Affrontare e indagare il territorio, sviluppare campagne fotografiche che ne circoscrivono le forme e i segni è la cifra, il codice con cui in questi ultimi decenni si sono sviluppate pratiche visive non solo del carattere sociologico e dell’analisi della struttura urbana ma, soprattutto, il motivo per scoprire il senso dei cambiamenti, delle trasformazioni in atto o, più semplicemente, per cercare di fornire un’adeguata rappresentazione della realtà in cui codificare il carattere dei luoghi e delle comunità che vi abitano.
Ed un originale, singolare interprete di questa linea è l’artista Guido Guidi, che, nel corso della sua carriera professionale ha scandagliato luoghi e territori attraverso progettualità organiche, con un occhio acuto volto alla percezione dei luoghi e dei territori.
E Guidi il 27 giugno è stato insignito del Premio Hemingway 2020 per la fotografia, in particolare per il volume In Sardegna 1974 – 2011, un’opera di intensa letteratura fotografica nella quale risalta l’ideologia culturale dell’autore, teso a rappresentare l’identità sociologica e antropologica di un territorio - la Sardegna - superando la convenzionale iconografia spettacolare e turistica, registrando immagini di suggestiva valenza metaforica e poetica, con un mezzo espressivo, la fotografia, emblematico della modernità, oltre che “specchio con la memoria”.
Nei suoi reportage Guidi – nato a Cesena nel 1941 - ci conduce verso territori spesso inesplorati, luoghi assenti o, meglio, dove il concetto di assenza diventa rilevante circa la presenza umana, il cui significato e visibilità sono resi da rinvii e rimandi ad altri segni ancora, indici di un corpo fotografico che racconta “cose” al posto di qualcos’altro. Ciò, ovviamente, lo si evince dal quadro organico e frammentato del lavoro di Guidi, scrupoloso osservatore del particolare, di dettagli, aree di campagna e segni urbani. Nelle fotografie di Guidi si delinea il rapporto tra il paesaggio e l’individuo. Infatti, nelle sue immagini di natura concettuale, il rinvio cognitivo è pur sempre all’uomo, alla presenza umana, e al significato che ricopre all’interno di contesti urbani diversi.
In molti suoi lavori trionfa la poetica del frammento e del dettaglio come in una cassetta di ortaggi, una staccionata, il dettaglio di un carro o quello di un muretto e di un cancelletto, un portoncino aperto da cui traspaiono le scale, l’orario dei bus a ridosso di un muretto e sullo sfondo il mare, residenti lungo la strada, ragazzi in bicicletta, un lampione che funge da “limite” all’orto, il dettaglio di un trattore ripreso da dietro, la cassetta arrugginita della posta, il faro in lontananza che risulta essere quasi un esempio pittorico di vedutismo settecentesco.
Tutti aspetti, questi, di una poetica in cui si delinea il pensiero di Guidi, e di come in lui sia presente un’idea di fotografia legata al frammento, al dettaglio, al segno, quale metafora del testo che diventa anche contestualizzazione e narrazione di un territorio altro, davvero diverso, in quanto non esclusivamente dentro la dimensione estetica/turistica e quindi di conseguenza economica/commerciale ma, soprattutto, in quella estetica/funzionale.
Il paesaggio e il territorio nelle immagini di Guidi sono l’oggetto di una rappresentazione che vive nella quotidianità e nella familiarità, in segni identitari, quale condizione prima per esseri vicini, accoglienti, o soggetti appartenenti ad una comunità che nel territorio, e in una sua stessa apertura - la porta o, meglio, le porte presenti nell’indagine di Guidi sono il segno reale che muove verso un’idea concreta di apertura/ingresso/accoglienza - struttura spazi di aggregazione e di socialità. Sì, la fotografia mira anche a questo, alla rappresentazione di un quadro in grado di investire i significati del vivere quotidiano, i caratteri e le forme di una dimensione umana, socializzante.
In questo senso la ricerca di Guidi risulta essere una pratica fotografica non solo identitaria, ma anche identificante in quanto consente al soggetto e agli individui (residenti/turisti, ecc.) di identificarsi con il luogo, lo spazio o, meglio ancora, con quei territori non sempre frutto della fruizione collettiva, tanto più se di natura turistica, il messaggio di Guidi risulta diretto alla conoscenza di un luogo quotidiano, vivo, aperto, che trae dalla terra e dall’ambiente la propria condizione esistenziale, e non tanto in alternativa ai luoghi socialmente riconosciuti come possono essere quelli del divertimento e dello svago, ma in quanto cifra della forma quotidiana, rappresentazione complementare di un passaggio e di una presenza, tra cui anche quella turistica.
È questa un’idea dello scorrere del tempo, della condizione e della cognizione esistenziale a cui guardare come sviluppo dell’uomo, quale sintesi delle storie personali e collettive a cui far riferimento ma, soprattutto, da condividere nella possibile pausa della riflessione, per uno sguardo che varcando confini territoriali anonimi entra nei caratteri dei vissuti e delle vicende relazionali, motivi fondamentali di un guardare e di una percezione acuta e profonda.
Guido Guidi - già docente di Fotografia in alcune università italiane, tra cui l’Università IUAV di Venezia - ha esposto in numerosi musei internazionali, e fra i progetti di rilievo è Viaggio in Italia” del 1984, con un team di diversi fotografi che hanno raccontato il paesaggio italiano come un luogo reale e quotidiano, fuori dagli stereotipi - un’impostazione che si ritrova abitualmente nelle foto di Guidi - e *Per strada, con i paesaggi e le persone incontrati sulla via Emilia.
Ma Guidi è anche l’unico artista ad aver vinto per due volte il Premio Hemingway, la prima nel 2014 (Cinque paesaggi. 1983-1993). Già allora la giuria sottolineava che l’opera di Guidi traspone idealmente lo sguardo di Ernest Hemingway in “racconto per immagini” capace di trasmettere “una visione del paesaggio non ecologistica né memoriale, eppure dissacratoria rispetto alla paesaggistica tradizionale. Senza alcuna ricerca di spettacolarità, Guidi coglie il qui-e-ora del paesaggio naturale e antropizzato, maturando uno sguardo personale e, allo stesso tempo, in fecondo dialogo concettuale con la grande fotografia internazionale”. * In Sardegna* include le foto di due viaggi, uno di nozze e uno nel 2011. La prima visita di Guido Guidi sull’isola coincise infatti con la sua luna di miele, nel 1974: attraverso una Nikon F e una Fiat 127, Guidi raccontò per immagini in bianco e nero la Sardegna alle prese con i cambiamenti sociali e politici post anni Sessanta. La seconda volta, nel 2011, Guidi si portò tre diverse macchine fotografiche: una Hasselblad, un banco ottico Deardorff 8×10 e una digitale Canon. Il risultato di queste esplorazioni, lontane nel tempo e diverse per mezzi utilizzati, testimonia anche un percorso di ricerca sul medium della fotografia, che pone in dialogo immagini in bianco e nero degli anni Settanta e opere a colori degli anni Duemila.
Un viaggio al profumo di mirto nello sguardo di uno dei più grandi fotografi italiani di sempre. Ci si sposta da Nuoro a Oristano, da Bosa a Tempio Pausania e Olbia senza un ordine prestabilito, per suggestioni ed evocazioni che sembrano casuali oppure affidate addirittura all’occhio e all’interpretazione di chi guarda. Le fotografie, delle quali 232 inedite, sono state esposte nella mostra promossa dal Museo d’Arte della Provincia di Nuoro (MAN) nel corso dell’estate 2019, Guido Guidi. In Sardegna: 1974, 2011, a cura di Irina Zucca Alessandrelli, coprodotto con l’Istituto Superiore Regionale Etnografico della Sardegna (ISRE).
In Veneto, 1984 – 1989 raccoglie una selezioni di immagini finora rimaste inedite, scattate in grande formato con una macchina fotografica Deardorff 8X10, che Guidi usava per la prima volta per un intero progetto fotografico. L’autore si era concentrato sull’area centrale del Veneto, con l’intento di testimoniare il cambiamento che stava avvenendo in questi luoghi da lui molto amati. L’enorme area rurale tra le province di Vicenza, Padova e Venezia, attraverso un processo di frammentazione conosciuto come diffusione urbana, trasformava il paesaggio in una visione altamente incerta, marginale, priva di gerarchie, come il lavoro di Guidi ha puntualmente documentato. La vetrina di un negozio a Mestre su cui si vede il disegno di un occhio, e poi si continua con strade, automobili, trattorie e officine, mostrando un paesaggio in mutamento verso l’urbanizzazione, quello del Veneto centrale, con fotografie quasi immobili e nelle quali è difficile distinguere i luoghi l’uno dall’altro, tutto sembra far parte dello stesso paesaggio rispecchiando l’esatto senso della cosiddetta “città diffusa”.
E degli inizi del 2020, Lunario, che contiene una serie di foto scattate da Guido Guidi fra il 1968 e il 1999, in maniera diretta o indiretta legate tutte al tema della Luna. Tutte espressioni del modo in cui Guidi ha guardato la Luna, simbolo di malinconia, variabilità e transitorietà della vita.
Sono nato in campagna e ho avuto tempo di guardare la Luna tutte le notti invernali, tornando dall’oratorio.
Ci troviamo le sperimentazioni realizzate tra gli anni Sessanta e Settanta, fra le quali alcune concepite in risposta a esercizi assegnati dal suo insegnante Italo Zannier. Come la serie di ritratti scattati all’amica Mariangela Gualtieri, dove il volto della donna è illuminato a volte solo nella metà sinistra, altre in quella destra e poi per intero; o i paesaggi scattati con l’obiettivo fish-eye, che deformano i bordi delle immagini rendendoli circolari, spingendoci a guardare “dal punto di vista di un gigante che vede la Terra ai suoi piedi e intorno a sé”, spiega Guidi.
La forma della Luna echeggia in ritratti, oggetti e situazioni di vita quotidiana, come quelle in cui sua figlia Anna gioca con una palla lanciandola contro il muro. Fino ad arrivare al racconto dell’eclissi solare dell’agosto del 1999. Nelle fotografie più antiche di questa serie si registra una certa tensione, quasi espressionista.
Per un altro esercizio, ecco la serie di ritratti dell’amica Mariangela Gualtieri con diversi tempi di esposizione, poi incollati su un cilindro e rifotografati da diversi punti di vista, registrando accuratamente le distorsioni prospettiche che ne sono derivate.
A quel periodo appartiene anche un doppio ritratto di Italo Zannier – icona della storia della fotografia italiana e internazionale - nel quale si vede il suo volto riflesso in maniera distorta sulla superficie curva di una smaltatrice nel laboratorio fotografico del Corso Superiore.
Alla base di questi lavori c’era un approccio analitico nei confronti del medium fotografico, la necessità di comprenderne il funzionamento anzitutto. E del resto le fotografie simboliche rimandano all’archetipo della donna-Luna come simbolo della variabilità, della discontinuità, ma anche del diafano e in fondo della malinconia.
Ricordando un famoso storico dell’arte e della prospettiva, Guidi afferma: “…come ricorda Hubert Damisch quel che conta non è tanto quel che un’opera rappresenta o manifesta quanto ciò che trasforma. La virtù di un buon fotografo è quella di lasciarsi dominare, guidare dallo strumento. Se domini la chimica la induci a fare quello che vuoi tu, il che non è esattamente quanto può fare lo strumento con le sue potenzialità, che continuano a sfuggirci”.
Ha perfettamente ragione Guidi, e il premio Hemingway è il meritato riconoscimento a uno dei più grandi fotografi del nostro tempo: Guido Guidi.