L’installazione concettuale animava il corridoio del liceo, era l’ultimo giorno da studente. Si trattava di un banchetto scolastico cui erano state segate via due gambe nel senso della profondità. Da un buco sufficiente a consentirne il passaggio faceva capolino la punta d’un ombrello accorciato allo scopo di fungere da protesi al tavoletto. Metà della tela era stata asportata.
Sul piccolo desco era appoggiata una gabbia arrugginita e dalle sbarre superiori penzolavano scarpe da neonato e un ciuccio piuttosto malandati. Una piuma bianca riposava sul fondo della voliera.
Era il primo anno in cui la riforma scolastica consentiva di presentare una tesina multidisciplinare. Scelsi l’arte, mio unico interesse degli ultimi otto anni.
Fu un successo, nonostante gli spudorati suggerimenti d’Improta, proprio in fronte a tutta la commissione, nei brevi istanti in cui tentammo di simulare le mie competenze nelle lingue morte. Furono circa quaranta le persone che passarono a curiosare in merito a ciò che avrei combinato. Uscii felice della conclusione di un ciclo che in teoria avrebbe dovuto introdurmi alla vita adulta.
Trascorsi l’estate fra la spiaggia, i laghetti di montagna e la discarica abusiva di Porra, dove solevo recuperare materiale da utilizzare per le installazioni, che più volte abbandonavo sul lungomare in cerca di fruitori. Restavano dove erano state posate fino al passaggio della nettezza urbana.
Quella stessa estate organizzai un blitz al chiosco d’angurie di Mambrin, pochi giorni prima della premiazione de L’anguria d’oro, vetusto concorso pittorico, che vedeva confrontarsi vecchie croste tutte uguali. Depositai una scultura vegetale di tre metri, realizzata con più di due quintali d’anguria: raffigurava l’attimo dinamico ed estatico del clou della danza d’uno sciamano africano. La statua vinse il premio della giuria ed ebbi la possibilità d’esporre gratuitamente nella Galleria di uno dei promotori dell’evento.
Sembravo avviato a un discreto successo, perlomeno a livello locale.
Iniziai a preparare gli esami d’ammissione all’Accademia di Belle Arti di Carrara. In quel periodo frequentavo una studentessa di scultura iscritta proprio nell’avamposto anarchico della Toscana. Ero felice. Nonostante volessi dedicarmi alla pittura mi sarei iscritto a scultura, che offriva un programma di studio più completo. Virginia mi assicurava che le prove d’ammissione erano una formalità.
Purtroppo, solo per quell’anno, una riforma sperimentale pretese un giro di vite sulle ammissioni e feci la figura di Adolf Hitler, rifiutato e costretto a dedicarmi ad altro. Fu un dolore insopportabile che decisi d’ignorare con risentimento.
L’ultima materia che tolleravo studiare, passione per la storia dell’arte a parte, era la filosofia.
La tesina dell’esame di maturità verteva sulla critica dell’estetica hegeliana, in particolare dell’assunto che l’arte si fosse esaurita con la classicità.
Sostenevo che l’opera fosse costituita di forma e contenuto e che ambo gli elementi custodissero pari dignità.
Avallavo la possibilità dell’espressione artistica di chiunque, sollevando la questione delle poetiche di rottura e l’aberrazione d’una creatività riservata ai rampolli delle famiglie nobili e possidenti.
Mi iscrissi pagando la mora al primo anno di Filosofia a Genova. Se non potevo studiare la tecnica a livello accademico e approfondire temi e concetti in privato, avrei agito esattamente all’opposto.
Quando sparii da un giorno all’altro, Virginia e io avevamo già affittato una casa a Carrara dove convivere. Sottintesi la mia riluttanza a intraprendere una relazione a distanza. Avevo diciannove anni e un vulcano dentro.
Superai il fastidio per l’insuccesso con la dedizione alla pittura, che studiavo da autodidatta e che praticai ogni giorno, nei primi tre anni d’università.
Gli acrilici su tavola si moltiplicavano e sempre più spesso dovevo trasportarli da Genova a Ventimiglia per recuperare spazio. L’estate che seguì la mia immatricolazione fu quella in cui realizzai la prima mostra personale. Come ogni emergente, che cominci a raccogliere gocce di successo, vendetti molte tavole a parenti e amici.
Lavoravo su maschere apotropaiche ispirate alla scultura sciamanica, li chiamavo demoni. Chi recensì e m’intervistò spinse sull’inquietudine che ne emergeva.
L’inquietudine vera però giunse un paio d’anni dopo. Roberto, un membro del gruppo di studio e confronto di cui facevo parte, promise di presentarmi un pittore professionista e molto noto in tutto il paese.
Non passò tanto tempo fra la sera in cui facemmo visita all’artista e lo ascoltammo parlarsi addosso mentre massaggiava le nude natiche d’una sua attempata modella e il giorno in cui mi chiese di fargli visita nel tardo pomeriggio.
Nell’ordine mi propose diversi scatti che lo ritraevano insieme alle celebrità e un massaggio rilassante, poiché ero rigido.
Mi sentii in imbarazzo e fu untuoso e viscido nell’approfittare anche solo del rispetto che la mia educazione imponeva a una persona adulta. Fu quando cominciò a massaggiarmi il coccige che non ebbi più grandi dubbi in merito alle sue intenzioni e la conferma definitiva fu il rumoroso deglutire della sua eccitazione. Trovai il coraggio di dire minaccioso senti… più che rilassarmi mi sto incazzando parecchio!
Purtroppo non mi è mai riuscito di trascendere il marchio a fuoco dell’eterosessualità e le molestie, sebbene non sarebbero state le ultime, provennero da un uomo maturo. Ero troppo giovane e provinciale, troppo ingenuo per poter affrontare quanto accaduto senza sentirmi sporco e assalito da squallore e decadenza.
A quel tempo non conoscevo altri artisti di successo e finii per personificare l’arte in lui e nutrirne rigetto, temevo che l’edonismo avrebbe fagocitato la purezza e mi avrebbe trasformato in uno dei mostri lascivi che i miei demoni dipinti dovevano scacciare.
Non avrei dipinto un autoritratto che invecchiasse al posto mio, che marcisse in armonia coi grumi suppuranti del mio spirito.
Smisi di dipingere e di occuparmi d’arte per quello che fu un lungo esilio dalla mia terra natale.
Da tempo avevo identificato il nemico pubblico numero uno nella scienza, mi dedicai disperatamente alle sue basi teoriche.