Esponente della figurazione pittorica contemporanea, Letizia Fornasieri anima le sale dell’Acquario Civico di Milano con le sue tele ispirate alla Natura intesa come regno degli esseri viventi, vegetali e animali.
È un’esplosione di luci, modulazioni e tagli di colore, veri e propri ritratti green, di misure diverse, dai piccoli formati, dipinti di fiori che crescono nei campi alle porte di Milano, ai pesci rossi delle vasche dei giardini intorno all’Acquario fino alle grandi tele dove campeggiano sentieri d’acqua tracciati attraverso un verde scintillante, rogge padane e giardini in fiore.
Milanese, nata nel 1955, l’artista inizia presto il suo percorso artistico e da subito riconosce il suo interesse per la pittura a olio. Con una passione autentica e un acuto e preciso senso di osservazione dedica la sua attenzione prima ai fiori e, dopo l’Accademia di Brera allarga i suoi orizzonti intorno alla stanza dove vive, ai tram milanesi, alle strade.
Vince nel 1981 il Premio San Fedele per le arti visive e, negli anni a seguire, si mantiene fedele alle sue tematiche e al suo stile figurativo che nel tempo si stempera nell’informale.
Con la partecipazione a rassegne personali e collettive conquista il collezionismo.
La mostra in corso fino al 20 settembre, a cura di Marina Mojana, è un inno alla bellezza ricercata nelle cose semplici del quotidiano.
“Le cose della vita hanno una ragione. L’artista cerca questa ragione, come può e come sa, la dice, la offre” dice l’artista. E, mettendo l’accento sul significato di Confluenze spiega: “I fiori sono la mia vera natura. In questi ultimi anni mi sono avvicinata al paesaggio, ho cercato di fare la distanza, di allontanare la mia visione, perché prima dipingevo elementi anche urbani ma sempre in primo piano. Con l’introduzione del paesaggio nel mio dipingere, vedo gli elementi o i fiori come, per esempio, le ninfee, molto più distanti. Nella mostra all’Acquario, oltre ai pesci che ho osservato nella vasca qui davanti e non avevo mai dipinto prima, ho spinto il mio sguardo sui germani reali che ci sono fuori dall’acquario e poi sulle oche nei dintorni della campagna di Rivolta d’Adda. Ho scoperto il mondo della campagna, dalle rogge, un sistema di irrigazione che vige da secoli, alle aziende agricole che allevano mucche da latte, oche e galline”.
Perché ha scelto lo stile figurativo come espressione della sua arte?
Non ho mai abbandonato il mio stile. Anche controcorrente. Quando ho scelto di entrare in Accademia dipingevo già da prima per conto mio - mio padre mi aveva regalato i colori a olio - ho iniziato da sola mischiando i colori ad olio e preparando le tele e già lì ero di carattere un po’ controcorrente. Era l’epoca del concettuale, delle performance, tutte le nuove espressività che sbocciavano negli anni Settanta-Ottanta. Io ho sempre mantenuto il mio stile. Ho guardato ai nostri grandi artisti, a Paul Cézanne, a Vincent van Gogh, a Gustave Courbet, a Jackson Pollock, a Yves Klein, a Pierre Bonnard e all’Espressionismo tedesco. Mi sono formata con questo tipo di linguaggio. E, a un certo punto, mi sono domandata se la mia pittura era ancora contemporanea, ma Claude Monet fino al 1926 (anno della sua morte) è andato avanti imperterrito, seguendo la sua arte. Così ho continuato con questo tipo di linguaggio.
E l’incontro con il gallerista James Rubin nel 2000?
Con lui ho cambiato i toni e allargato le tematiche. Ho capito che Rubin voleva bene al mio lavoro, l’ha protetto e questo non è scontato e l’ha fatto crescere. Il lavorare con una galleria ha implicato una velocizzazione del lavoro per partecipare alle fiere. Prima avevo tutto il mio tempo, ma abbiamo fatto un percorso insieme che dura da vent’anni.
E dalla collaborazione intensa con il gallerista, nelle fiere e nelle esposizioni è nato l’interesse dei collezionisti italiani ed europei per la sua arte vibrante di una profonda gioia per tutto ciò che esiste.