Felice, Dioniso, cresceva tra i monti della Frigia. I Satiri gli erano compagni di gioco e di caccia.
Fu per caso l'incontro, con il giovane e con l'amore. Ampelo il nome di entrambi, del giovane e dell'amore.
Mai il dio aveva visto creatura simile prima. Le sue guance lisce non conoscevano ancora ruvidezza di barba, riccioli color del sole gli ricadevano lungo le spalle, mentre voce di miele usciva dalla sua gola a riempire l'aria d'intorno. Il suo sguardo era pieno di luce, la primavera abitava dentro quel corpo.
Tacque Dioniso la sua natura divina a quel giovane che, pure, sembrava estraneo alla stirpe degli uomini. E domandava, insistente. Era figlio di ninfa o forse era figlio di un nume? Voleva sapere da quale madre, da quale padre avesse avuto in regalo la vita.
Ancora più bello di Ganimede che in forma segreta di aquila Zeus aveva rapito al mondo mortale, lo splendido giovane rapì il cuore dal petto immortale del figlio di Semele.
Da quel momento non ebbe più altro compagno di gioco, Dioniso, non volle più altro compagno di caccia. Continuamente i due si sfidavano in gare di lotta e di corsa. Rotolavano nella terra, si lavavano nelle acque del fiume. Ma non erano veri gesti di lotta, i loro, e l'unica corsa era quella a compiacere il compagno. Si lanciavano l'uno contro l'altro, si abbracciavano l'uno sull'altro. Impossibile dire dove finiva lo scontro e dove iniziava l'unione, perché ogni loro scontrarsi era pretesto per poi unirsi. L'unica gara tra loro era inventarne di nuove e sempre Ampelo vinceva, anche se non sempre per merito, ma perché Dioniso voleva così.
La gelosia si insinuò come un male dentro al cuore del dio che non conosceva il dolore, e con lei la paura che il giovane un giorno non fosse più suo. Con sospetto guardava l'amato che abilmente montava orsi, tigri e leoni, che li domava sicuro, che li cercava per rendere fiero l'amante.
Lo incoraggiava il dio, e lo ammoniva, invitandolo a prestare attenzione, tra tutto, soltanto alle corna del toro. Tremenda visione - presagio funesto! - l'aveva un giorno agitato. Tra le rocce era apparso improvviso un drago imponente, sul dorso portava un tenero capriolo. Su un altare di pietra l'aveva rovesciato la bestia feroce, affondando il suo corno in quel piccolo corpo indifeso. Si era allargata una pozza di sangue lì, sulla pietra. Dioniso aveva tenuto fisso lo sguardo: ne era rimasto turbato, sì, e pure gli era sfuggito un sorriso. Non conosceva ancora il dolore.
Corre il Fato, sempre si affretta incontro a chi tenta di stargli lontano. Anche allora corse, anche allora si affrettò!
Non capiva Ampelo gli ammonimenti del dio, non comprendeva i suoi inviti. E quando un toro arrivò assetato alle acque del fiume, egli lo ricoprì di carezze, di ghirlande fiorite lo cinse, sul dorso robusto salì a cavalcarlo. Durò un attimo l'impresa. L'animale si fece d'un tratto furente e si liberò con violenza del peso sul dorso. Cadde il giovane e nel suo rovinoso cadere gli si spezzarono le ossa del collo. Ma la sua pena non era finita. Nulla rimase in lui di ciò che era stato, una volta. Orribile strazio ne fece il toro, tra le zampe e sulle corna.
Davanti al corpo inerte dell'amato, il dio che non conosceva il dolore, imparò lo strazio e la disperazione. Lui che non aveva mai sofferto, pianse inconsolabile tutta la rabbia, la sua impotenza. Cercava segni di vita e non ne trovava. Gli intrecciò fiori tra i capelli, di ambrosia gli ricoprì le ferite, attendendo un ritorno che non veniva, una rinascita che tardava, impossibile. Inutile il conforto che tutti gli offrivano, le promesse di nuovi amori che inaspettati sarebbero giunti a scalzare quello che più non era. Dopotutto, lui era il dio che non conosceva il dolore.
Ma quelle lacrime divine, appena imparate, non cessarono di scorrere e di mischiarsi nel fango al sangue di Ampelo, sparso ovunque. Quel dolore appena conosciuto, pareva non dover finire mai.
Finché, dal pietoso miscuglio di lacrime e sangue le Moire tessitrici di destini non fecero germogliare una pianta nuova, mai vista prima. Tralcio di vite crebbe inatteso da quel miscuglio divenuto miracolosamente fecondo e la promessa che Ampelo portava da sempre già iscritta nel nome (è la “vite” ampelos nella lingua antica) trovò il suo compimento.
Strinse Dioniso tra le dita i frutti maturi che pendevano dal tralcio ritorto, lisci com'erano state un tempo le guance dell'amato. Di rosso si tinsero le sue mani bianche. Corno ricurvo di toro divenne coppa a raccogliere quel liquore dal sapore di miele, dolce com'era stata la voce di lui.
Splendida fu l'eredità di Ampelo, il lascito di quell'amore sfortunato e potente, che aveva insegnato il dolore e ne sarebbe divenuto insieme il rimedio, che aveva raccolto una memoria inconsolabile e annebbiandola per un po' l'avrebbe restituita sopportabile, che aveva consegnato al mondo il dono bellissimo dell'ebbrezza e avrebbe inondato di gioia ogni angolo della terra.