È nata e vive a Milano, dove lavora come attrice, cantante, regista. È laureata in lingue con un Master in Drammaturgia performativa e comunitaria e ha studiato letteratura, musica e teatro a Milano, Dresda, Berlino e Barcellona.
Dal 2002 è attrice del Teatro della Cooperativa e coprotagonista di Nome di battaglia Lia, premiato con la Medaglia d'Oro della Presidenza della Repubblica.
Nel 2008 ha dato vita al duo teatral-musicale “Duperdu”, con il pianista e compositore Fabio Wolf. Scoperti dal maestro dei GUFI Nanni Svampa, hanno pubblicato due concept album, sono musici di casa dello Spirit de Milan e sono in scena dal 2015 nelle produzioni del Teatro Franco Parenti.
Regista dell’adattamento teatrale di Le otto montagne di P. Cognetti (Premio Strega 2017).
Dal 2010 è presidente dell'associazione di promozione sociale “Minima Theatralia”, con il coinvolgimento di cittadini-attori di diversa età, provenienza e abilità.
Sono una donna e vivo con orgoglio e sentimento il mio spirito femminile creativo, nel lavoro e nella vita. Per me lavoro significa creazione teatrale e la vita si è arricchita con l’arrivo dei miei due bimbi, così sono divenuta madre non solo dei miei spettacoli, ma anche di due creature sconosciute. Tutto il mondo è un palcoscenico e, come sappiamo dai grandi maestri che ci hanno preceduto, vita e teatro sono inscindibili. Sogno per i miei figli un mondo dove possa dominare la forza dell’arte come motore di tolleranza, umanità e bellezza a discapito di violenza e prevaricazione, dove le persone possano dare valore alla diversità e non provarne paura.
Alle volte le mie gioie sono anche dolori: uno spettacolo è come un parto, vi è la gestazione, l’ideazione, le difficoltà, gli imprevisti, l’incertezza, la paura dell’ignoto, e infine la nascita, il miracolo della creazione!
Da dove è nata la sua passione per il teatro e lo spettacolo e quali sono stati i suoi maestri?
Tutto è incominciato classicamente con una piccola bambina che amava travestirsi e truccarsi, per stupire con mirabolanti esibizioni natalizie e pasquali tutto il parentado. La passione è maturata al liceo, dove l’uditorio era ben più ricco e soprattutto oltre al virtuosismo era importante e coraggioso cimentarsi con la satira per comunicare la propria visione del mondo. Le scoperte in questo campo sono state tutte magnifiche da Morte accidentale di un anarchico fino al Vajont di Paolini per sconfinare con l’università nell’amore per il comico e poi per il circo: ero iscritta a Lingue e Letterature straniere alla Statale, la mia restava una passione, ero ancora lontana dall’immaginare che sarebbe diventato un mestiere. In viaggio Erasmus in Germania, a Dresda e poi Berlino, ho sperimentato il teatro di varietà e scritto la mia tesi di ricerca alla Humboldt Universitaet sul Cabaret berlinese “Distel”, storico teatro della DDR.
Tornata a Milano mi sono laureata e ho cominciato a lavorare come traduttrice, era il 2001 quando ha aperto nel mio quartiere il Teatro della Cooperativa di Renato Sarti. È l’anno dello spettacolo Nome di battaglia Lia che sarà l’inizio della mia strada come attrice, spettacolo che va ancora in scena oggi dopo quasi vent’anni di repliche.
Mi sono poi iscritta al “Corso di Drammaturgia Performativa e Comunitaria” del CRT (Centro Ricerca Teatrale), dove ho avuto la fortuna di consultare gli storici archivi del Teatro dell’Arte, calpestare le assi di un palcoscenico dove per la prima volta erano stati in Italia i grandi maestri del teatro europeo come Grotowski e Kantor, seguire le sperimentazioni di Emma Dante, Societas Raffaello Sanzio, Babilonia Teatri e respirare così nuova aria di ricerca e innovazione.
Altre avventure mi hanno portato in Spagna, dove ho studiato e lavorato con Estudis clown e poi ricondotto in Germania con importanti produzioni con la regista Annette Jahns, collaboratrice di Pina Bausch, e così è nato l’amore per il teatro contemporaneo che tuttora mi pervade.
Chi sono i Duperdu? Sono due per due o due persi?
I Duperdu sono un duo teatral-musicale che è nato perché cercavo un pianista per uno spettacolo ispirato all’opera di Brecht e… ho trovato un marito! Fabio Wolf è un singolare pianista cantante intrattenitore e compositore delle cui musiche mi sono subito innamorata, completandole con parole e azioni sceniche. Da allora in poi la nostra fusione è stata totale, tanto da non ricordare più chi ha scritto cosa.
“Duperdu fa quatter” e in effetti ci siamo moltiplicati e abbiamo due figlioli, Plinio e Dalia, che coinvolgiamo nelle nostre peregrinazioni teatral-musicali, come depositari del nostro futuro umano e artistico. Ma Duperdu “hinn anca duu che hinn dree a cercà la strada per tornà a cà e la troeven minga”, ovvero amiamo perderci nei meandri della nostra ricerca che mai volge al fine e che sempre ci stupisce e ci incanta.
Nel duo “Duperdu” si esibisce, dunque, assieme al musicista e compositore Fabio Wolf, che è anche suo marito, in che modo vi s'intrecciano la componente femminile e maschile?
Le donne vengono da Venere e gli uomini da Marte, parlano due linguaggi diversi, a volte non si comprendono. Per noi la comprensione sta nella complicità della creazione che smussa gli spigoli e ci fa meglio digerire anche la quotidianità, fatta di aspetti meno affascinanti, come la routine.
Mentre cambiamo pannolini, ci confrontiamo sulla valenza della musica negli spettacoli, nei progetti, nei laboratori teatrali di quartiere.
Per converso cerchiamo di sfruttare le peculiarità delle due diverse componenti. La parte femminile agisce con una visione globale dei progetti, avvolge, pianifica, coordina, concilia.
Wolf è più focalizzato sull’hic et nunc, sulla soluzione da trovare in breve tempo, risolve i problemi puntuali, poiché ha una grande capacità di concentrazione delle energie e di sintesi delle istanze. Oltre a ciò, siamo riusciti a ben integrare anche le nostre singole personalità, per cui non in tutti gli aspetti della nostra vita comune vige la canonica suddivisione dei compiti: lui cucina molto bene e io monto le mensole felicemente.
Ha fondato e presiede la compagnia “Minima Theatralia”: ce ne può sintetizzare il significato e le finalità?
Durante il periodo di studio al CRT, diciamo la mia “accademia”, ho approfondito la teoria del cosiddetto “Applied Theater”, ovvero il Teatro applicato al benessere sociale, il teatro che utilizza il laboratorio come strumento di rigenerazione urbana, lavora con le persone qualunque siano le loro abilità, provenienze, possibilità. Si trattava del bisogno di apprendere le tecniche di conduzione dei laboratori teatrali - che per noi teatranti significa anche potersi mantenere non solo con il mercato degli spettacoli che sono un’incognita ogni anno - ma era soprattutto la ricerca di dare un senso a ciò che stavo intraprendendo come mestierante del teatro, attrice e regista di spettacoli, e non era distante dall’immenso lavoro di teatro civile del mio maestro Sarti, solo le modalità apparivano tutte nuove e da sperimentare. Questa urgenza mi ha portato a immergermi nei territori con la foga dell’esploratrice, a caccia di storie, conflitti, sofferenze e gioie da condividere e raccontare. E ho scoperto la potenzialità della musica nel rendere universali i sogni. Ho iniziato nel 2010 nel mio quartiere per poi estendere il lavoro a tutto il nordovest milanese, in quelle periferie dell’anima, con la convinzione che “il teatro sia uno strumento di incontro realmente rivoluzionario per le nostre vite e per le nostre solitudini”.
Quando propone un Teatro Sociale e di Comunità: cosa intende?
Mi rincresce dover essere un poco tecnica nella risposta seguente, ma non riesco ad esprimere altrimenti questi percorsi complessi e sempre diversi, che necessitano la compresenza di competenze specifiche e presuppongono il lavoro sinergico di un collettivo di artisti e tecnici. Il Teatro Sociale e di Comunità crea performances immersive people and site-specific, che promuovono le relazioni e le risorse creative di un territorio nei processi di riqualificazione, con artisti professionisti dello spettacolo e dell’arte insieme a cittadini-attori di diversa età, abilità e provenienza. Tutto nasce dai laboratori di quartiere: un laboratorium in senso grotowskiano in cui ognuno possa portare la propria energia generatrice. Il processo è pensato all’inverso rispetto al teatro tradizionale, dove la scintilla tematica è innescata dalla scelta di un testo-pretesto-autore da cui partire. Nel quartiere si annuncia: quest’anno lavoreremo su Shakespeare (oppure Brecht, Cervantes, Jodorowsky), cosa vi ricorda-suscita-risveglia questo autore? Si procede con interviste e parate, mappatura e ricerca di tutte le espressioni artistiche già operanti localmente, durante il laboratorio si sperimentano varie modalità espressive che connettono il vissuto personale alle parole dei grandi autori. Si creano spettacoli e performances sulla base di questo spunto comune. Il risultato è la Festa di Quartiere: un evento extra-quotidiano e rituale, che celebra i valori di riferimento e le istanze simboliche della comunità appoggiandosi alla rete dei quartieri, coinvolge i commercianti locali, favorisce la partecipazione attiva del pubblico. Una metamorfosi della periferia che trasforma la zona e chi la vive in un’opera d'arte vivente. Nei quartieri spettacoli, concerti, installazioni e performance con la partecipazione attiva di tutti. Proprio tutti.
Componenti della sua “poetica” sono il surrealismo, gli “atti psicomagici”, “l'oggetto simbolico” ... può raccontarci?
Mentre maturavo esperienza come attrice e regista - sia singolarmente sia in duo come Duperdu - soprattutto per il Teatro della Cooperativa e il Teatro degli Incamminati, ma anche con ATIR, Filarmonica Clown, Gigi Gherzi, Donatella Massimilla, Lorenzo Loris, portavo avanti la ricerca nei quartieri a Niguarda, Bovisa, Affori, Comasina, ma anche San Siro, Gratosoglio, Barona con questo format di Teatro Sociale e di Comunità. Sorprendentemente è arrivata la chiamata di Andrée Ruth Shammah per una produzione del Teatro Franco Parenti in cui come Duperdu eravamo invitati a comporre musiche e canzoni originali dello spettacolo Opera Panica di Jodorowsky. Studiando la sua opera ci siamo accorti di quanto potesse essere “giusta” la sua poetica per il lavoro sulla comunità. Trovare quindi modalità per raccontare le storie delle persone senza essere “pornograficamente televisivi”, cioè ascoltando e valorizzando le esperienze di vita e filtrandole con il mezzo della letteratura e del teatro, elevando queste quotidianità ad opera d’arte e legittimando la possibilità espressiva delle persone che tante volte – attanagliati dai problemi della vita e dalle impietose burocrazie - non si concedono di percorrere le strade della creatività e della fantasia.
Anche qui la battaglia sta nel superare le difficoltà con la creatività. Per esempio: per far conoscere il nostro lavoro nel quartiere mi sono inventata la raccolta dell’oggetto simbolico. Il problema di questo tempo informatizzato è l’indifferenza, la reclusione in casa e la reticenza alla partecipazione. Però, laddove c’è un difetto il teatro trova il suo valore. Mi spiego meglio. Abbiamo detto al quartiere: per fare il nostro spettacolo abbiamo tutto, ma ci mancano i bottoni! L’anno dopo centrini, poi lenzuola, poi cerniere. Quindi le persone si sono mobilitate e ci hanno letteralmente sommerso. Cosa ci farete? Faremo uno spettacolo grandioso che racconta la storia del quartiere e dei suoi abitanti, e costruiremo le scenografie e i costumi con tutti gli oggetti che ci avete donato. Ecco perché questo semplice oggetto che ognuno può avere in casa, diventa la rappresentazione scenica della comunità. Diventa quindi un simbolo della forza della collettività: un piccolo bottone da solo non vale quasi nulla, ma tutti insieme formano qualcosa di magnifico!
Ha collaborato e collabora con diverse realtà teatrali milanesi: che idea si è fatta della peculiarità e dell'offerta del teatro milanese?
Milano è la capitale del teatro italiano ed è un grande privilegio poter operare in questa città così ricca di punti di vista diversi, confronto con grandi artisti e con artisti emergenti e di sperimentazione in tutti gli ambiti dell’arte. Siamo grati al Teatro Franco Parenti, al Teatro della Cooperativa e ai tanti teatri che hanno il coraggio di accogliere e sostenere le nostre proposte uscendo dagli schemi e ci danno la possibilità concreta di continuare la nostra ricerca.
La sua attività è rivolta molto alla scoperta e alla caratterizzazione della periferia milanese: quali sono le componenti sociali e i problemi aperti?
Della periferia colpiscono in primis le architetture, i paesaggi urbani, che modificano e condizionano i corpi e le menti di chi li abita. Scovarne la bellezza e l’unicità è la vera sfida del teatrante assetato di verità. Chi vive nella periferia spesso è emarginato dai processi culturali, talvolta si rinchiude in solitudine, ignorando l’offerta del territorio in cui vive. Palazzi anonimi e impersonali dove la relazione, la solidarietà, la cultura vengono meno. Spesso nelle periferie tante associazioni si ingegnano per creare nuove possibilità, inventano progetti sostenuti dalle istituzioni per offrire servizi gratuiti, ma le persone faticano a usufruirne. Negli ultimi dieci anni ho assistito a un netto miglioramento della situazione per quel che riguarda una sempre più capillare e specifica offerta culturale, unitamente a una sensibilità delle istituzioni pubbliche e private, purtroppo però permane il più grande problema: l’assenza del senso di comunità. Ma negli ultimi anni tale senso di appartenenza a una collettività vibrante si è sviluppato in tanti quartieri, dove gli abitanti si sono raccolti in una vicinanza dettata dai bisogni sopraggiunti con la grande crisi e forse negli anni a venire bisognerà tornare a lavorare nel centro della città dove è difficile riconoscersi e incrociare gli sguardi con serenità e sentimento di comunanza.
In particolare, un ex comune autonomo come Niguarda, dove lei vive e opera, in che modo si rapporta con la “grande” Milano?
Niguarda è un caso davvero particolare, dove la memoria storica è tuttora radicata, pullula di realtà culturali, in cui il teatro dopo quasi vent’anni di attività è diventato un imprescindibile punto di riferimento. Qui vi sono le abitazioni di ABITARE, storica cooperativa residenziale, i cui vivissimi sono ancora i principi cooperativistici. Niguarda mantiene l’aspetto del vecchio borgo – è stata annessa a Milano nel 1923 – e ancora oggi qualche anziano, quando si imbarca sul tram numero 4 in direzione centro, dice: vado a Milano!
Noi Wolf abbiamo i bambini e viviamo e ci sentiamo parte di una comunità attiva dove la solidarietà e il mutuo soccorso sono pane quotidiano e non si debbono insegnare a nessuno, semplicemente si imparano vivendo a Niguarda.
Come hanno risposto i niguardesi alle sue proposte culturali?
A Niguarda sono apprezzata come artista, un mio ritratto appare addirittura nel Wall of famous di Niguarda, ovvero una parete con i ritratti dei famosi frequentatori di Niguarda, fra cui Paolo Rossi, Claudio Bisio e molti altri: il baretto della storica Cooperativa! Sono orgogliosa di appartenere a questo quartiere, le persone mi conoscono e mi seguono e io mi sento sempre a casa anche in teatro, ecco la bellezza di unire il teatro alla vita!
Se dovesse inventare una favola/fiaba intitolata “Niguarda”...
L’ho già fatto! Si intitola Epopea dell’irrealtà di Niguarda, ovvero la storia del quartiere riscritta con filtro surrealista insieme alla mia collega autrice Francesca Sangalli. Per fare un esempio, un episodio: in seguito a un combattimento poetico fra due scrittori si è creato una tempesta spaziale e il meteorite è caduto proprio alle coordinate 8769875975, ovvero via Hermada 8, dove attualmente c’è il teatro; dalle macerie dell’impatto è sorto un attore egiziano che si è esibito qui per la prima volta con un numero triste e allegro al tempo stesso, al ritmo di musica e poetando illuminato da una palla di specchi. Parafrasando: un cittadino-attore egiziano amante del teatro ha improvvisato durante una sessione di laboratorio, danzando accompagnato dalla musica del maestro Wolf e raccontando la sua storia mettendo una in fila all’altra le poche parole italiane che conosceva… e così, grazie anche alla fantasia del gruppo, è nato questo racconto surrealista!
Buona parte del suo repertorio è in lingua ambrosiana: che cos'ha in più o in meno il dialetto rispetto all'italiano?
Credo di essere una delle pochissime milanesi della mia età che si esprime ancora spontaneamente in milanese, grazie a ciò ho potuto lavorare recentemente anche con la grandissima Maddalena Crippa. Il dialetto ha l’immediatezza del contingente e la vivacità del popolo, la grandezza del sublime e la libertà del comico.
Che rispondenza e che incidenza reputa che abbia oggi il dialetto nell'ambito cittadino, e in particolare nei giovani?
I dialetti scompaiono in funzione della lingua italiana, del lavoro, della scuola, della globalizzazione. Mantenerli vivi e vegeti è un’impresa. Sono vere e proprie lingue. Io lo ho studiato con lo stesso approccio con cui ho studiato il tedesco, lo spagnolo e l’inglese. I dialetti che si affievoliscono sono la lampante conseguenza del deterioramento progressivo del senso di comunità e soprattutto nel Nord Italia la miscellanea di genti che ha popolato Milano ha ristretto il suo utilizzo a pochi anziani. La gioia e la vitalità nella loro conservazione però è molta anche nelle nuove pulsanti imprese culturali, una per tutte lo “Spirit de Milan”, una fabbrica rigenerata ai fini della cultura e della musica che dal 2015 è diventata un’altra delle nostre “tane artistiche”.
Uno degli obiettivi delle sue proposte è la scoperta o la riscoperta di una Milano nascosta: ci può indicare qualche luogo, evento o personaggio da ricordare?
Vi racconto due aneddoti che abbiamo musicato e che compaiono nei nostri dischi: il primo dedicato a Milano Chiameròlla Milano e il secondo dedicato alle donne La canzone è femmina.
California niguardese, il primo brano, parla dello storico passaggio di Buffalo Bill a Niguarda. 1906: Milano invasa da indiani e cow-boys tutti al seguito del Buffalo Bill Wild West Circus. Con Toro Seduto in persona. Nell'antica piazza d'armi effetti sorprendenti, naumachie nell'arena, inseguimenti, caccia al bisonte. Non potendo però le mandrie sostare nel centro città per evidenti ragioni di decoro, venivano portate ogni sera fuori dalle mura della città nel borgo di Niguarda, ove vi era un cascinale. Uno dei mandriani - Johnny - seduce la bella Rosina.
Il secondo Una regina alla Barona, parla della vera storia di Carolina di Brunswick, sposa ripudiata dal re d’Inghilterra Giorgio IV. Durante il suo Grand Tour italiano s’innamora di un personaggio ricordato anche dal poeta milanese Carlo Porta: l’ufficiale asburgico Bergomi. Con lui intesse una scabrosa relazione, consumata alla cascina Barona, teatro dell’antica festa contadina delle “Centovacche”. Culmine dell’evento, una fanciulla ignuda veniva servita su un piatto d’argento: la vacca a due zampe. Re Giorgio ne fu disgustato e Carolina rimase regina senza regno e sposa senza marito.
Infine posso citarvi l’incontro con una personalità straordinaria della Bovisa, lo scrittore Paolo Cognetti, del cui libro Le otto montagne - vincitore del Premio Strega 2017 - ho avuto l’onore di mettere in scena l’adattamento teatrale.