Dal 52° piano della Bitexo Financial Tower, esuberante grattacielo in vetro dalla forma vagamente ecologica di una foglia avvolta su se stessa, Saigon si mostra nella sua fredda indifferenza. Un ventaglio di luci schizza su un cielo appena oscurato dall'arrivo delle ore notturne e tra decine di colori che cambiano s'illumina la grande insegna di 'Times Square'. Tutto intorno altri grattacieli si allungano e si espandono dando vita a un panorama che ha molto più a che fare con l'architettura americana che con lo spiritualismo orientale.
Guardo e riguardo quella sceneggiatura da film hollywoodiano degli anni ruggenti mentre mangio una bistecca con patatine e ketchup dopo aver chiesto al cameriere di riprendersi la mia forchetta di portarmi i chopstick. Sarà una contraddizione, ma in fondo sono in Vietnam e voglio ricordarmelo. Avrò le mie bacchette, ma dopo qualche minuto: forse le hanno dovute cercare. Mi sento spaesata, ma è chiaro che quei 68 piani di uffici e negozi della Financial Tower, con l'annessa piattaforma di atterraggio per elicotteri, vogliono essere non solo il cuore della città, ma anche dell'economia emergente del Paese.
Forse, però, quell'heli-pad in bella vista, come un pugno in faccia al cielo, è lì anche per inchiodare nella memoria un passato recente. Perché, se su quella piattaforma mai nessun elicottero si è posato, sul tetto dei poco distanti Pittman Apartments, al tempo occupati dalla Cia, al numero 22 di Ly Tu Trong, il 29 aprile 1975 si consumò l'epilogo di una delle tragedie più inquietanti del secolo scorso. Gli scatti di Hugh van Es hanno intercettato la partenza di quell'ultimo elicottero americano durante la frettolosa evacuazione di Saigon, ormai in mano ai Vietcong. Quello che accadde - l'elicottero traboccante di corpi e la scala lanciata nel vuoto insieme a grappoli di sudvietnamiti che vi si aggrappavano in cerca della salvezza - ce lo ricordiamo tutti. Il vittorioso governo di Hanoi, che ha chiuso entrambi gli occhi sull'americanizzazione selvaggia della città, ha però mantenuto intatto questo vecchio palazzo, come emblema della disfatta degli Stati Uniti. Non c'è nessuna targa e l'edificio non fa parte dei consueti giri turistici, ma, pagando, si può salire sul tetto, proprio davanti all'ufficio centrale delle Poste e a poche centinaia di metri dalla cattedrale.
Complicato, però, chiedere informazioni agli abitanti. I vietnamiti, ovunque nel Paese, ti ascoltano con gentilezza, ma poi ti chiedono di parlare in inglese. E poiché è quello che già stavi facendo capisci che è meglio usare i gesti. Si possono avere risultati migliori.
A parte l'edificio di Ly Tu Trong, lasciato nella sua fatiscenza, il resto del distretto centrale di Saigon è strapieno di moderni alberghi pluristellati, e ristoranti, mentre negozi delle griffe occidentali hanno preso il posto di quei banchetti dove, come ci ha raccontato Tiziano Terzani, donne e bambini appollaiati vendevano lucido da scarpe e sigarette, sesso e gomme da masticare, preservativi e cioccolatini. Solo le strade sono ancora 'rumorosamente appestate' da milioni di motorette, con pochi segnali stradali per regolarne la fiumana e con un unico metodo per il pedone che vuole attraversare: mettere le mani avanti in segno di stop sperando che vada tutto bene.
Su 12 milioni di abitanti, 8 hanno il motorino e l'equivalente di 20 dollari è la multa per chi va in giro senza casco. Per legge non si potrebbe viaggiare in più di tre persone su un mezzo a due ruote, però la polizia è 'soft' nei controlli e il rispetto della regola ancora più blando: in molti si muovono con tutta la famiglia, padre alla guida, bambini in posizione centrale e madre che chiude la fila. Ma, pur mantenendo qualche intrusione del passato, rimasta ferma e inossidabile come una pietra miliare, Saigon con i suoi viali, i grattacieli, i locali notturni e le boutique, appare oggi la brutta copia di una piccola New York.
D'altronde è qui che è concentrata la maggior parte della ricchezza del Paese ed è soprattutto qui che i giovani, e non solo, hanno mantenuto tanta voglia d'America. Non c'è dubbio che avrebbero preferito una fine diversa del conflitto e, nonostante i terribili anni di 'rieducazione' imposti dai vincitori del Nord a chi aveva collaborato o solo simpatizzato con la bandiera a stelle e strisce, non sembrano aver cambiato idea. Alla fine è stato il governo di Hanoi a doversi un po' adattare. Neanche cambiare il nome alla città è servito a molto. Ho Chi Minh City fa parte dell'ufficialità, ma per tutti è rimasta Saigon.
Comunque, ovunque la Repubblica socialista di cui Nguyen Phu Trong è presidente, oltre che segretario dell'unico partito esistente (prima di lui solo il 'mitico' Ho Chi Minh aveva tenuto nelle sue mani le due cariche) chiude oggi un occhio non solo sulle regole stradali, ma anche sulla possibilità di guadagnare facendo impresa e di importare la moda occidentale con i suoi brand più famosi. E, nonostante sia in vigore l'ateismo di Stato, nessuna religione è ostracizzata, neanche i riti nei molti templi pagani sparsi dappertutto. Per non parlare del tradizionale culto degli antenati che lega tutti i vietnamiti. A dire il vero in passato provarono ad eliminarlo, ma le reazioni furono tali che il governo dovette fare marcia indietro in grande fretta. Nessuno, dopo, ha avuto il coraggio di ritentare l'impresa. C'è però qualcosa su cui è sempre meglio tenere la bocca chiusa: la guerra tra Nord e Sud del Paese, quel disperato processo di riunificazione che vide fronteggiarsi più o meno apertamente colossi mondiali come Stati Uniti, Russia e Cina. Chiedere ai vietnamiti di parlarne è come ascoltare un disco rotto che suona più o meno così: “Inutile serbare rancore per qualcosa che è già accaduto e che non puoi fare nulla per cambiare. Perdonare, ma mai dimenticare: questa è la nostra cultura”.
Percorrere i 50 km che separano Saigon dal delta del limaccioso Mekong è come saltare in un colpo solo secoli di storia. Se la prima è proiettata verso un futuro sempre più globalizzato, nell'area più a Sud del Vietnam il tempo sembra essersi fermato o forse non è mai esistito. Qui la natura può ancora travolgerti tra le piene del fiume, gli intrichi dei canali, i villaggi galleggianti, le risaie a perdita d'occhio e la babele degli alberi con le infinite sfumature di verde. Entrare nella giungla è trovarsi in un tunnel, dove ti sembra sempre di non avere più strada davanti a te, ma se ti volti indietro non vedi quella già percorsa. E dentro questo far west di fronde appare un mondo dimenticato. L'industria del cocco è un girone infernale in cui il machete non ha lasciato il posto alla macchina e sono ancora le mani a dividere abilmente la polpa dalla parte esterna del frutto per poi smistarla nelle diverse ceste caricate sulle imbarcazioni fluviali - grandi ghe chaim o piccole sampan - dirette verso le altre zone di lavorazione. Niente sarà gettato. Le fibre diventeranno tappeti, il guscio secco combustibile, la polpa bianca si trasformerà in dolci e biscotti, il liquido servirà per cuocere i gamberetti al vapore.
My Tho, Sa Dec, Chan Tho, Phon Dien, Ben Tre, sono i nomi dei luoghi dove è racchiuso un mondo che si è arrestato bruscamente, come un libro chiuso quasi con violenza dopo poche pagine. Neanche i francesi, nella loro lunga dominazione coloniale in Indocina, riusciranno mai a penetrare quest'area. I turisti sì, loro ci sono riusciti. Arrivano per vivere a contatto con la natura e respirare un'atmosfera antica, mangiare il pesce orecchie di elefante cotto con il legno del cocco, bere il liquore ottenuto unendo il vino di riso a un serpente vivo, oppure a uno scorpione, i cui veleni, secondo credenze arcaiche, sarebbero un ottimo 'ricostituente' della virilità.
Comunque i turisti - soprattutto gruppi, ma anche inossidabili fai-da-te - sono arrivati dopo i Vietcong, che approfittarono di questo grande labirinto di fiumi, paludi e giungle riuscendo a isolare Saigon anche da Sud. Ma qui non hanno lasciato tracce. Per incontrare ciò che resta dei guerriglieri comunisti dobbiamo spostarci a Cu Chi, ad appena un'ora di strada a Nord dell'attuale Ho Chi Minh City. L'intricata rete di gallerie sotterranee coperta dagli innocenti suoni della foresta può dare l'idea di come la tenacia di una popolazione di contadini con sandali e cappello di paglia a cono (pur aiutati dai kalashnikov russi e cinesi) abbia battuto la potenza devastante dei bombardieri. In questa 'città sotterranea' scavata a vari livelli fino a 9 metri di profondità, c'erano dormitori e cucine, tipografie, centri di pronto soccorso, uffici per i comandanti vietcong e nascondigli per armi. Si calcola che in dieci anni qui abbiano vissuto 21.000 vietnamiti, tra soldati e civili. Né le bombe, né i cani, né i carri armati che ci passavano sopra ogni giorno riuscirono mai a scoprirla. Ancora oggi entrare in uno di questi anfratti sotterranei e chiudere la 'bocca' invisibile che ti annulla al mondo è come intromettersi in una storia di follie e crudeltà. Il buio è assoluto, come il silenzio, e il sentore della terra si mescola a quello della paura. Alcuni cunicoli possono essere visitati avanzando a carponi, quasi strusciando, nella bramosia della luce della prossima uscita.
Certo, in un Paese dove la lotta per la sopravvivenza è stata la principale occupazione per decenni, stupisce trovare cittadine indenni dagli epocali misfatti. Hoi An, nella parte costiera centrale del Vietnam, è il premio romantico per tanto martirio. I ricchi mercanti cinesi vi costruirono le loro abitazioni di legno che si affacciano sulle viuzze, le congregazioni si dotarono di eleganti sale, i colorati templi si moltiplicarono, mentre l'acqua del fiume Thu Bon trasportava placidamente centinaia di imbarcazioni nelle ore serali illuminate con lanterne di seta. Tutto è miracolosamente rimasto intatto.
Non è stata la stessa cosa per Hué, antica residenza dell'imperatore, circondata da spesse mura di pietra. Un rampollo della dinastia Nguyen l'aveva costruita sulla riva del fiume dei Profumi dopo aver unificato il Paese, chiamandolo Vietnam. Forse è per questo che sia per il Sud che per il Nord il controllo di Hué aveva un'importanza vitale. Al punto da diventare il teatro di alcuni tra i più aspri combattimenti che distrussero la città trasformandola in un cumulo di macerie dove gruppi di disperati si accampavano in mezzo al tanfo opprimente dei morti. Oggi Hué è una città moderna con tanti giovani e tanta musica nei locali del centro, mentre lungo il fiume dei Profumi scorre il passeggio. Capita spesso di vedervi ragazzi che bruciano oggetti o cartoni. È una delle antiche tradizioni a cui nessun vietnamita intende rinunciare. In questo modo mandano doni agli antenati, che a loro volta, sono chiamati a ricambiarli. Per ottenere soldi si bruciano cose gialle, che possono essere fiori, oppure banane o mango. Perché l'oro è giallo e il suo colore chiama la ricchezza. Non solo, le tre parole - oro, giallo e ricchezza - si traducono con un identico, piccolo, vocabolo - vàng - e solo il contesto della frase determina la differenza. Così le cose gialle sono i regali preferiti da inviare agli antenati. Però, c'è stato un momento non lontano in cui venivano persino venduti iPhone e vespe di carta a cui dare fuoco, così che l'antenato potesse capire bene e inviare in cambio gli oggetti veri. Si sa, i tempi cambiano per tutti... Comunque oggi tutti hanno l'iPhone e le strade sono piene di motorini, quindi forse il sistema funziona…
Ma in un Vietnam a due velocità Hanoi resta la città più impenetrabile, dove l'austerità comunista lascia meno spazio alla voglia di Occidente, che però sta crescendo, insieme alle possibilità di investimento, anche a livello familiare. Il garbuglio disordinato delle sue strade centrali, dove le vecchie bottegucce si susseguono e i risciò stazionano in attesa dei clienti, non ha niente della forzata grandeur di Saigon. Le nuove e massicce costruzioni popolari insieme ai pochi grattacieli senza luci stanno da parte, fuori dalla città, come una periferia fuori dalla Storia. Una storia recente, che si porta dietro i fantasmi di 3 milioni di morti vietnamiti e 50mila americani. Una storia che ancora non ha aperto del tutto al mondo i suoi misteri, chiudendoli in quei grovigli di fili elettrici che si annodano tra le case come una ragnatela arruffata, oppure affogandoli nelle grandi pentole di zuppa che ogni sera appaiono lungo le strade sconnesse del centro, dalle quali si mesce qualche mestolo di liquido denso in cambio di pochi dong.
Il giornalista inglese Max Hastings, autore di un libro sull'epico conflitto ormai diventato un must, ci dice che le informazioni sui processi decisionali del Vietnam del Nord venivano “ammannite con lo stesso braccino corto con cui è servita la pappa d'avena in un ospizio per poveri”. E sospetta: “Per quanto improbabile sia che gli archivi statunitensi celino ancora dei segreti importanti, chissà quanti ce ne sono racchiusi nei faldoni di Hanoi”.
Eppure, con il suo 6,5 per cento di crescita all'anno, quella del Vietnam è considerata una delle economie emergenti più sviluppata e, se gli Stati Uniti hanno perso una guerra, l'Occidente si sta preparando a vincerne un'altra: quella economica. Il resto sono solo fantasmi. Let it be suggerivano i Beatles al mondo nel 1968 quando in Vietnam le atrocità infuriavano. Oggi la lezione arriva proprio da quel lontano oriente. “Guardare avanti” è la parola d'ordine. I giudizi li darà la Storia.