Non mi sono mai occupato della Gioconda o Monna Lisa proprio perché infastidito dall’eccesso di esposizione mediatica e di iconicizzazione pop di tale dipinto, neppure da me ritenuto uno dei migliori di Leonardo. Dopo aver visto però la bellissima mostra pavese Looking of Monnalisa ideata da quell’illuminato Assessore alla Cultura che è Mariangela Singalli, vera mecenate e committente d’arte, mi sono ricreduto, certamente suggestionato da un’esperienza immersiva stimolante e coinvolgente.
Non è senza conseguenze, per chi ama l’immagine e l’arte assistere, ad esempio, ad un video dove compaiono centinaia di manipolazioni differenti dell’immagine della Monna Lisa né apprendere come già negli anni ‘60 tale opera fosse oggetto di divismo ossessivo. Esci fuori dalla mostra con la bella voglia irrefrenabile di costruirti decine di “tue Monne Lise”! Una mostra intensamente didattica ed educativa anche nel suo svelare in chiarezza e intensità le funzioni basiche dell’arte pop: la reiterazione, la manipolazione, la semplificazione, la stratificazione dei tempi e l’incrocio dei linguaggi.
Stupendo poi il video di Santa Maria Gualtieri, parte di tale innovativa mostra pavese di arte contemporanea, dove l’immagine leonardiana si scompone e ricompone in molteplici dimensioni e linguaggi visivi, con un confronto illuminante con un ritratto di dama di Luini dal volto totalmente “giocondesco”, seppur più giovane (Ritratto di signora, 1525, Washington National Gallery).
Ho deciso quindi di applicare il mio metodo ermeneutico iconologico anche a tale celeberrimo ritratto, dopo averlo maturato ed esperimentato per molti anni applicandolo anche ad altri capolavori come il Cenacolo, la Primavera di Botticelli, la Tempesta di Giorgione e la Melacolìa di Durer, con esiti interpretativi innovativi. Il mio metodo appare assai semplice e riprende sia la lezione di Panofsky e di Propp, che l’antico approccio di tipo “anagogico”, cioè focalizzato sulle dinamiche interne semantico-strutturali dell’opera quale corpo narrativo dotato di una sua coerenza interna. Come dico spesso: “Leggere l’opera con l’opera stessa”.
Un approccio che possiamo vedere anche quale sensibilità neo-aristotelica e tomista dove la conoscenza è amplesso adesivo, che fa emergere l’oggetto quale sinolo e quale entelechìa. Cogliere l’essenza e le unicità del dipinto, tentare di esaurirne ogni esplicabilità ricostruttiva, prima di ricorrere ai discorsi comparativi e analogici, sempre a rischio di sincretismi appiattenti. Seguendo anche l’Umberto Eco dei Limiti dell’interpretazione, dove ricorda spesso come l’opera quale corpo conserva sempre una dimensione polisemica ma le possibilità interpretative appaiono sempre molteplici quando limitate. È l’opera, quindi, che resiste fisicamente alla sua interpretabilità.
Confidando su questo numerus clausus di possibili letture ho proceduto facendo mia la filosofia ermeneutica di Francesco Bacone (con il suo procedere per esclusione e per elenchi individualizzanti) e quindi sono giunto ad individuare quattro elementi che mi sembrano essenziali nel sottolineare l’identità specifica dell’opera, escludendo in prima battuta ogni interesse invece identificativo sulla persona ritratta.
Prima definire l’opera, poi ricavare da tale definizione, se possibile, l’ambito entro il quale discorrere su chi sia il soggetto narrato, non il contrario. Si tratta quindi di invertire il baricentro dell’analisi. Questi quattro elementi ritrattistici, a mio parere decisivi, sono i seguenti:
1) la donna appare vestita in modo semplice, dimesso, non appariscente. Un dato di interesse che contrasta radicalmente con la totalità dei ritratti umanistico-rinascimentali dove la dama nobile sfoggia acconciature e vesti sgargianti nei colori, ricche nei dettagli, e quasi sempre impreziosite da gioielli. Qui abbiamo una dama in sottotono, con vestiti semplici, quasi spersonalizzanti, e dai colori scuri, terricoli;
2) la dama porta un velo, e un velo scuro. Il velo appare segno e veste assolutamente chiara nel suo senso che può essere solamente duplice: o segno di fidanzamento (o da giovane sposa), oppure velo vedovile. Qui sembra un velo da vedova, per il colore scuro del velo e l’età non più così giovane del soggetto, secondo i canoni del tempo;
3) la dama è celebre, e ce lo dimostra quel dipinto di Luini prima citato che ne riprende l’inconfondibile fisionomia, come pure lo conferma il fatto che Leonardo dipinge solo dame di corte, con una scelta di committenza ducale, non certo sua;
4) la dama, come prima accennato, appare con un viso bello, armonioso, ma segnato dal tempo e dalla sofferenza. L’espressione del viso non appare ambigua, o meglio l’ambiguità è sulle motivazioni di tale espressione, non sulla sua definibilità. A ben guardare l’espressione del viso può essere qualificata quale incrocio di due polarità psicologiche-posturali: un misto di tristezza, delusione, frustrazione combinato con un contegno nobile, signorile, tale da trattenere una manifestazione più visibile di una sofferenza a lungo ritenuta e introiettata. Un'espressione quindi sofferente, seppur di una sofferenza sottile e velata dalla dignità e dal pudore, nonché dalla soddisfazione di posare.
La donna di questo ritratto famosissimo è piena di risentimento. Lo si legge bene negli occhi. Se così è stato correttamente sottolineato allora possiamo accettare con maggiore consapevolezza e convinzione la tesi dell’identificazione della dama ritratta in una Isabella d’Aragona, ma un’Isabella vedova di Giangaleazzo Sforza. La principessa napoletana che era giunta a Milano con belle speranze di diventare duchessa di Milano ed era invece vissuta scontando l’emarginazione politica inflitta al marito dal regime autoritario che il pur illuminato Ludovico il Moro incarnava. Appena un anno dopo il suo arrivo scrive al padre, re di Napoli, lamentandosi di essere la “peggio maritata al mondo”. Il suo carattere fiero e forte fu sottoposto ad un lungo logorio psicologico proprio da tale contesto politico-personale umiliante e demotivante. Visse tra il castello di Vigevano e quello di Pavia, con un marito malaticcio e di carattere debole, che accettò il predominio del Moro fino alla sua prematura morte, forse commissionata proprio dal signore politico di Milano per eliminare un fastidio dinastico che avrebbe potuto mettere in forse la concessione imperiale del titolo ducale, che a Ludovico giunse da Massimiliano d'Asburgo solo nel 1594, proprio il giorno dopo la morte del legittimo duca Giangaleazzo. Una coincidenza che svela il committente politico della sua morte.
In tale contesto ricostruttivo si scioglie allora ogni mistero sull’allusività dell’espressione del volto della Monna Lisa, assimilandolo a simile postura facciale propria della donna della Tempesta di Giorgione, da me identificata con Dorotea Malatesta, dalle vicende simili ma ancora più drammatiche e travagliate.
La biografia di Isabella d'Aragona appare, quindi, un "quinto elemento" che interagisce con gli altri nel sostenersi a vicenda a livello ermeneutico. A questo punto i nomi tralatizi di “Gioconda” e di “Monna Lisa” appaiono del tutto obsoleti e fuorvianti. Cosa ci sia di “giocondo”, cioè di allegro, in tale ritratto non l’ho infatti mai capito. Né ho mai compreso il senso del riferirsi degli interpreti, per l’identificazione della donna ritratta, a modelli toscani giovanili da parte di un Leonardo ben presto divenuto irreversibilmente lombardo, milanese, ducale. Appare improbabile che durante il suo secondo soggiorno fiorentino Leonardo tornasse ad una committenza borghese di medio livello, dopo tante committenze di primo livello.
È possibile che tali nomi attributivi siano frutto di un errore, caso diffuso in storia dell’arte. Errore attributivo dovuto allo smarrirsi del ricordo dell’originale e autentica identificazione da parte di successivi proprietari o interpreti del dipinto. Oppure potrebbe avere ragione Riccardo Magnani nel ritenere il nome di “Gioconda” come attribuibile ad altra opera leonardiana, ad oggi non pervenuta e successivamente confusa con l’Isabella leonardiana oggi al Louvre.
Forse questa lettura deluderà i fautori di una “Gioconda forever”, tale per cui il suo successo mondiale si fonda in gran parte proprio sulla non comprensione dell’allusività apparente della sua espressione facciale. Al contrario altri potranno apprezzare in tutto il loro spessore psicologico ed esistenziale le serie ragioni interiori, animiche e biografiche che hanno portato la nobile modella ad assumere tale apparentemente bizzarra postura facciale. Un dolore umano e profondo che ci avvicina “l’Isabella-Non Gioconda” di Leonardo.
Finalmente assisteremo alla fine della mitizzazione artificiale del celeberrimo dipinto per aprire lo scenario di una sua ri-mitizzazione, più reale? Molto del fascino pop della Gioconda viene appunto dall’indeterminatezza della sua identità tale che questo dipinto non è più un dipinto ma una pura e assoluta immagine, come disincarnata!
A chi interessa realmente la sua identità? Meglio che sia l’ignota figlia del quasi ignoto Messer Giocondo, in modo da non disturbare con una narrazione storica, reale, la potenza iconica del dipinto.
The end of Gioconda?