Se è vero che molte persone, per affrontare problemi che non saprebbero come altrimenti risolvere, si rassegnano persino a “fare i malati”, è altrettanto vero che i medici, accettando di “curarle” in qualità di casi patologici, hanno la loro buona parte di responsabilità nell'aggravare quest'uso improprio della psichiatria. Se di certo si può parlare di concorso di colpa, non c'è dubbio che le equipe psichiatriche, rappresentando l'autorità medico-scientifica, dovrebbero per prime disporre in altra maniera.
Nel momento in cui uno psichiatra fornisce una diagnosi e una cura farmacologica è come se statuisse che le origini dei problemi di una persona sono:
1) di natura personale, cioè da ricercarsi e imputarsi all'individuo in questione; 2) di natura chimico-neurale, ovvero risiedono in un qualche non meglio specificato disturbo neurotrasmettitoriale.
La psichiatria compie così, con un doppio scarto – dalla società all'individuo, dall'individuo ai suoi neuroni – una riduzione del problema che va dall'intera compagine socio-culturale al cervello di un singolo individuo. L'ambito in cui i problemi andrebbero ricercati e risolti (la società, un'intera cultura) è stato gravemente ristretto non soltanto dal corpo sociale al corpo individuale, ma anche dal corpo individuale al singolo organo. In quest'operazione riduzionista, la psichiatria non è per nulla ecologica dal momento che – pur ammettendo, in teoria, che i problemi si formano in un ambiente collettivo – nella pratica interviene soltanto sul cervello dei singoli individui.
Nei secoli scorsi gli appestati, i lebbrosi e in genere i portatori di malattie contagiose venivano confinati in luoghi di isolamento, ai margini dei centri abitati. Allo stesso modo, i malati psichici, nell’Ottocento e nel Novecento, venivano reclusi nei manicomi posti ai confini delle città. Oggi, i problemi sono stati confinati dentro al cervello dei singoli. Il cervello dei singoli individui è diventato un lazzaretto, il luogo adatto in cui isolare i disagi dal resto della società, per evitarne il contagio. Ognuno ha il proprio manicomio personale, insomma. Ognuno è il suo manicomio.
A un'analisi che sia appena più approfondita, appare evidente che questo drastico riduzionismo è una soluzione di comodo per l'autoritarismo medico-scientifico, perché realizza due fondamentali obiettivi nello stesso tempo:
1) ignorando la componente socio-economica nell'origine dei problemi del singolo (esemplare il caso dell'imprenditore fallito cui viene diagnosticata una depressione, ma che non riceve alcun concreto aiuto per trovare un nuovo lavoro), mira a stornare l'attenzione critica dai problemi socio-politici, concorrendo a mantenere intatto uno status quo per nulla vantaggioso per la maggior parte dei cittadini;
2) dal momento che nel 2019 sarebbe troppo smaccatamente anti-umanitario, troppo politicamente scorretto scaricare il barile sui singoli individui, procede con la seconda mossa riduzionista: decolpevolizza le singole persone individuando l'origine dei loro problemi non in scelte e comportamenti sbagliati, bensì in un loro presunto malfunzionamento neuronale, in qualche scompenso chimico. La decolpevolizzazione va di pari passo con l'irresponsabilizzazione, attuata attraverso il conferimento di una diagnosi. Infatti una diagnosi è sempre, in prima battuta, l'istituzionalizzazione di un deficit.
Nel momento in cui qualcuno accetta una diagnosi e incomincia a prendere farmaci, è come se accettasse di restringere miseramente il suo sguardo su una questione quasi esoterica, i neurotrasmettitori? le sinapsi? la ricaptazione serotoninergica? Ma cosa c'entrano col fatto che mi hanno licenziato? Cosa c'entrano col fatto che il mio ragazzo è morto in un incidente stradale dopo che avevamo litigato? Cosa c'entra col fatto che ho dovuto chiudere il ristorante perché le tasse erano troppo alte e per di più la mia commercialista si è “sbagliata” a far di conto e io ora sono costretta a convivere con il mio ex-marito che non mi ama più e mi umilia, ma non posso permettermi un appartamento?
Chi accetta una diagnosi e una “cura” si arrende all'idea che l'origine dei problemi risieda in una carenza di serotonina, in un eccesso di dopamina, ecc. Si arrende al materialismo “chimico”, rinuncia all'esercizio del pensiero critico, accetta supinamente un'assurda visione delle cose, smette di combattere, rinuncia alla politica.
Laing, a proposito del processo di irresponsabilizzazione del malato psichiatrico, scrive:
Il gergo psichiatrico attualmente in uso ha la caratteristica di svalutare il paziente. La psicosi è un mancato aggiustamento biologico o sociale, un disadattamento particolarmente grave, una perdita di contatto con la realtà, un difetto di autocritica. Un vero e proprio vocabolario di denigrazione. Non una denigrazione di stampo moralistico, naturalmente, perché questo linguaggio è il risultato di uno sforzo fatto per evitare i concetti di libertà, di scelta e di responsabilità. Implica piuttosto un certo modo standard di stare al mondo e di essere umani con cui il malato non può competere. La malattia mentale è vista come condizione debilitante, inferiore allo standard1.
È sicuro che i farmaci possano essere di una qualche utilità nei casi in cui un individuo è afflitto da una patologia psichica davvero invalidante, ma è ancora più sicuro che questi casi siano in netta minoranza rispetto a tutte quelle sofferenze che derivano da problemi naturalmente connessi alle esperienze di vita (lutti, fine di un amore, perdita del lavoro, ecc.) o che originano dal contesto familiare e sociale in cui si vive.
Tuttavia, la psichiatria contemporanea fonda la sua proposta curativa, che è sostanzialmente e invariabilmente farmacologica, sull'assurdità dell'equazione “disturbo di qualsivoglia natura = alterazione neurochimica”.
La logica, ingenua e rudimentale, sembra essere la stessa secondo cui i body-builder sono convinti di metter su massa muscolare mangiando proteine animali, o secondo cui certi indigeni africani credevano di aumentare la loro forza vitale divorando le viscere del nemico. Saremo all'inizio del terzo millennio, ma intanto il medico che prescrive inibitori della ricaptazione serotoninica a una donna (una giovane cardiologa in carriera, perfettamente sana di mente) in lutto per il fidanzato deceduto in un incidente stradale non è meno superstizioso del dio Anubi, convinto che l'anima risiedesse nel cuore. Anubi metteva su un piatto della bilancia il cuore del defunto, sull'altro una piuma; ma gli psichiatri che pesano le sofferenze a milligrammi di psicofarmaci non sembrano essere tanto più evoluti. Se è per questo, è persino più accattivante quel disgraziato del dottor Faust che, non avendo trovato la sede dell'anima negli organi più tradizionali, va a cercarla persino nei genitali di un cadavere2. Almeno è originale.
(Estratto da: La variabile umana, Eleuthera, 2019. Per gentile concessione della casa editrice)
1 Laing R., L'io diviso, Einaudi, 1959.
2 Nella versione cinematografica del regista russo Alexander Sokurov.