Mercoledì 8 aprile, due mesi esatti al suo novantaseiesimo compleanno, Pino Roveda ci ha lasciati. Se vogliamo valorizzare la sua opera soprattutto pittorica non possiamo esentarci dal riproporre il testo della presentazione di Gianni Vianello nel catalogo della personale di Pino Roveda tenutasi dal 17 marzo al 3 aprile 1984 presso la Galleria d’arte “Il Calligramma” di Busto Arsizio (VA).
In questo nostro non sottrarci non facciamo altro che ripercorrere assieme a Pino - desideroso di quel giudizio critico e paterno di un’autorità riconosciuta, una sorta di supervisione - le tappe più significative di un sofferto passaggio evolutivo all’interno dei suoi canoni espressivi. Una tematica vissuta con una tempistica tutta sua, volutamente mantenuta aperta, mai considerata conclusa. L’impressione ricavata dai suoi frequentatori più attenti era che Pino percepisse una prospettiva di longevità e che si gustasse una continua rielaborazione intellettuale sempre in fieri. Persino che sia stata proprio quest’ultima il suo elisir di lunga vita.
Da una parte aveva di che essere scolastico grazie alle sue doti innate, ai docenti prestigiosi, ai voti alti nelle esercitazioni. Dall’altra poteva essere partecipe di avanguardie se avesse coltivato certe frequentazioni dei suoi compagni al Liceo Artistico di Brera come il pittore Gianni Dova. Si concesse invece il lusso di non essere mai né l’uno né l’altro ma solamente se stesso. Il suo eroico si realizzava nel compiersi del quotidiano. Era nella sua costituzione, nella sua educazione, nel suo essere contemporaneamente fuori dal tempo e fortemente presente agli eventi del secolo scorso, alle vicende del suo paese, San Vittore Olona, della sua famiglia, dei suoi fratelli e sorelle, degli undici nipoti.
Questo di Gianni Vianello è un contributo strutturato, pervasivo, qualificante, capace di cogliere nel segno le dinamiche del cammino di ricerca e di crescita personale dell’autore giunto alla sua maturità artistica. Non se lo perderanno i tanti che in vita l’hanno stimato e che oggi desiderano assaporarne le opere.
Primo incontro con Pino Roveda
Pino Roveda, sessant’anni, uomo e pittore. L’uomo e l’artista non si scindono. Più che schivo, il primo è riservato, ma amabile e cordiale. Altrettanto si potrebbe dire del secondo, l’artista, ma questi non si sbottona, si apre e subito si chiude: non per paura di dire troppo, ma per forma di rispetto verso l’interlocutore, quasi, a dire, che le cose dell’arte sono quelle che sono, e che lui, come per caso, ci si è trovato in mezzo, inconsapevolmente.
Non lo conosco da molto, giusto in tempo perché togliesse dal cavalletto un quadro figurativo, mi pare una figura di donna sdraiata ripresa nelle luci violacee della sera, per sostituirlo con un altro, dove ogni parvenza di figura era fugata per far posto a volumi, prospettive e piani di puro colore. Il quadro che aveva tolto, per quel poco che ero riuscito a imprimermi nella visione e nella memoria, era denso di atmosfere intimistiche e dava o suggeriva qualcosa che sapeva di tenerezza; quello che lo aveva rimpiazzato faceva pensare a tante cose: comunque non a stati d’animo. Il primo era tutto sentimento immediato; il secondo apriva uno spiraglio di cultura da meditare, da soppesare, insomma, da rifletterci su.
Come dirgli che la grande avventura del passaggio dalla tradizione del figurativo al territorio inesplorato dell’astratto s’era compiuta già nel primo decennio del ventesimo secolo, il nostro secolo che ora si avvia al suo tramonto e sta già assistendo da un bel po’ alla conclusione della grande e fin troppo lunga stagione delle formule espressive ereditate (poi sviluppate, modificate e quindi ancora rinnovate per l’insorgere di altri media, che in bene e in male ne prolungarono l’attualità) dagli allora nuovi linguaggi inventati dalle avanguardie storiche. Non potevo dire questo né che da un po’ di tempo e un po’ dovunque le generazioni più giovani (sempre, tuttavia, su altre formule nate prima) sono ritornate alla pittura pittura, cioè con tela e pennelli e spatole, col colore e con la figurazione, anche se trafugando, con non poca disinvoltura e assai molta evidenziata spregiudicatezza, nel passato vicino e lontano, facendo man bassa del patrimonio antico e moderno di qualsiasi civiltà.
D’altronde Pino Roveda è uomo di cultura, conoscitore delle cose dell’arte, estremamente attento alla storia artistica del suo tempo e, quel che più conta, severo critico (perfino troppo) di se stesso, della sua pittura di prima e anche di questa che va facendo, preoccupato fino in fondo di intendere quanto gli ribolle dentro e quanto riesce a dire attraverso il mezzo espressivo. Dovere della critica in questo caso è di appurare la serietà della ricerca, l’onestà dell’operazione intrapresa dall’artista e là, dove esistono, evidenziare e mettere in rilievo quei valori sicuri che di per sé giustificano e spiegano la precisa linea di svolgimento di tale processo.
Per Pino Roveda non è tanto in questa trasformazione della sua pittura, dal figurativo al non figurativo, bandire o rinnegare l’immagine, il riferimento reale, quanto l’insopprimibile bisogno, l’esigenza non più derogabile di infrangere quello specchio che è la visione in cui si riflette tutto il visibile del reale immediato o sedimentato nella memoria. Per Roveda l’approdo al non figurativo non è stata operazione facile né scaturita all’improvviso per reagire ad una saturazione di amore-odio per l’immagine. Anzi: egli continua ad amare l’immagine, e non potrebbe essere diversamente per lui che viene dalla grafica pubblicitaria e dall’illustrazione.
Negli anni della sua giovinezza e della sua formazione accadde il grande trauma dell’evento bellico che tutto interruppe e tutto modificò nei disegni umani. E fu così anche per Roveda. A guerra finita, di ritorno dalla prigionia, Pino Roveda completò gli studi artistici e quindi lavorò nel campo della grafica. Dotato di un segno sicuro e arricchito da una profonda esperienza del disegno non gli fu difficile imporsi e farsi valere. Allora non era quello un campo così tanto aperto come doveva svilupparsi poi. Il lavoro della grafica e della illustrazione pubblicitaria era legato ancora strettamente a canoni e al gusto della tradizione: l’immagine non era ancora stata promossa a civiltà dell’immagine.
Per affrancarsi da una produzione così variamente condizionata, Pino Roveda trovò una sorta di soluzione nella ritrattistica, dapprima in termini di linguaggio puramente grafico, poi, molto più avanti nel tempo, dando sostanza all’immagine col colore, un colore inizialmente castigato, nell’attento dosaggio dei toni e nella calibrata orchestrazione dei cromatismi. Dal ritratto in posa all’immagine allegorica, simbolica e religiosa e, via via, al racconto di immagini. Situazioni e personaggi tuttavia raccontati sempre chiusi entro angusti episodi di scene di genere, secondo un repertorio ed una messa in scena pittoresca che derivavano in bene o in male dagli impianti della pittura ottocentesca.
Erano passaggi lenti, graduali, secondo una progressione sofferta e difficile, ma continua e tenace. Non gli era facile sottrarsi al vincolo del disegno rigoroso, alla puntigliosità della composizione perfetta, del colore scrupolosamente e costantemente controllato; per non dire poi dei legami così profondi con il contenuto e tutte le sue motivazioni di racconto e di significati. Pino Roveda non era temperamento da gesti eroici, né tantomeno di spavaldi travalicamenti, né di trovate disinvolte. La sua misura di onestà verso l’arte gli faceva coscienza che il suo fare artistico non era ancora divenuto esigenza estetica.
Tappa dopo tappa, nella sua pittura l’immagine cessò di raccontare se stessa, non degradata però a pretesto o a effimero supporto di altre esigenze: essa veniva coinvolta in tutta la sua integra dignità in situazioni nuove, determinate da inedite esigenze della visione. Mutava la costruzione e mutava il colore. Era come se disegno compositivo e colore si scindessero, quasi a cercare ognuno per proprio conto una travagliata autonomia. E questo fu un altro importante passo in avanti. Il segno, sempre saldo e scrupoloso nel suo rigore strutturale, andò via via sciogliendosi quasi a lasciarsi trapassare dal colore, il quale non era che tentasse di aver partita vinta sul segno, ma anche la sua stessa sostanza s’era a sua volta mutata. Più fresco, più ricco, nuovo di timbro e di tono, originale ed elegante nelle variazioni, il colore tendeva ad assumere nuovi valori di luce, di spazio, di movimento e di tempo. Apparvero così taluni scomparti pittorici dove il colore si proponeva a volte come plastica sostanza materica, a volte vibrante di lievità e trasparenze, tutto allusione (e illusione): presenza vaga e magica, come negli antichi sbiaditi lacerti di affreschi murali.
Successivamente si instaurò un patto di nuova coniugazione tra segno e colore. Questo si verificò quando l’immagine, in piena libertà ed economia di movimenti, fu portata ad impaginazioni originali e risolutive di connubio col tessuto cromatico, che eludeva ogni sua vecchia funzione di raccontare fondali, piani prospettici od elementi di sostegno o di riempimento compositivo, per stabilirsi ora come valore di luce, assumendo una presenza autonoma in una nuova strutturazione di tempi e di ritmi, per cui sembrava che l’immagine fosse quasi travolta, frantumata, rarefatta fino a venir assorbita dall’esuberante piena cromatica. Tuttavia l’immagine non veniva né rinnegata né intrigata dai nuovi svolgimenti (e significati) del colore. Anzi è proprio dall’immagine, costituitasi come fulcro, nucleo irradiatore, che s’inventa e s’orchestra il tessuto cromatico.
Nelle ultime composizioni il pittore perviene alla totale trasformazione dell’immagine in colore, in valore di luce e di movimento. Si potrebbe tentare un’etichetta per questa pittura di Roveda: impressionismo astratto. Alla preoccupazione e alla sapienza del fare artistico si aggiunge ora l’esigenza della ricerca estetica. Non è più la mimesi della realtà, la narrazione di stati d’animo affidati all’immagine, ma la ricerca di verità di puri valori, e di fatto artistico e di coinvolgimento estetico. All’ispirazione d’un tempo s’è imposta ora la profondità di pensiero, l’eccitazione, sempre controllata, del gioco intellettuale.
La severità di costruzione, il saldo equilibrio di ordine compositivo, la lucida e sapiente architettura dei piani prospettici non hanno perduto rigore e saldezza d’un tempo: la pittura di Roveda è sempre ricca e vitale, originale e coerente. Soltanto apparentemente sembra costruita di solo colore, perché, al di là del suo magico incanto, è ancora e sempre la misura calibratissima del segno che interiormente agisce ed organizza.
Gianni Vianello, Milano, febbraio 1984
Note biografiche (riproposte dal testo del 1984)
Pino Roveda è nato nel 1924 a San Vittore Olona (Milano), ove risiede ed opera in via Enrico Tazzoli 12. Manifesta in giovanissima età precoce attitudine al disegno e alla pittura, prende parte per la prima volta, nel 1938 a Milano, a un concorso nazionale di pittura (vincitore di quell’anno fu Roberto Crippa). Si interessa, quindi, al disegno tecnico e alla grafica. Nel 1942 si iscrive a Brera, dove trova come direttore Francesco Messina e Gianfilippo Usellini, Enzo Morelli, Vittore Bartolini e Guido Ballo tra i docenti.
Nel 1943 è la chiamata alle armi; successivamente è la prigionia, in Germania, sino alla fine della guerra. Tornato in Italia, riprende gli studi a Brera nello stesso 1945, con Aldo Carpi nuovo direttore e consegue il diploma nel 1947. Da allora Roveda inizia un’intensa attività nel mondo della grafica pubblicitaria, che lo porta a vivere per sette anni in Venezuela (dal 1958 al 1964) come collaboratore di una delle più prestigiose agenzie americane “Ars publicidad”, e ottiene importanti riconoscimenti nel settore. La passione per la pittura, costantemente mantenuta viva, è tra i fattori determinanti nella decisione di rientrare in patria.
Dopo un periodo di riflessione e di approfondimento, Pino Roveda si dedica esclusivamente alla pittura, con grande tenacia e costante lavoro. Riprende la tematica figurativa e approfondisce sempre più la ricerca compositiva e coloristica, sino a pervenire alle più recenti opere di ispirazione astratta.