La dualità è la cifra narrativa che per secoli ha segnato la rappresentazione delle donne. Se fossero sante oppure streghe: solo questo sembrava importare al mondo. Ma coloro che con lo stigma di “streghe” hanno subito processi, supplizi e condanne, erano in prevalenza donne che custodivano i saperi medici ed erboristici: quegli stessi che, quasi inalterati, monache e badesse tramandavano fra le mura protette dei monasteri, con la sola accortezza di convertire l’incantesimo in miracolo. Le piante e le erbe officinali, grandi protagoniste delle tradizioni perpetuate oralmente per via matrilineare, passavano nelle mani sapienti delle une e delle altre, e finivano anch’esse per venire trascinate in quella stessa logica del bene e del male, della reputazione diabolica o salvifica.
Nella prassi empirica si concretizzava uno scambio costante e ininterrotto fra magico e religioso. In fondo la curatrice popolare, esattamente come la monaca, era imbevuta di cultura cristiana, dalla quale aveva assorbito liturgie, simboli, preghiere, superstizioni. A sua volta la monaca, prima di consacrarsi, era cresciuta in un ambiente famigliare nel quale le competenze femminili erano ampiamente condivise, dove il viavai di levatrici ed empiriche era parte della vita domestica e i farmaci si producevano autonomamente seguendo ricette comprovate da usi atavici. Non stupisce, quindi, constatare come fuori e dentro le mura del monastero la strega e la santa condividessero consuetudini e gesti taumaturgici. E come anche le erbe potessero acquisire fama di sante o stregone.
Di fatto, una disamina delle fonti conferma che rimedi, unguenti, sciroppi e decotti prevedevano l’utilizzo delle medesime piante e il ricorso agli stessi procedimenti. Ed ecco allora che, nel Cinquecento, l’“olio fiorito” della fattucchiera Bellezza Orsini, un portentoso elisir che la curatrice preparava raccogliendo “tucti li fiori che ingenera la natura”, non appare così diverso dal celebre “olio di sugo di erbe” utilizzato circa un secolo prima da santa Francesca Romana, al quale si attribuivano molte delle sue guarigioni miracolose: un unguento a base di ruta, timo e maggiorana, piante radicatissime nella farmacopea femminile, già presenti nelle fonti classiche e addirittura nelle mitologie preelleniche.
La sacralità attribuita in epoca pagana alle singole piante venne riproposta nell’immaginario cristiano. Potremmo parlare di un vero e proprio processo di “cristianizzazione” di certe erbe medicinali, le cui mitologie furono sottoposte a un procedimento di “revisione narrativa”. Le piante che il mito riteneva essere state scoperte da eroi o divinità vennero inglobate nelle leggende dei santi, la loro valenza terapeutica ricondotta a episodi della storia della sacra famiglia, della vita della Vergine o di Gesù, e le virtù benefiche ricondotte al nuovo ordine simbolico. Alcune, per poter essere utilizzate, necessitavano di un rito molto simile a un esorcismo. Solo una volta “santificate” esse potevano considerarsi depurate dai residui di paganesimo per trasformarsi in ausili salutari. È il caso della mandragora, che si riteneva fosse posseduta da influssi demoniaci. Per purificare questa pianta Ildegarda di Bingen, la celebre badessa e mistica renana vissuta nel XII secolo, suggeriva un metodo certo:
Quando la si strappa dal suolo, si deve metterla subito in una fonte per un giorno e una notte: in questo modo tutto il male e l’umore cattivo che contiene vengono evacuati, al punto che essa non ha più alcuna virtù magica né fantastica. Ma se, quando la si sradica, la si lascia semplicemente con la terra che vi è attaccata, senza purificarla in una fonte, in tal caso resta pericolosa in quanto favorisce incantesimi e visioni allo stesso modo in cui, talvolta, molte cose cattive sono state realizzate con gli idoli.
(Physica, I, 56)
Da questo rito di purificazione “per aquam”, accompagnato da una preghiera propiziatoria, la mandragora riemergeva per così dire “battezzata”, trasformata dunque in farmaco. Liturgie di questo tipo permettevano di dare continuità ad antichissime consuetudini che riconoscevano in certi elementi vegetali risorse ricche di virtù divina. Nella farmacopea ildegardiana il valore simbolico di una pianta, se da un lato rientrava in una tradizione atavica rivisitata in prospettiva provvidenziale e cristiana, rispondeva tuttavia anche a una precisa esigenza di santificazione del magico. La betonica, per esempio, già sacra per i greci, si diceva utile per sciogliere gli incantesimi e le fatture d’amore, oppure per guarire dalla follia della passione amorosa. Si tratta di una delle erbe su cui “l’inganno del diavolo stende talvolta la propria ombra”: ma questa sorta di possessione maligna poteva essere aggirata scegliendo solo quelle foglie che non fossero ancora state “irretite dagli incantesimi”, ovvero non fossero mai state utilizzate per scopi terapeutici. Si collocava allora una foglia in entrambe le narici, una sotto la lingua, una in ciascuna mano, una sotto ciascun piede, e si fissava infine la betonica con sguardo intenso, fino a quando le foglie non si fossero riscaldate a contatto col corpo. Riverbera in queste ritualità l’eco di una sacralità senza tempo, che chiama a raccolta le molte suggestioni di secoli di tradizione magico terapeutica, trovando una nuova consacrazione.