Non sono molte le imprese editoriali e culturali fondate su passione e competenza. Domenico Ferraro è un battitore libero, un fiero indipendente che ha fondato Squilibri Editore nel 2003, per documentare quanto si muove in una "certa" musica in particolare che attiene all’espressività popolare e di tradizione. Solitamente ama stare dietro le quinte, per cui la possibilità di approfondire cosa anima e sostanzia le sue ricerche è quanto mai ghiotta.
Collaborazioni organiche con i più importanti archivi e centri di ricerca nell’ambito delle musiche di tradizione orale, dall’Accademia Nazionale di Santa Cecilia ad AESS-Archivio di Etnografia e Storia Sociale; la pubblicazione di materiali inediti dei padri fondatori della moderna etnomusicologia, da Diego Carpitella a Roberto Leydi, o di capolavori come i sette CD sulle tradizioni campane di Roberto De Simone e una marcata attenzione verso la canzone d’autore con riconoscimenti anche clamorosi come le sei Targhe Tenco in soli quattro anni con la collana Crinali: sono dati sufficienti a riassumere le attività editoriali di Squilibri?
Sono un po’ i fiori all’occhiello che, con orgoglio, si esibiscono quando si indossa il vestito della festa, quello buono delle grandi occasioni, ma che rischiano di mettere in ombra la continuità di un lavoro meno evidente ma altrettanto importante in un percorso avviato, tra lo scetticismo di molti, ormai più di quindici anni fa e che si è poi concretizzato in 115 volumi, 130 CD e 20 DVD, oltre ai 23 cd-book della collana Crinali. Sono numeri ragguardevoli per un piccolo editore, soprattutto considerando che i primi due anni li abbiamo trascorsi, increduli e timorosi, a saggiare le possibilità di mercato affaticandoci attorno a due soli titoli.
Ci racconti allora il percorso che è sotteso a questi numeri che suppongo includano anche modifiche e cambiamenti nella linea editoriale.
Noi siamo partiti con l’idea di dare visibilità a uno sterminato patrimonio culturale, quello delle musiche di tradizione orale, rispetto al quale erano ancora poche e discontinue le pubblicazioni: malgrado l’imperversare di pizziche e tarante, ad esempio, erano ancora inedite le registrazioni salentine di Ernesto De Martino e Diego Carpitella o quelle che sempre in Salento Carpitella aveva fatto con Alan Lomax. Registrazioni ora a disposizione di studiosi ed appassionati, in due volumi con allegati 5 CD, cosicché restano senza giustificazioni alcune approssimative operazioni sulla tradizione che pure si continuano a fare. Questo è stato il punto di partenza.
Un progetto di archeologia sonora, dunque, per restituire a una fruizione pubblica tesori nascosti dell’espressività popolare, magari ancorata a qualche forma esemplare da assumere come norma?
Tutt’altro… Piccole o grandi variazioni, sia pure all’interno di matrici riconosciute e condivise, sono parti costitutive di una cultura musicale che si estrinsecava per lo più nell’atto performativo, ovviamente diverso di volta in volta, e nell’abbraccio di una comunità, come era del resto per ogni cultura orale. Impossibile dunque assumere una qualche performance, fissata su nastro o su pellicola, come l’espressione di una norma assoluta. Più semplicemente, volevamo documentare, più di quanto non sia accaduto in passato, l’esistenza di una cultura musicale “altra” rispetto a quella colta, con propri codici espressivi e specifici repertori e modalità esecutive.
Ciò non toglie che ci si possa misurare con le forme che oggi ha assunto quella tradizione e anche con le rivisitazioni di quei repertori.
L’esempio più emblematico di quanto possa essere feconda questa disposizione è dato da un’altra nostra collana, I giorni cantati, del Circolo Gianni Bosio che, fin dalla sua fondazione, con Alessandro Portelli ha agitato l’idea che la “tradizione” non sia un reperto museale ma una forma espressiva viva e, dunque, soggetta a continue modifiche: trasformazioni “interne” alla stessa cultura popolare che si rivela capace di adattarsi a contesti diversi e di modificare di conseguenza le proprie forme espressive. Una prospettiva di grande interesse che, da parte nostra, riteniamo necessario integrare con le trasformazioni “esterne” alla cultura popolare, quelle che subisce con l’influenza di altri mondi ed ambiti espressivi: prospettiva peraltro maggiormente rispondente alla situazione attuale, dove non si dà più una “classe” sociale coesa e raccolta attorno a una specifica eredità culturale, se mai sia esistita davvero nel passato.
Qualche esempio?
Uno su tutti, Otello Profazio, negli anni e in certi ambienti additato al pubblico ludibrio per aver corrotto il tesoro incontaminato delle tradizioni musicali, che come tale sopravviveva solo nei desideri di qualche ricercatore. In realtà fin dai suoi esordi Otello è stato impegnato in una singolare operazione di trasposizione: offrire a un pubblico prevalentemente urbano gemme della cultura popolare “traducendole” nei termini di una sensibilità del tutto diversa da quella originaria. Inevitabile che, in questa direzione, si adulterasse quel dato culturale al quale però, allo stesso tempo, veniva garantita un’altra vita altrimenti impossibile, con spazi anche considerevoli all’interno dell’industria culturale. Dando vita a sorprendenti processi di innesto, Profazio è così diventato, suo malgrado, “fonte” di una tradizione nota a molti soltanto attraverso i suoi dischi. Ed è questo un dato di fatto che, certo, si può anche deprecare, lamentando la corruzione dei tempi e degli uomini, ma che forse è più utile cercare di comprendere. Tutto si muove, anche la tradizione...
E suppongo che sia stato proprio Profazio ad accompagnarvi verso la canzone d’autore dato il suo porsi come al confine tra due mondi.
Con Profazio, in realtà, eravamo già fuori dalla tradizione dato che la sua opera è segnata dall’inventiva dell’autore, anche quando rielabora temi e motivi della tradizione, per quanto sia capace di farsi magnifico interprete di istanze ed aneliti di una comunità regionale come la Calabria. Una conferma, per molti versi inattesa, al riguardo ci è arrivata da Peppe Voltarelli: un artista senza alcuna relazione con le tradizioni popolari e con alle spalle esperienze di tutt’altro genere, dal punk al rock, matura l’esigenza di riannodare i legami con la propria terra - è calabrese anche lui - e pensa di farlo misurandosi per l’appunto con il repertorio di Profazio, al quale dedica un omaggio molto riuscito. Era il 2016 e certo non potevamo immaginare cosa sarebbe seguito alla pubblicazione di quel CD-book.
Si riferisce alla Targa Tenco come miglior interprete vinta dal CD Voltarelli canta Profazio?
Sì, ma anche al Premio Tenco alla carriera che, in quello stesso anno, il Club Tenco assegna a Profazio: un premio che abbiamo sentito in parte anche nostro dato che a Profazio avevamo dedicato 3 libri e 5 CD, insistendo per l’appunto sul carattere “autoriale” della sua opera. Un duplice riconoscimento che ci convinse ad allargare, per così dire, la casa madre, riservando qualche stanza alla canzone d’autore. Il CD di Voltarelli inaugurava così la collana Crinali, dedicata a una “certa” canzone d’autore, quella che guarda senza nostalgia a un retroterra popolare, e ad alcune rivisitazioni della tradizione che si muovono più liberamente rispetto ad alcuni vincoli filologici. In ogni caso non potevamo immaginare una crescita tanto veloce della collana né, ancor meno, il largo consenso che avrebbe incontrato.
In quattro anni 23 uscite, in alcuni casi con doppio supporto audio o audiovisivo, sei Targhe Tenco e altre cinque nomination nelle cinquine del Tenco: sono queste le cifre riassuntive della collana che, come indicato dal nome stesso, si pone ancora una volta in una zona di confine, guardando a cosa si agita sui due versanti di quel crinale. Qualche titolo che più di altri indica l’orientamento e il senso della collana?
Tutti i CD-book si pongono sotto quel “crinale” e ognuno di essi apporta qualche particolare alla definizione della collana. Ne cito qualcuno, dunque, ma solo a mo’ di esempio. Canti, ballate e ipocondrie per il suo approccio alla tradizione, trasfigurata in direzioni insospettabili grazie all’inventiva poetico-musicale di Canio Loguercio e alla sovversione di ogni rigida grammatica di genere dall’organetto di Alessandro D’Alessandro; il lascito della tradizione che irrompe nella produzione di cantautori come Massimo Donno, che guarda alla cultura bandistica della sua terra d’origine, o di Marco Rovelli, che rivolge un appassionato omaggio all’espressione più alta del folk revival toscano, Caterina Bueno. Ancora, il recupero di pagine significative della canzone d’autore, non solo italiana, con il Bulat Okudzava di Alessio Lega, il tributo che Peppe Fonte ha levato alla sua stessa educazione sentimentale, rivisitando le canzoni scritte da Piero Ciampi e Pino Pavone, o, ancora, la drammaturgia sonora della propria adolescenza che un grande del teatro come Enzo Moscato ha magnificamente allestito in Modo minore con la complicità di Pasquale Scialò.
E nel solco di una meritoria azione di recupero di opere e repertori a torto dimenticati si pone anche il doppio CD Io credevo. Le canzoni di Gianni Siviero che avete realizzato chiamando a raccolta 39 artisti, da Roberto Vecchioni a Sergio Cammariere, da Gigliola Cinquetti a Petra Magoni: un’operazione di grande respiro culturale, oltre che di grande godibilità sul piano musicale, che quest’anno ha vinto la Targa Tenco come miglior album a progetto.
È un’idea di Sergio Secondiano Sacchi, il direttore artistico del Club Tenco, che ha inteso in questo modo riparare a un’ingiustizia della sorte, vale a dire riscattare da un immeritato oblio un autore e un repertorio di grande originalità e importanza, e allo stesso tempo rendere omaggio alla storia stessa del Club Tenco e del suo fondatore in particolare, Amilcare Rambaldi, che aveva molto a cuore l’opera di Gianni Siviero, non a caso presente alle prime tre edizioni della Rassegna sulla canzone d’autore che, dal 1974, si tiene a Sanremo. Ed è per una felice coincidenza, dal grande valore simbolico, che la Targa quest’anno sia stata assegnata ex-aequo all’omaggio che altri artisti hanno reso a Francesco Guccini, anche lui molto caro a Rambaldi e anche lui, non a caso, presente alle prime tre edizioni della rassegna sanremese: due cantautori molto rappresentativi dello spirito originario del Tenco, ma con alle spalle percorsi di vita e di arte molto differenziati, si ritrovano oggi, ottantenni, accomunati da un riconoscimento che, in casa Rambaldi, viene comunque deciso da una Giuria di oltre trecento critici e giornalisti musicali in assoluta autonomia, secondo quanto il cuore e la testa suggerisce ad ognuno di loro.
La stessa Giuria, completamente indipendente dalla direzione del Club Tenco, che ha appena assegnato la palma di miglior album in dialetto alla Nuova Compagnia di Canto Popolare con Napoli 1534. Tra moresche e villanelle.
Una Targa che, a differenza di quella assegnata al progetto su Siviero, in qualche modo ci aspettavamo, ovviamente confidando nella capacità di giudizio della Giuria. Napoli 1534 è un progetto ambizioso, fondato su una ricerca di oltre cinquant’anni e fortemente voluto dal direttore artistico della NCCP, Corrado Sfogli, che intendeva in questo modo ritornare alle origini, dove tutto era cominciato, rinnovando la lezione di padri e maestri, in primo luogo quella di Roberto De Simone: evitare le insidie di ogni ricalco, peraltro impossibile, per procedere alla rielaborazione di antichi materiali senza alcuna ansia filologica. Purtroppo questo disco, salutato da più parti come un “capolavoro”, si è rivelato essere anche il testamento spirituale di Corrado, venuto a mancare pochi mesi dopo la pubblicazione di Napoli 1534.
Fortunata con la canzone d’autore, la collana Crinali non manca di riscuotere consensi su altri fronti visto il primo posto e i tre podi conquistati al Premio Loano per la musica tradizionale.
Riconoscimenti che sono stati di grande conforto per quanto riguarda la posizione “bifronte” della collana che guarda a due mondi che dovrebbero dialogare più di quanto non sia successo negli ultimi tempi: Voltarelli e Loguercio & D’Alessandro, premiati nel 2016 e nel 2017 con la Targa Tenco, negli stessi anni si piazzano al secondo posto al Premio Loano, mentre nel 2019 il podio lo conquista Mauro Palmas con una proposta che attesta superbamente le capacità “narrative” della musica che, in quanto tali, forse anche il Tenco dovrebbe prendere in considerazione senza confinare “racconti” così suggestivi nel recinto della musica strumentale.
E quest’anno, infine, anche il Premio Loano come miglior disco assegnato a Donna, voja e fronna di Lucilla Galeazzi e UmbriaEnsemble.
Senza nulla togliere a tutti gli altri, è forse quello che meglio esprime il senso più profondo del nostro agire. All’origine di tutto c’è un nostro autore, etnomusicologo della prima ora, già in rapporti con Diego Carpitella e Roberto Leydi oltre che collaboratore di Tullio Seppilli all’università di Perugia: ed è proprio lui, Piero Arcangeli, a curare per noi, assieme a Valentino Paparelli, l’edizione critica delle registrazioni che in Umbria nel 1956 Seppilli realizza assieme a Carpitella. Arcangeli è anche un raffinato compositore, formatosi alla scuola “ideale” di maestri come Bela Bàrtok e di compositori come Berio, Nono, Maderna e John Cage, con all’attivo numerose opere segnate sempre dal traslitterare dell’ispirazione da un ambito all’altro, in un’inesausta negazione di confini, che è anche la cifra distintiva di questo suo nuovo progetto: la rivisitazione delle registrazioni sul campo di Carpitella e Seppilli per far dialogare le musiche della tradizione contadina centro-appenninica con i suoni e le modalità esecutive di un ensemble di formazione classica. E sullo sfondo, ma in ogni piega del progetto, una scommessa che sentiamo fortemente nostra: quella della tradizione che è musica del nostro tempo, quando torniamo ad amarla, rivelandosi una “fascinosa quanto utopica immagine di quel che siamo e proviamo a diventare”.
Nel corso di questa nostra conversazione è emersa di continuo la necessità di andare oltre le definizioni di genere, l’opportunità di diluire confini e superare steccati. Che ne pensa delle ultime dichiarazioni del Tenco che, nell’annunciare la rassegna di quest’anno, ha rimandato a “una canzone senza aggettivi”, ritenendo che “certe etichettature e denominazioni di origine incontrollata hanno perso ogni ragione di sopravvivenza”?
In quel comunicato ci sono due rimandi che avrebbero dovuto evidenziare il senso di liberazione e l’ansia di aprirsi al mondo che si accompagnano spesso a prese di posizione del genere. Mi riferisco, in particolare, a Leydi e a Berio. Il primo, giovanissimo direttore nonché unico redattore di una rivista jazz nella Milano del secondo dopoguerra, enuclea il concetto di “musica senza aggettivi”, in contrapposizione alle asfissianti chiusure e alle rigide gerarchie di generi subiti sotto il regime, e il secondo, anni dopo, riprende quello stesso concetto contro le non meno asfissianti chiusure del realismo socialista: nell’uno e nell’altro caso con l’intenzione, ampiamente condivisa dai due, di assecondare la propria onnivora curiosità musicale che non faceva distinzioni tra jazz, rock, opera, elettronica o una canzone non ancora “d’autore”, ritenendo che la musica dovesse giudicarsi soltanto come bella o brutta a prescindere dal genere di appartenenza o dalla poetica di derivazione. Andare verso una “canzone senza aggettivi”, dunque, non significa negare le differenze anche rilevanti che si danno tra i generi musicali o all’interno della stessa forma “canzone” né, tanto meno, rinunciare a un concetto, quello di canzone d’autore, entrato nell’uso corrente proprio grazie all’attività pluridecennale dello stesso Club Tenco: significa solo prendere atto dei mutamenti nel frattempo sopraggiunti e andare oltre le chiusure di alcune pretese ortodossie, e dalle stanche liturgie e correlati riti di esclusione che ne cadenzano la celebrazione, per guardare finalmente il mondo, anche quello della canzone, senza occhiali deformanti.
Si ritrova dunque in piena sintonia con l’attuale direzione del Club Tenco?
Una sintonia implicita nel varo di una collana, I libri del Club Tenco ma che, vorrei precisare, è con la storia del Club Tenco e non solo con l’attuale direzione che mi pare continui a fare quello che ha sempre fatto il Club, a dispetto di speciose ricostruzioni che tendono a mistificare la realtà dei fatti e a vanificare il senso stesso di un lavoro che è sempre stato il lavoro di un collettivo. Invece circolano ricostruzioni di parte che, nell’agitare il motivo romantico di un eroe solitario in rotta di collisione con tutti gli altri, ovviamente traditori e spergiuri, tendono a giustificare l’adozione di un più deleterio “muoia Sansone con tutti i Filistei”. Un atteggiamento ingeneroso nei confronti di quella storia e di quanto ognuno ha dato ad essa e del tutto devastante riguardo alla situazione attuale in cui la musica, in tutte le sue varie declinazioni, non è più percepita come una componente fondamentale della cultura nazionale: e basti pensare allo spazio che ha sulla stampa generalista o su radio e televisione una critica musicale che non voglia ridursi a megafono di qualche ufficio stampa. Per non parlare poi degli aspetti economici e di una filiera sempre più improduttiva al punto che, oggi, l’unica maniera per guadagnare qualcosa con i dischi è quella di non farne dischi...
Intravede qualche soluzione all’orizzonte o motivo di ottimismo?
Di sicuro bisognerebbe provare a fare fronte comune, evitando di impegnarsi in battaglie di retroguardia per rifugiarsi in qualche confortevole ridotta dove protrarre ad libitum procedure e contrapposizioni funzionali solo al mantenimento di alcuni ruoli. Meglio allora una navigazione in mare aperto e con le vele al vento, pronti a mettersi in discussione e a rinunciare a categorie e tavole di giudizio un po’ ammaccate, se non del tutto obsolete. Fuor di metafora: se vediamo artisti passare dalla Rassegna sulla canzone d’autore al Festival di Sanremo, e viceversa, non significa che l’una si sia asservita all’altro ma, semmai, che la battaglia per una canzone di qualità, intrapresa cinquant’anni orsono da Rambaldi e i suoi collaboratori, ha dato qualche frutto. Allo stesso modo converrà forse porsi in ascolto di un Achille Lauro senza pregiudizi, senza cioè avere la pretesa di dargli preventivamente la patente d’autore o un marchio d’infamia. Malgrado l’interpretazione non proprio memorabile che ha dato di un brano di Luigi Tenco, potremmo così accorgerci che è capace di “canzoni belle” come molti esponenti di una sedicente “canzone d’autore” non sono più in grado neanche di immaginare.