo la porta aperta a giovani attori, tecnici, organizzatori. Fin dall’inizio abbiamo pensato che le parole del Mahatma Gandhi: “Sii tu stesso il cambiamento che vuoi vedere nel mondo”, andavano prese alla lettera. Che la nostra compagnia doveva provare a essere in se stessa il luogo in cui operare la trasformazione. Per esempio, accogliendo all’interno della compagnia i Mor, gli El Hadi, i Mandiaye dalla pelle scura che già alla fine degli anni Ottanta immigravano dall’Africa a cercar lavoro sulle spiagge della nostra Romagna. Non era che l’inizio di quel cambiamento epocale che oggi è sotto gli occhi di tutti: tanti nostri lavori hanno raccontato questo incontro di popoli, questo Sud del mondo che spinto dalla fame, dalle guerre e dalle torture, cerca asilo al Nord e spesso fa naufragio in mare. E dopo l’apertura all’Africa, all’inizio degli anni Novanta, l’invenzione della non-scuola: siamo entrati nelle scuole e abbiamo iniziato a lavorare con gli adolescenti, a “mettere in vita” i classici, da Ravenna alla Scampia di Gomorra, dalle periferie del Nord Europa agli slum del Kenia. I quattro fondatori, l’Africa, gli adolescenti: un cerchio dentro un cerchio dentro un cerchio.