Manuela Ulivi è un’avvocata civilista, esperta in diritto di famiglia e dei minori. Da trent’anni svolge attività di volontariato all’interno della Casa di Accoglienza delle donne maltrattate di Milano, CADMI, di cui è socia fondatrice e dal 2011 presidente. In questo lungo percorso ha conosciuto centinaia di storie di violenza familiare, seguendo molte donne nei loro percorsi giudiziari.
Segue da anni la rete delle avvocate dei Centri Antiviolenza di tutta Italia, esperienza che l’ha portata a confrontarsi con la magistratura e a tenere molte conferenze e dibattiti sul tema.
Ha raccolto molte di queste esperienze nel libro Vive e libere, pubblicato da San Paolo nel mese di settembre 2019.
Sono sempre stata attenta alla differenza di essere nata donna anziché uomo. Ho colto da subito il fatto che non era tutto concesso alle femmine rispetto ai maschi. Ho sognato di poter fare tutto ciò che mi pareva e Milano è stata la città che ha dato le risposte più concrete alla mia voglia di essere libera di fare. Il sogno era di cambiare il mondo, poi ho capito che potevo farlo nella pratica quotidiana aiutando singoli soggetti nei loro problemi materiali. Diventare avvocata mi ha fornito gli strumenti concreti per questo. Ho subito dedicato il mio impegno al diritto del lavoro e a quello agrario, sempre a fianco dei più deboli nel rapporto sociale tra “padrone” e dipendente. Poi è arrivato l’interesse per il diritto di famiglia e dei minori, anche qui una sfida tra assoggettamento e libertà.
La gioia è stata vincere questa sfida, la delusione è dove ho fallito. Ma le delusioni sono utili per reagire e mettere in moto energie ulteriori di cambiamento.
Come è scaturita il lei l’idea del Centro Antiviolenza per le Donne Maltrattate e della Casa delle Donne Maltrattate di cui è presidente?
L’idea iniziale non è stata mia ma di Marisa, Tiziana e Ileana, tre donne che ho incontrato sulla mia strada di attivista contro la guerra in Iraq e che mi hanno parlato della guerra all’interno delle relazioni di coppia e familiari che loro avevano appena iniziato ad affrontare. Sono entrata nell’associazione l’anno della sua fondazione, ma il progetto era già in atto. Nel 1990 nessuno parlava di violenza contro le donne come fenomeno sociale e di grandi dimensioni. L’idea era quella di raggiunta parità tra uomini e donne. Il femminismo aveva modificato molti contesti di vita delle donne, ma rimaneva ancora molto lavoro per poter affermare che si era davvero libere di vivere come volevamo.
Oltre a quella fisica, esistono altre forme più subdole di abuso, più difficilmente appurabili.
Ci sono forme di violenza subdola che feriscono anche più della violenza fisica: le parole offensive, lo svilimento, il mettere in dubbio le capacità della compagna, la richiesta di non lavorare, di non frequentare gli amici di sempre o i colleghi. Mantenere uno sguardo giudicante sulla donna da parte dell’uomo che pensa di essere in diritto di dirle quello che deve fare e come lo deve fare. Questo nasce spesso da una posizione di dominio che l’uomo introietta fin da piccolo come un suo diritto di genere.
Le donne finiscono per accettare tutte le scelte del partner su dove abitare, quali acquisti fare, se e quando andare fuori o in vacanza, come investire i propri risparmi, ecc. Fino a quando le donne sottostanno a questi condizionamenti la violenza rimane sotto traccia, una tensione costante che è già violenza, psicologica o economica, per lo più non identificata come tale. In questo periodo l’uomo violento può esplodere in ire furibonde, mentre continua a mandare alla donna messaggi di disistima, anche alla presenza di terzi, la mette in cattiva luce, sottolineando pretese sue incapacità, sbagli o altre negatività che lui manipola e ingigantisce; ad esempio, non sai far da mangiare, i bambini li seguo meglio io, ti sbagli sempre, non sai dire le cose bene, in un’unica definizione: sei un'incapace.
Cosa fa scattare la violenza intrafamiliare?
Qualsiasi pretesto può far scattare la violenza fisica, sempre pronta a emergere in tante occasioni, in tempi sempre più ravvicinati, un’escalation, soprattutto se le donne cominciano a far capire o dicono apertamente che non vogliono più accettare certe imposizioni. Iniziano a dire NO. Rispondono alle offese, le respingono, replicano, si difendono, si oppongono a seguire scelte imposte sempre da lui. Questo è il momento più pericoloso della relazione con un violento. Egli può rimanere sconcertato, poi cerca di recuperare la sua posizione di dominio, facendo finta di essere dispiaciuto, di voler cambiare, di tenere in conto il pensiero della compagna. Spesso la sottopone a estenuanti discussioni, soprattutto notturne, la tampina mentre lavora, facendole appostamenti o creando altre situazioni di intralcio nella sua vita ordinaria. Non demorde per tenerla a bada.
La violenza all’epoca del Coronavirus.
Il Coronavirus ha amplificato tutte le situazioni che ho appena esposto e ha messo più velocemente in crisi rapporti che da tempo erano segnati dalla violenza. Alcune donne hanno dovuto fare ricorso ad interventi in emergenza, poche hanno risposto alle indicazioni nazionali di rivolgersi al 1522 o al farmacista più vicino. Le donne più spesso si affidano al consiglio di un’amica o collega, persone che sentono solidali e che paiono in grado di essere forti e punto di riferimento.
Tra queste persone ci siamo anche noi donne dei Centri Antiviolenza. Le donne lo sanno, soprattutto quando hanno conosciuto altre donne che sono state in contatto con noi. Sanno che rispettiamo la loro riservatezza, l’anonimato, la segretezza del racconto della loro storia. Questo fa la differenza rispetto a contesti più istituzionali, quali i Servizi sociali, la Polizia, i centri pubblici che si occupano di violenza presso strutture ospedaliere. Ascoltiamo la storia che la donna ci porta, confrontandoci sui suoi desideri, valutando insieme le risorse per poterli realizzare.
Quali difficoltà da parte delle donne nel raccontare le violenze subite?
Raccontare le violenze subite vuol dire cominciare a metterle in chiaro nella propria mente, visualizzarle e quindi riviverle. Farlo comporta dolore, a cui si uniscono la vergogna per il timore del giudizio e la paura che lo svelamento ad altri possa mettere in atto conseguenze automatiche che non si possono più fermare. Questo da noi non succede. Tutte le iniziative sono prese in condivisione con la donna nel rispetto delle sue volontà.
Uno dei momenti più difficili per la donna è quello dell’interruzione della convivenza.
Esatto, ed è per questo che le donne non devono essere lasciate sole dopo avere fatto una denuncia o una domanda di separazione. Questo è il momento in cui nascono nella mente delle donne molti dubbi sulla loro scelta di avere interrotto il rapporto con l’uomo violento. Noi ritelefoniamo alla donna, la vediamo ancora, la accompagniamo, se lo chiede, nei momenti più salienti. Siamo al suo fianco, come potrebbe essere una persona amica, per non farla sentire sola o in balia della reazione del violento.
Quale legame rende così complesso il potersi separare?
La violenza è un sistema di dominio che avvolge la donna come una ragnatela, da cui è molto difficile districarsi. Innanzi tutto, il violento colonizza i pensieri, attraverso il continuo lavoro fatto in precedenza convincendo la donna di essere più forte, furbo e capace rispetto a lei. L’uomo riesce a far credere di sapere tutto e di essere in grado di manipolare ogni cosa, fino al punto di poter far apparire lei come la persona violenta della coppia, quella che ha sbagliato, quella a cui toglieranno i figli, quella a cui non crederà nessuno. Tutti questi dubbi e paure rimangono presenti per molto tempo nella mente delle donne, che appena sentono da un poliziotto, giudice, assistente sociale frasi simili a quelle del violento pensano subito che aveva ragione lui: nessuno le crederà. Dare ascolto e credito alle donne in queste condizioni rende meno doloroso separarsi da una persona che hai amato, con cui hai condiviso momenti di intimità, con cui magari hai anche scelto di avere dei figli.
Ecco, allora, il vostro intervento e le “Case segrete”.
Il nostro intervento comincia dalla prima telefonata, poi nel colloquio di persona (che non è mancato neppure in questa fase difficile per i contatti, causa Coronavirus), non sempre finisce nell’ospitalità in Case segrete. Questa scelta arriva quando non vi sono alternative e la donna vive un pericolo concreto, verifica che facciamo fin dal primo contatto.
E pensando agli uomini violenti, esistono aiuti possibili per contenere le loro distruttività?
Su questo sono particolarmente pessimista. Ho visto tanti uomini perseverare nei loro comportamenti dopo avere dichiarato che si erano pentiti di quanto accaduto. Ci sono molti altri che neppure affermano di avere sbagliato, anzi pensano di avere subito loro un’ingiustizia! Con questi uomini proprio non ci sono spazi per un intervento, con quelli che fanno finta di avere avuto un pentimento, per opportunità, non so cosa si possa fare. Chiedo solo che a fare qualsiasi tipo di intervento con i maltrattanti siano gli stessi uomini, che non divenga anche questo un contesto di “cura” dove le donne rischiano di assumere ancora un ruolo di accudimento verso il genere maschile. Se saranno gli uomini a intervenire per seguire questi uomini, sarà interessante poi confrontarsi sulla radice sociale del problema e sulla possibilità di coordinare interventi di prevenzione, parlando con i giovani sui loro rapporti di relazione.
Il mancato riconoscimento del nuovo ruolo della donna nella società può essere uno dei motivi scatenanti della violenza maschile?
La libertà delle donne è uno dei fattori scatenanti di molte violenze. La possibilità che le donne abbiano un ruolo di rilievo nella società che dia loro prestigio e attività lavorative più gratificanti, dal punto di vista personale ed economico, ad alcuni uomini crea disagio. Non è facile per molti uomini accettare l’idea che la propria compagna li mantenga, o comunque abbia la possibilità di utilizzare le risorse familiari come ritiene avendo parità di forza nelle scelte da farsi. Tutto ciò che per un uomo è stato normale per secoli, diventa anormale se a farlo è una donna.
E a livello di educazione, prevenzione e cura, cosa fare?
Le bambine e i bambini si possono educare al rispetto reciproco e alla possibilità di sviluppare le loro abilità, seguendo le aspirazioni personali senza limiti dati dall’appartenenza ad un sesso o ad un altro. Questo messaggio dovrebbe provenire dalla famiglia, come dalla scuola e dai diversi contesti in cui si forma l’individuo. Non si può più sentire la frase che questo o quello non lo devi fare perché sei un maschio o sei una femmina. Ciascun soggetto deve poter seguire i propri desideri, come mi è capitato di fare nella mia vita grazie a due genitori che non mi hanno posto condizionamenti in quanto donna.
Cosa si cela dietro lo stereotipo della donna milanese, emancipata e libera?
Rispondo partendo da me. Sono sempre uscita, la sera e da sola, fin da adolescente, ho frequentato i luoghi che mi piacevano, ho costruito la mia identità in rapporto ai miei interessi. L’unica cosa che non ho fatto è stata quella di iscrivermi alla Facoltà di Storia, materia che mi è sempre particolarmente piaciuta, anziché a quella di Giurisprudenza, dove mi sono laureata, perché non volevo essere un insegnante. Mi pareva un mestiere troppo stereotipato al femminile!
La storia di Milano annovera grandi figure femminili: quali dei loro contributi sono ancora di attualità?
L’indipendenza è un aspetto molto importante che questa città ti consente di coltivare. Sento di non avere avuto particolari ostacoli da affrontare per costruire la mia professione, costituire uno studio legale mio, far crescere con me altre donne per avviarle all’attività di avvocata (almeno una decina si sono avviate alla professione con me, e tante altre mi hanno chiesto consigli).
Certamente le risorse economiche danno concretezza e questo fa la differenza. Non è un caso che molti giovani, ancora oggi, si trasferiscano qui da altre regioni d’Italia per studiare e per costruirsi una carriera, soprattutto donne.
Milano è una città amica delle donne?
Milano è una città che consente di realizzare progetti personali e in questo può essere amica delle donne quando fornisce risorse e spazi per trasformare i loro pensieri in azioni. Parlando con un’amica serba che mi chiedeva un pensiero su questa città ho detto proprio questo: questa è la città che ho sempre pensato mi abbia permesso di fare diventare realtà ciò che volevo realizzare. La condizione è quella di trovare altre persone con cui condividere il tuo progetto.
Così è stato per la Casa di Accoglienza delle Donne Maltrattate, che dal 1992 ha sottoscritto la prima convenzione con il Comune di Milano per sostenere i costi di ospitalità delle donne uscite dalla violenza. Sarà da verificare con il bilancio di genere se le risorse del Comune di Milano vengono destinate in modo coerente ed equilibrato alle cittadine come ai cittadini che vivono in questa città.